“Io penso positivo”. La canzone di Jovanotti – scrive Gian Luca Spessot sul “Guerin Sportivo” del 10 aprile 2007 – potrebbe essere la colonna sonora di Hasan Salihamidžić, eterno ragazzo che è dovuto diventare uomo in fretta. È nato il primo gennaio del 1977 a Jablanica, una cittadina che ora si trova in Bosnia ma che all’epoca faceva parte della Jugoslavia, poi smembrata da una guerra che ha insanguinato i Balcani. Salihamidžić ha vestito la maglia delle rappresentative giovanili di una Nazionale che oggi non c’è più ma poi, quasi all’improvviso, alcuni dei suoi ex compagni hanno bombardato quel fazzoletto di terra, dove viveva la sua famiglia e così è stato costretto ad abbandonare i campi di gioco per rifugiarsi nei bunker.
Quando Hasan aveva quindici anni, il padre decise che suo figlio non poteva rischiare ogni giorno la vita e lo fece salire su un autobus per Amburgo, dove ad attenderlo c’erano dei conoscenti. Nella città anseatica Hasan ha continuato a giocare e il suo talento non è passato inosservato ai tecnici dell’Amburgo, dove ha militato nelle giovanili e nella squadra Amatori prima che Felix Magath lo facesse esordire in Bundesliga. Ha lasciato il Nord della Germania da attaccante ma si è imposto nel Bayern da universale. In Baviera ha vinto tutto: sei Meisterschale, quattro coppe di Germania, un’Intercontinentale e una Champions, conquistata a Milano sul Valencia nel 2001. Disputò un’ottima gara e fu uno dei rigoristi che decisero dal dischetto la finale. Dopo quindici anni lascia la Germania e viene a cercare fortuna Italia con la Juventus. Conosciamolo.
– Complimenti per il gol che ha chiuso il big match con lo Schalke. Dica la verità, ha preso la mira? «Sì, volevo evitare di calciare rasoterra e il pallone è andato all’incrocio».
– Mi scusi, non le ho chiesto se dobbiamo parlare italiano o tedesco? «Tedesco, tedesco».
– Nessun problema, ma come va con l’italiano? «Studio ogni giorno perché vorrei impararlo in fretta: un calciatore che si trasferisce all’estero deve, da subito, essere in grado di comunicare con i compagni e con la gente. Ho iniziato a prendere lezioni quando ho firmato il contratto e direi che tutto procede per il meglio».
– La sua compagna è spagnola (Esther Copado, sorella di un ex giocatore dell’Unterhaching, nda): in che lingua comunicate? In fondo lo spagnolo è simile all’italiano e le potrebbe tomare utile. «In famiglia si parla tedesco, ma naturalmente sento spesso lo spagnolo e ogni tanto provo anche a scambiare qualche parola. Non posso dire di saperlo ma riesco a capire e a farmi capire. Lo spagnolo mi aiuta, ma voglio imparare l’italiano, lo studio volentieri perché è una bella lingua e penso di essere uno che apprende velocemente. Credo sia fondamentale parlare la lingua del paese dove si gioca».
– Cosa l’ha portata a scegliere l’Italia? «Fa sempre piacere giocare in un paese bello come l’Italia ma non è questo il solo motivo della mia scelta. Quando ti cerca la Juventus, un club dalle tradizioni così prestigiose, quando hai la possibilità di giocare nella squadra più importante d’Italia, ciò ti riempie d’orgoglio e non c’è quasi bisogno di scegliere».
– La Juve però è in B: non ha mai temuto di dover giocare fra i cadetti? «Mai, perché ho deciso di andare in uno dei più grandi club del mondo e in una squadra che mi piace. Per me rappresenta una sfida venire in Italia, in uno dei campionati più forti d’Europa. Mi auguro di giocare nella massima serie, ma non avrei nessun problema a scendere in B. Poi la situazione attuale della Juventus mi dà maggiori motivazioni».
– Lo confessi, da bambino tifava per la Juventus? «Sì, fra le squadre italiane è sempre stata la mia preferita e mi ha riempito d’orgoglio sapere che mi voleva».
– Un suo connazionale, Vedin Musić, gioca in Italia, così come il suo ex compagno Robert Kovač. Le hanno dato qualche consiglio? «Ho sentito Robert ma non ho avuto bisogno di consigli: mi è bastato pochissimo per decidere di andare a Torino, senza chiedere mente a nessuno».
– Nell’Amburgo, a inizio carriera, si è imposto come attaccante mentre nel Bayern ha giocato in tutte le zone del campo. Qual è il suo ruolo preferito? «Penso che per un allenatore sia importante avere a disposizione un giocatore in grado di ricoprire diversi ruoli. Sono solito giostrare a centrocampo ma spesso mi hanno chiesto di fare il terzino, destro e sinistro: la posizione non conta, fondamentale è essere utile alla squadra».
– Probabilmente andrà a prendere il posto di Camoranesi. Cosa le manca e cosa ha in più dell’italo-argentino? «Camoranesi ha vinto il mondiale ed è uno dei migliori del mondo nel ruolo ma non spetta a me fare i confronti. Sono gli altri a dover giudicare: io sono stato preso per giocare non per fare paragoni».
– Proviamo a conoscere un po’ più a fondo Hasan Salihamidžić. Si dice che sia sempre di buon umore e molto disponibile con tutti. È così? «Non è facile e non mi piace parlare di me. È vero, sono quasi sempre di buon umore, ma una cosa la posso dire senza paura di essere smentito: in ogni allenamento e in ogni partita do sempre il massimo perché non voglio mai rimproverarmi di non aver fatto il possibile per vincere. Tutto il resto non conta: conosco le mie qualità e i miei punti deboli ma sono gli altri a doverli individuare. Sono dell’opinione che la grandezza di un giocatore sta nel conoscere e valorizzare ciò che sa fare meglio».
– Stefan Effenberg ha detto che lei dorme con le dita infilate nella presa della corrente. Una battuta che nasconde qualche verità? «Lo disse perché sono sempre di buon umore e ho tanta energia. È stata una bella battuta che ancor’oggi mi accompagna».
– Come trascorre il tempo libero? «Ho tre figli, Nick, Celina e Lara, siamo una grande famiglia. I bimbi non mi lasciano molto tempo libero e quindi non ho bisogno di hobby particolari, anche perché coi miei figli gioco davvero volentieri».
– Non tutti in Italia conoscono il suo soprannome. Cosa significa Brazzo? «Me lo hanno dato in Bosnia e significa più o meno ragazzino, giovanotto. Me lo sono portato in Germania e mi piace ancora oggi».
– Nel 1996 a Sarajevo con la Bosnia superò 2-1 l’Italia segnando il primo gol del match. Ricorda quel giorno? «Certo, ma sono passati più di dieci anni. Rimane il ricordo di una bella giornata».
– La Nazionale è ormai un ricordo? «Sì, ho smesso di giocarci».
– Ma se la Bosnia dovesse qualificarsi per l’Euro 2008? «Con la Nazionale è un capitolo chiuso. Ho deciso di dire addio perché mi volevo concentrare sul mio club e anche perché avevo già giocato molti anni per la Bosnia. Sono contento che i miei connazionali abbiano accettato questa scelta senza polemiche».
– Ha lasciato la Bosnia a quindici anni. Ci torna spesso? Com’è cambiata in questi anni? «È completamente diversa. Quando me ne andai c’era la guerra, molti edifici erano distrutti. Ritorno spesso in Bosnia e ci vado volentieri. Lì abita la mia famiglia che al telefono sento quasi ogni giorno. So tutto quello che succede, anche perché sono molto legato a loro. So quali sono le mie radici e so da dove vengo».
– Può svelarci se la Juve sarà la sua ultima tappa da calciatore e cosa farà una volta appese le scarpe al chiodo? «Non ne ho idea. Ho firmato per quattro anni e mi auguro che tutto giri al meglio, ma sono in questo mondo da tanto tempo e so che nel calcio è difficile fare programmi, che il vento cambia velocemente direzione. Spero di poter vivere quattro anni di successi, poi vedremo. Per il momento sono contento e orgoglioso di poter giocare nella Juventus».
– Non sa nemmeno dove andrà a vivere? Lei è bosniaco, sua moglie spagnola. «Difficile dare una risposta. Sto per arrivare in Italia dopo aver rescisso tutti i legami con Monaco, dove non lascio case o appartamenti. Sono dell’opinione che quando si va all’estero lo si deve fare con convinzione e con passione, cercando di identificarsi il più possibile con il nuovo paese. E poi io sono fatto così: se faccio una cosa la voglio fare bene».
– Insomma, ai suoi nuovi tifosi promette di dare il massimo come sempre. «Non potrebbe essere diversamente!».
SIMONE STENTI, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL NOVEMBRE 2007
Esiste soltanto una finale più folle, emozionante, a rischio coronarie del 3-3 tra Milan e Liverpool del 2005. Una partita che fotografa alla perfezione la bellezza del calcio e, probabilmente, dello sport in generale. Anzi, la bellezza della vita, che proprio nei momenti più bui ti sa regalare la forza per riemergere e rinascere. Quella finale si giocò al Nou Camp di Barcellona il 26 maggio 1999, una data che Hasan Brazzo Salihamidžić non dimenticherà mai più.
Il suo capitano, l’immenso Lothar Matthäus, all’80’ esce dal campo e dal calcio europeo che conta (nel 2000 emigrerà ai N.Y. Metrostars) salutato da una standing ovation. Lo fa da campione d’Europa virtuale, l’unico titolo che gli manca nel suo stellare palmares. Il Bayern sta vincendo 1-0 col Manchester United dal sesto del primo tempo, grazie a una punizione di Super Mario Basler. È proprio il marcatore tedesco a essere sostituito da Brazzo al 44’ del secondo tempo. Un cambio che per l’allenatore, Ottmar Hitzfeld, è solo un modo per perdere tempo e per avvicinarsi al trionfale triplice fischio dell’arbitro Collina. Quando i suoi tacchetti toccano l’erba del Nou Camp per la prima volta, Hasan non può sapere che dopo tre minuti quella coppa l’avrà persa, nella partita che per gli inglesi è il The Greatest Match. Bastano due minuti di recupero, prima per nonno Sheringham poi per Babe Faced Assassin Ole-Gunnar Solskjaer, per siglare il 2-1 che tutti i tifosi del mondo invidiano a quelli dei Reds. O, se sono di Monaco, la sconfitta che non scacceranno mai più dai loro incubi. «È stata una scuola non soltanto di calcio, ma di vita. Quei cinque minuti mi hanno insegnato a non voler mai più perdere. Hanno cementato la squadra ed è stato il seme da cui è germogliata la vittoria del 2001».
– Già, in finale col Valencia, dove vinceste proprio qui in Italia, al Meazza. Non fu una partita granché spettacolare: si concluse ai rigori e anche tu ne segnasti uno. «È complicato anche soltanto descrivere che cosa si provi quando il tuo capitano alza la coppa. È l’emozione più grande della tua vita di calciatore. Sono orgoglioso di averla provata almeno una volta... be’, forse sarebbe stato meglio fossero state due».
– Hai sempre tempo. Nel qual caso, caro Brazzo, la seconda volta cerca di viverla qui con noi. «Certo, ora per noi quel torneo è soltanto uno spettacolo televisivo, ma così non ci piace per niente. Io sono venuto qui con l’obiettivo di giocare di nuovo in Europa».
– Già dal prossimo anno? «Te lo ripeto: sono qui per giocare la Champions».
– Nel frattempo, però, c’è il campionato. Dove arriveremo? «La stagione è così lunga che tutto è possibile. Ma non dimenticare che noi siamo la Juve e vogliamo vincere».
– Mica male come grinta. «Ho giocato nove anni nel Bayern. È una società dove non hai alternative: devi vincere. Vivi quotidianamente con quella pressione e diventa parte della tua vita».
– Hai trovato differenze rispetto all’ambiente bianconero? «Per niente. Anche qui, come a Monaco, si vuole essere sempre primi. Questo atteggiamento fa per me, anche per questo quando ho firmato per la Juve sapevo che mi sarei trovato perfettamente a mio agio».
– E tra Serie A e Bundesliga vedi diversità? «Ah, non c’è dubbio che qui il tasso tattico sia più elevato. Fisicamente l’impostazione del gioco è simile, ma qui quando vinci 1-0 stai molto più attento. Non dico che in Germania sia come nella Premiership dove l’unica cosa che conti sia attaccare e, quando si riesce, segnare, ma certamente la Bundesliga è concettualmente più vicina all’Inghilterra che non all’Italia».
– A proposito di tattiche, qui non abbiamo ancora capito se sei un difensore di fascia, un centrocampista, una punta come ai tempi dell’Amburgo. Insomma, se Ranieri ti chiedesse di giocare dove vuoi, in quale parte del campo ti metteresti? «Ranieri non me lo chiederà. E non mi dispiace neppure: credo anzi che gli allenatori abbiano piacere ad avere un giocatore che possa giocare a destra, a sinistra, davanti, dietro. Nel Bayern ho giocato davvero ovunque».
– Ma un ruolo d’elezione l’avrai. «Dentro mi sento centrocampista. Ma, davvero, non è importante».
– A proposito di allenatori, al Bayern eri allenato da Felix Magath. Sai perché è tanto famoso qui da noi? (ride) «Eh, se lo so! È stato il mio primo allenatore nel calcio professionistico nell’Amburgo ed è stato l’ultimo al Bayern. Lui non è un allenatore qualsiasi: è stato un grande campione e un uomo di calcio vero. Siamo molto amici e gli voglio molto bene».
– Da quello che si dice nello spogliatoio, non è difficile esserti amico. Ma se devi invitare un compagno cena, chi chiami? E, soprattutto, in che lingua comunicate, visto che tu ne parli fluentemente quattro e ora stai pure imparando l’italiano? «In ritiro divido la stanza con Jonathan Zebina, ma a cena vado volentieri con tutti. Qui alla Juve parlo in spagnolo o in inglese. In tedesco no, non c’è nessuno che lo capisca. Ma sto facendo grandi progressi anche con l’italiano. È importante che lo impari bene».
– Per capire meglio le tattiche? «No, per cazzeggiare. Quando si scherza, voglio essere parte del gioco».
– E nella tua carriera precedente con chi hai legato di più? «Con Jens Jeremis e Torsten Frings».
– Guardi la tivù italiana? «Scherzi? Non faccio altro».
– Immagino... e cosa guardi? «Faccio zapping furibondo su SKY. Ma alla fine guardo solo un paio di film alla settimana. E, se capita, qualche partita di Champions. Per il resto, comandano i bambini».
– Nel senso che hanno pieno controllo del telecomando e impongono i cartoni animati? «Per niente. I cartoni si guardano soltanto nel weekend. Il resto della settimana la tivù rimane spenta. Stiamo insieme: mia moglie Esther, che è spagnola, e i miei tre ragazzi».
– Mi pare piuttosto sano, come gran parte delle tue scelte familiari. Dove vivete? Avete già fatto a tempo a conoscere Torino? «Per due mesi ho vissuto in centro, in quello che era l’appartamento del mio connazionale Darko Kovačević, che oggi è in Grecia all’Olympiakos. Ma io ho bisogno di maggior quiete, più tranquillità e allora ci siamo trasferiti a Moncalieri, che comunque mi permette di arrivare in centro in un quarto d’ora. Bruno mi è molto riconoscente».
– E chi sarebbe costui? «Il mio cane da caccia».
– Allora, vado per assonanza: tu hai giocato anche con Kahn. Chi è il più forte tra lui e Buffon? «Pessima domanda».
– Uhm... in effetti. Ma trattandosi di due tra i più grandi portieri d’Europa di tutti i tempi è un confronto che chi ci ha giocato assieme può anche provare a fare. «Non c’è dubbio che Oliver fu il migliore, non solo del continente, ma del mondo, tra il 1999 e il 2002. Oggi è il turno di Gigi. Ma quello che li accomuna è fuori dei pali: prima che grandi sportivi, sono grandi uomini con personalità fortissime. Ma, ripeto, non è una gran domanda, anche perché mi costringerebbe a parlare almeno un’ora per ciascuno».
– Indossi il sette, un numero indossato da grandissimi campioni che hanno scritto pagine importanti della storia della Juve. Ne conosci qualcuno? «Non l’indosso a caso: ho preso il sette per Gianluca Pessotto. L’ho visto giocare e mi sembra che interpretasse il gioco come piace a me: dedicandosi alla squadra. Poi, quando sono arrivato qui ho imparato a conoscerlo anche come persona. E il giudizio positivo non è stato soltanto confermato, ma si è amplificato».
– Segui le vicende italiane, sai dirmi il nome di qualche nostro politico? «Conosco soltanto Berlusconi, ma non in veste di politico: come presidente del Milan. La politica non mi coinvolge. Nemmeno quella italiana».
– Allora, finiamo in bellezza: perché la Juve? «Ho giocato per tanto tempo in un club di grande storia e tradizione. Prendere in considerazione di lasciare il Bayern, quindi era possibile soltanto se si fosse fatto avanti un club di equivalente spessore. È arrivata la Juve e non ho avuto dubbi. Ho sempre sognato di poter giocare in un grande club italiano e la Juventus è il più grande in assoluto».
– Sembra una frase fatta, quella del sogno di giocare qui. «Per me è la realtà. Sono emigrato in Germania che avevo quindici anni, ma prima il mio riferimento calcistico era l’Italia. In Jugoslavia guardavamo questo campionato e la squadra che dominava era la Juve. Per me il calcio italiano era bianconero. Ho realizzato anche questo sogno».
– Ne hai qualcun altro? «Non abbiamo già parlato di Champions?».
L’esordio con la maglia bianconera in Serie A avviene il 25 agosto nella vittoria contro il Livorno mentre, un mese dopo, realizza il suo primo gol, contro la Reggina. Termina la prima stagione bianconera con ventisei presenze e quattro4 gol, tra cui spicca la doppietta decisiva nella partita del 12 aprile 2008 contro il Milan, vinta 3-2. «Il signor duttilità adesso è tra i nemici pubblici del Milan: emerge da un primo tempo abbastanza anonimo per ribadire in rete la palla deviata da Trézéguet. Sbuca nell’area del Milan, sguarnita dall’uomo in meno, per la zuccata decisiva. Brazzo di ferro», è il commento del “Corriere della Sera”.
Grazie alla sua innata simpatia e al suo modo di giocare senza risparmiarsi mai, Brazzo diventa l’idolo della tifoseria juventina ed è molto apprezzato anche dai propri compagni di squadra. Il Mister Ranieri, poi, stravede per lui. «Uno che sa far tutto, il tipo di giocatore che qualsiasi allenatore vorrebbe avere», afferma il trainer bianconero.
La stagione successiva, purtroppo, è molto problematica, a causa di un problema al menisco del ginocchio destro. Segna il suo primo e unico gol stagionale il 14 marzo 2009, nel match casalingo di campionato vinta 4-1 con il Bologna, in cui regala anche due assist per la doppietta di Del Piero. Alla fine, totalizza solamente quindici presenze.
Disputa la prima partita del campionato 2009-10 contro il Chievo ma nella stessa gara si infortuna ed è costretto a stare fuori dai campi di gioco per ben tre mesi. Torna contro il Catania (sconfitta a Torino per 1-2), in cui segna anche il gol del momentaneo pareggio e si ripete la giornata dopo al Tardini contro il Parma (2-1 per la Vecchia Signora) segnando il gol dell’iniziale 1-0. Il suo score finale recita: diciannove presenze e due gol.
Non rientrando più nei piani della società, in seguito alla mancata cessione nel calciomercato dell’estate 2010, è messo fuori rosa dall’allenatore Delneri. Torna in gruppo nei primi giorni di settembre, nella sfida contro il Cesena, a causa dei tanti infortuni dei propri compagni. È il 7 novembre 2010 e Brazzo, entrando al 78’ con un assist perfetto, permette il gol a Iaquinta per il 3-1 finale.
Il 4 luglio 2011 ritorna in Germania, accasandosi, a parametro zero, al Wolfsburg. «Che orgoglio essere parte della storia di questa stupenda società. La Juventus mi è rimasta nel cuore e sarà parte della mia vita per sempre. Qui ho trascorso quattro anni bellissimi. Anche se non ho vinto niente, ho trovato amici per la vita. La società mi è rimasta nel cuore», sono le parole di commiato di Brazzo.
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