Prima di lui il pallone era inteso solo per assestargli solenni calcioni – ricorda Caminiti – c’era chi ci si dilettava con palleggi di sconfinata amorosità, come il terzo dei cinque sciagurati fratelli Cevenini, che si fumava cento sigarette al giorno e tutti i portieri della terra, compreso Combi che faceva impazzire in allenamento: «Noi mordevamo il freno a Vercelli per dover giocare senza prendere una lira», ha raccontato un giorno degli anni Sessanta Viri Rosetta, cinquantadue volte azzurro, mille volte campione.
Giocava con la testa, nel senso che usava i due piedi in modo perfetto, evitando scrupolosamente di sporcarsi i capelli sempre imbrillantinati. È possibile che non abbia mai colpito il pallone di testa. Nella sua Juventus, a questa incombenza provvedevano in parecchi, soprattutto Monti e Bertolini.
«È stato il più grande terzino da me conosciuto – ha detto Giovanni Ferrari – nel gioco di testa non era un campione, ma il suo senso della posizione gli permetteva di fare a meno di quest’arma. Non si allenava molto e per questo in campo non lo si vedeva mai scorrazzare in lungo e in largo. Sbarrava la sua zona e basta. Quanto agli accordi con il portiere, lui passava il pallone a Combi a occhi chiusi o, per lo meno, senza guardare. E novantanove volte su cento Combi era là. La centesima volta, beh, era perdonato, tanto più che in genere un gran balzo di Combi ci metteva ugualmente una pezza».
La Juventus aveva preso ad apprezzarlo nella Pro Vercelli. Dal settembre 1923 (da due mesi Edoardo Agnelli era presidente bianconero) dura l’amore juventino. La Pro Vercelli venne a giocare una partita nel primo campo in cemento d’Italia, quello di Corso Marsiglia, ma l’attesa rimase delusa. Rosetta non giocò. Era rimasto a Vercelli come tutti gli altri giocatori della Pro. Avevano chiesto regolari guadagni e il presidente Bozino aveva risposto con una lettera piena di sdegno: per le gloriose bianche casacche dovevano sentirsi onorati di giocare gratis. Viri Rosetta aveva le idee chiare. Venne a Vercelli il dirigente juventino Roberto Peccei, che sarebbe poi divenuto suo cognato, a proporgli di trasferirsi come impiegato alla ditta dei fratelli Ajmone e Marsan; avrebbe fatto il ragioniere per 700 lire al mese. La Juventus, per le sue prestazioni calcistiche, gliene avrebbe date altre 300, più 40.000 lire di ingaggio. Estate 1923: Viri Rosetta diventa torinese juventino e guadagna 1.000 lire al mese.
«Tutto considerato e sommato, venivo a guadagnare 1.000 lire al mese – ebbe a ricordare più volte lo stesso Rosetta – toccavo il cielo con un dito. Proprio come nella canzone in voga “Se potessi avere mille lire al mese”. All’improvviso venivo a trovarmi ricco e, con me, la povera mamma che insegnava in una scuola elementare e con ansia aspettava il 27, così come mio padre anch’egli impiegato. Insomma, il calcio dava a tutti noi benessere. Mi trasferii a Torino. Intanto la Juventus aveva presentato in Federazione quella lettera che ci aveva spedito la direzione della Pro Vercelli e l’avvocato Bozino, che della Federazione era anche presidente, e che approvava il mio tesseramento per la Juventus. Cominciai a giocare in maglia bianconera impiegato non come terzino, bensì all’attacco, prima come centravanti e poi nel ruolo di mezzala. Era la stagione 1923-24. I gironi che componevano il campionato erano tre. Eravamo in testa al nostro che comprendeva anche il Genoa. Insomma, stavamo correndo, lanciati, verso lo scudetto. Tutto d’un tratto, il Genoa suscitò il caso del mio tesseramento e i giornali presero a scrivere che la posizione di Rosetta non è regolare! Il Genoa chiese alla Federazione di indire un’assemblea straordinaria per affrontare la questione. Il cuore di Bozino diventò tenero per il Genoa. Venne convocata la richiesta assemblea e la squadra ligure ebbe a suo favore tutte le deleghe delle società della Riviera. Ottenne così l’annullamento del mio trasferimento. Un vero putiferio. Il nostro vicepresidente Craveri sfidò a duello il vice presidente del Milan, Baruffini. La sfida ebbe un’eco clamorosa. Mi sentivo nei panni di responsabile di tutto e me ne stavo chiuso in casa senza più uscire. Nel frattempo la Juventus era stata retrocessa in classifica, penalizzata di sei punti. Non ho mai capito perché sei punti. Fatto sta ed è che quel campionato lo vinse proprio il Genoa».
Campionato 1925-26, l’allenatore è un ungherese inquieto e sentimentale, stravede per Verdi e la lirica. Morirà il giorno della cruciale sfida, giocata tre volte, con il Bologna, Jeno Karoly, primo allenatore moderno del campionato; tattica, strategia, sapeva tutto. La Juventus domina il suo girone, salvo doversela vedere in finale col Bologna. Primo match: 11 luglio a Bologna, Bologna 2 Juventus 2; secondo match: 25 luglio a Torino, 0-0. La bella destinata a Milano per il primo agosto. Il 28, Karoly muore d’infarto, la Juventus lo onora tra le lacrime. Il Bologna è piegato per 2-1. Lo scudetto è dedicato all’ungherese sentimentale, Rosetta è il migliore in campo.
«Che furbo Rosetta – ricorda Mario Varglien – lui voleva pensare anche a cose straordinarie. Ricordo a Budapest, noi vincevamo 3-0 contro il Ferencváros nel primo tempo. Rosetta mi disse a un certo punto: “Mario, bisognerebbe mollare un po’, domenica a Torino non verrà nessuno a vederci”. E tanto mollò lui e tanto mollammo noi che ci buscammo subito un calcio di rigore, e poi due goal dagli ungheresi che si erano scatenati e non li tenevamo più. A fatica riuscimmo a portare a casa il 3-3. Poi, per vincere a Torino sudiamo, fatichiamo. Rosetta un grandissimo giocatore, però nella partita facile si sfaticava. Come terzino faceva in un solo tempo quello che gli altri facevano in due o tre tempi. Passava al volo di prima tutti i palloni. Andavo con lui d’accordo che era un piacere».
È stato il primo grande stratega difensivo della storia del nostro calcio – conclude Camin – suoi palloni, lunghi o brevi, erano messaggi. Il suo grandissimo senso della posizione, il suo elucubrato pragmatismo, la sua tecnica nel difendere l’1-0 evitando inutili sforzi. Il ragioniere insegnava calcio, ed anche comportamenti di vita, a tavola era facile vederlo evitare il bicchiere di vino. Finito di giocare, fu allenatore sapiente. Quando morì, nel 1975, la sua Juventus era tornata vittoriosa come ai suoi giorni.
SI RACCONTA SU “HURRÀ JUVENTUS” DEL MAGGIO 1964
Ho sessantadue anni, sono juventino da quaranta, ritengo che questo sia un bel record. Il fatto è che mi auguro di essere juventino ancora per molto tempo, perché significa che vivrò ancora a lungo e perché appartenere alla Juventus è una cosa bellissima, non so definire esattamente il perché, ma è così. Non ricordo a quale età ho incominciato a dare i primi calci, a Vercelli, dove sono nato. Forse avevo tre o quattro anni, per me era un fatto istintivo. Ricordo però il primo dolore. Avevo sei anni, ero già tifosissimo della Pro Vercelli e la mia Pro perse a Genova contro l’Andrea Doria per 3-1. Lo seppi il lunedì, feci una mezza tragedia. Ero un appassionato di calcio, i miei genitori lo sapevano, non ebbero difficoltà a esaudire un mio grande desiderio: mi comprarono le prime scarpe con i bulloni a Natale del 1908. Mi sentivo un piccolo re. Calzai quelle scarpe con il vestito della festa addosso e corsi in cortile. Era un cortile di cemento; gli amici mi guardavano con invidia. Furono molto contenti quando dovetti togliermi quelle scarpe per il gran male ai piedi: non si può giocare con i bulloni sul cemento. Ma oramai mi sentivo lanciato su quella strada, sentivo che non potevo più abbandonarla.
Una partitella (cinque contro cinque) fra i ragazzi di Casa Pasta che affrontavano i grandi avversari della chiesa di Santa Maria Maggiore (avevo otto anni), poi le avventure milanesi. Frequentavo la prima tecnica a Milano, abitavo in Viale dei Mille. C’era un grosso parco, ma gli altri ragazzi non mi facevano mai giocare, perché io ero il più piccolo. Un giorno il numero dei giocatori era dispari: fu la mia fortuna. Mi costruii una piccola celebrità, tanto che fui scelto per giocare contro una squadra di ragazzetti inglesi. Giocavo dappertutto, i ruoli per me, non avevano importanza. Ritornai a Vercelli, presi parte a gare fra studenti, ogni classe aveva una squadra. Ero ancora molto giovane, ma già incominciavo a farmi un carattere, sentivo che l’istinto del difensore prevaleva in me sul primitivo istinto di attaccante. Tanto è vero che quando Ara mi portò a Torino (1917) con la squadra del XX Autoparco per giocare contro la Juventus, io, come ala destra, feci una figuretta. Giocavo fra i militari, tanto per giocare. La gente si stupì che io fossi già in grigio-verde: avevo ancora i pantaloni corti!
Nel 1919-20 incominciai la mia attività ufficiale nella Pro Vercelli, come mezzala destra. Vagolavo un po’ per tutti i ruoli, ma non poteva durare così. Dovevo diventare un difensore e, difatti, prima ancora che quel primo campionato del dopoguerra finisse, io ero già terzino destro, il ruolo della mia vita. Nel 1920 partecipai alle Olimpiadi di Anversa e l’onorevole Montù mi disse che io ero il più giovane di tutti: il primato apparentemente insignificante, mi inorgoglì tremendamente.
Alla Pro feci in tutto quattro campionati. Alla Pro regalai entusiasmo, passione, onestà. Ne ricevetti, in cambio, soddisfazioni, la mia prima fama, il conseguimento della mia prima vera maturità di calciatore. Le credenziali mi valsero la considerazione della Juventus, che mi acquistò nel 1923-24. Non importa, poi, se l’onore di vestire la maglia della Juventus, che consideravo un punto d’arrivo ideale, mi costrinse a fare, nei primi tempi, il centravanti: Bruna, Novo e Gianfardoni erano tutti terzini già affermati, io dovevo dimostrare di essere più bravo di loro. Comunque, la maglia numero due di titolare arrivò presto per me e la portai praticamente per tredici, anni, la maglia numero due a strisce bianche e nere: è il più bel ricordo della mia vita.
Due e tre della Juventus: Rosetta e Caligaris. Anni che, da soli, valsero una vita intera: sei scudetti, due presenze in Nazionale B, cinquantadue presenze in Nazionale A, Campione del Mondo nel 1934 a Roma. Eravamo gente forte, gente che aveva coraggio, che interpretava con assoluta onestà i doveri e le responsabilità che loro conferivano la maglia della Juventus e quella azzurra. Ora i tempi sono cambiati, è intervenuto, anche in questo, il progresso. Io, veramente, mi chiedo spesso se proprio di progresso si tratti.
A trentaquattro anni, nel 1936, lasciai l’attività, ma non lasciai, naturalmente, la Juventus: io la allenai per quattro anni. Ma, durante l’ultima guerra, dovetti andare a Lucca e là ebbi un grave incidente automobilistico che mi costrinse ad abbandonare completamente l’attività calcistica, Nel 1951 fui operato, ma avevo già quasi cinquant’anni. Non mi restava che seguire il calcio, la Juventus, vivendo ai margini di quei campi che per tanti anni erano stati i miei. E fu così che restai alla Juventus come osservatore.
Studiare i giovani, cercare di scoprire in essi quanto ebbi la fortuna e il destino di scoprire in me tanto tempo fa, è ora la mia consolazione. Anzi, la mia speranza, i giovani veramente forti non crescono più come una volta, sarà il progresso. Portare un grande giovane alla Juventus, portare un altro di noi, di quelli di una volta! Sarebbe una somma soddisfazione. La maglia che io e tanti altri abbiamo dovuto lasciare è ancora addosso a noi e vorremmo regalarla a qualcuno.
ALBERTO FASANO, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL GIUGNO 1975
Primo a morire (20 ottobre 1940) era stato Umberto Caligaris, stroncato da infarto, in tenuta di gioco, mentre partecipava a un incontro tra vecchie glorie sul campo di Piazza d’Armi, insieme ai suoi due inseparabili compagni, Rosetta e Combi. Quest’ultimo, il portiere, rimase vittima anche lui di un attacco cardiaco, nei pressi di Imperia, il giorno di Ferragosto del 1956. Rosetta, invecchiato precocemente, aveva tuttavia resistito a lungo agli attacchi del male. Domenica mattina ha chiuso gli occhi per sempre. Aveva settantatré anni.
Che cosa possiamo dire che già non si sappia di Viri Rosetta? Che fu il più inglese dei difensori italiani e, senza dubbio, uno dei più grandi terzini del calcio mondiale nell’epoca a cavallo tra le due Guerre Mondiali; ma nemmeno questa è una novità. Più interessante, ci pare, è ricordare che Rosetta fece involontariamente nascere il primo putiferio calcistico, dando praticamente il via al professionismo in Italia. Sono cose che meritano di essere raccontate.
Viri aveva forse già fatto parlare di sé quando Edoardo Agnelli decise che era fatto su misura per la Juventus. Veramente Sandro Zambelli, con intuito e prontezza, fin dal 1918 si era accorto che quel biondino, visto giocare per caso, nascondeva talento e classe della qualità più genuina. Subito gli aveva messo davanti un cartellino federale, che venne regolarmente firmato nel corso di una cena in una trattoria vercellese. Il cartoncino, impreziosito dall’autografo del giocatore, tornò nelle tasche del dirigente bianconero e, qualche ora dopo, finì in un cassetto della scrivania dello stesso Zambelli, dove rimase parecchi anni.
Terminata la guerra, ripresero i campionati e Rosetta, che aveva iniziato la sua carriera nella Pro Vercelli come centravanti, continuò a giocare nella squadra delle bianche casacche, impiegato come terzino, segnalandosi per la sua bravura. Viri era figlio di una maestra, era cresciuto con pochi sogni e molta ragionevolezza in un tipico clima provinciale attento al sodo. Sapeva di valere e, precorrendo i tempi, quando un giorno, in termini un po’ avventurosi, la Juventus precisò le sue offerte, ne valutò innanzi tutto il contenuto concreto. Sicuramente non immaginava di dar vita a un autentico giallo.
Tutto prese corpo da una lettera che la presidenza della Pro Vercelli aveva inviato a ogni suo tesserato, nell’estate del 1923, a salvaguardia dello spirito dilettantistico. Qualche giocatore lo aveva messo in discussione: tra questi, sicuramente, Rosetta. La lettera dichiarava in tono perentorio che chiunque lo desiderasse era libero di lasciare la società. Forte di questo documento, Viri accettò le proposte avanzate dal dirigente juventino avvocato Peccei e decise di passare alla società torinese, previo benestare dell’avvocato Bozino, presidente della Federazione e (guarda caso) anche massimo dirigente della Pro Vercelli. Così Rosetta firmò un cartellino per la Juventus (dimenticando di averne già firmato un altro davanti a Zambelli). Purtroppo il nullaosta rilasciato con la famosa lettera dai dirigenti vercellesi non aveva alcun valore per le autorità federali: un diabolico pasticciaccio, nel quale si trovarono coinvolti sia Rosetta che la Juventus.
Rosetta esordì nella Juventus il 23 novembre 1923, all’ottava domenica di campionato, in qualità di centrattacco. Segnava stupendi goal, segnò anche quello della vittoria contro il Genoa primo in classifica; furono proprio i dirigenti del sodalizio ligure che, allarmati per la crescente serie di vittorie juventine, chiesero alla Federazione di promuovere un’assemblea straordinaria per discutere il “Caso Rosetta”. L’avvocato Bozino si rimangiò gran parte della recente condiscendenza e al giocatore venne annullato il secondo tesseramento, ritenendosi valido soltanto il primo che lo teneva legato alla Pro Vercelli.
L’atmosfera si arroventò a tal punto che il vicepresidente della Juventus, avvocato Enrico Craveri, sfidò a duello il vice del Milan, Baruffini: solo in extremis la contesa fu scongiurata. L’idea di risolvere le vertenze secondo il codice cavalleresco era molto simpatica; oggi i due dirigenti si sarebbero insolentiti assai più banalmente a viva voce o a mezzo della stampa. Il frastornato Rosetta, colpito da squalifica, non venne più utilizzato in quel campionato e la Juventus venne penalizzata di sei meritatissimi punti, la cui sottrazione consentì al Genoa di vincere lo scudetto.
Poi, scontata la squalifica, Rosetta ricominciò a giocare, facendo coppia, come terzino, prima con Gianfardoni, poi con Bruna (non disdegnando frequenti apparizioni come attaccante, nel ruolo di mezzala destra) quindi con Allemandi, con Ferrero e, infine, con Caligaris. Con la maglia bianconera Viri giocò 338 partite, realizzando ventinove goal. Con la maglia azzurra ne giocò cinquantadue, di cui ventisei insieme a Combi e a Caligaris. Vinse otto scudetti: due con la Pro Vercelli e sei con la Juventus: un autentico record. Quando il terzino venne convocato per la prima partita in azzurro, aveva soltanto diciotto anni: la classe non matura, irrompe. Il suo amico Caligaris giocò in Nazionale quando non aveva ancora compiuto ventuno anni.
Confessiamo il nostro imbarazzo nel parlare di Rosetta senza coinvolgere nel discorso Berto Caligaris, arrivato alla Juventus dal Casale. Erano due tipici prodotti del calcio provinciale, diversi come temperamento, come carattere, come gioco. Rosetta apparve subito come giocatore completo; affinò in seguito il suo gioco con l’esperienza, ma non ne mutò più la base. Elemento calcolatore, freddo, positivo il vercellese; entusiasta, tutto fuoco, irrompente il casalese. Il primo studiava l’avversario, il secondo lo investiva. Questo diverso comportamento in campo traduceva il diverso carattere dei due atleti: di poche parole, riflessivo, osservatore Rosetta; espansivo, tutta cordialità, esuberante Caligaris. Giocarono, come abbiamo detto, per molti anni insieme, completando gioco e caratteri e formando la più bella coppia che mai sia stata vista in tutte le nostre nazionali.
Caligaris è stato l’ultimo fiore del giardino casalese, un fiore prodigioso sbocciato su una pianta già rinsecchita; da parte sua Rosetta ha chiuso con un capitolo superbo il romanzo del calcio vercellese, uno dei più belli che il calcio italiano abbia scritto. Si trovarono insieme alla Juventus e furono i capisaldi difensivi della famosa squadra del quinquennio. Il gioco dell’uno completava quello dell’altro. Rosetta schermiva di astuzia con l’avversario, fingeva d’attaccarlo, voleva indurlo in errore; Caligaris non gli lasciava tempo di tirare il fiato; il calcolo di Rosetta integrava lo slancio del compagno.
Agivano d’accordo, senza parole e senza cenni, istintivamente collegati in ogni momento dalla comune intelligenza di gioco. D’accordo tra loro e d’accordo con il portiere, il grande Combi. Abbiamo visto una volta Rosetta passare al volo, su calcio d’angolo, la palla a Combi, da due o tre metri: ai tifosi venne la pelle d’oca. Il segreto di Rosetta e Caligaris era di mai distrarsi: quando uno si muoveva, l’altro già sapeva cosa intendesse fare. Giocarono insieme i più begli anni della loro carriera e insieme la chiusero.
Ad Amsterdam, nel torneo Olimpico del 1928, Virginio Rosetta venne apprezzato e considerato come il miglior terzino. Avendo iniziato la carriera in qualità di attaccante, il biondo Viri conosceva tutte le malizie degli “avanti” e con l’aiuto di una classe superiore e di mezzi atletici favolosi sapeva neutralizzare qualsiasi insidia portata nel settore di sua pertinenza. Il tutto con estrema freddezza, con un comportamento controllato e raziocinante. Era fortissimo incontrista e battitore di assoluta precisione. Longilineo puro, ogni suo gesto era improntato a notevole stile; era educato come vorremmo fossero ancor oggi i nostri giocatori. Quando subiva violenze non smaniava: prendeva atto e puntualmente restituiva. Fu senza dubbio un classico antesignano della fluidificazione difensiva.
Chi lo ha visto giocare non lo dimenticherà mai più; chi lo ha conosciuto, non potrà fare a meno di ricordarne le doti di serietà, di grande umanità. Un vero gentiluomo, un autentico campione. La Juventus oggi abbruna le sue bandiere: con Viri Rosetta è scomparso uno dei più famosi suoi giocatori di tutti i tempi.
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