La storia del calcio è fatta di tipi stravaganti come Bob Vieri – racconta Gianni Giacone su “Hurrà Juventus” – basta cercare in epoche di meno solido pragmatismo e di più diffusa poesia, come il calcio, nei ruggenti anni Venti; poesia, appunto, condita appena da un pizzico di professionalità. La poesia di Bigatto, strenuo lottatore, è ancora impregnata di rimembranze dannunziane e assai poco propensa alla filosofia pratica del risultato da conquistare ad ogni costo. Per non parlare di Pastore, il centrattacco di quella Juventus, in fondo tardo romantica e tardo garibaldina, che nel ruvido tackle con il “centr’half” avversario, scopre in se stesso insospettate doti drammaturgiche e finisce sul set del nascente mondo cinematografaro. Vieri, tanto per tornare in argomento, in quella Juventus di estrosi protagonisti ci sarebbe stato molto bene.
«Non facevo niente di speciale – si difende Bob – ma si sa com’è, uno si fa una certa fama, i giornalisti ci ricamano sopra. Io non giravo con le galline, non giocavo a poker, avevo i capelli lunghi e la barba ma mica ero un sessantottino. È vero però che d’estate non andavo mai a letto, che correvo in macchina, che facevo delle bischerate. È vero anche che fumavo. Strambo ero strambo. Mia moglie ricorda che gliene ho fatte di tutti i colori. Un giorno la feci venire giù da Parigi e dopo cinque minuti che era arrivata la rispedii via. Ero fatto così. E nel momento più importante mi ritrovai come allenatore Bernardini. Grandissimo. Ma me le dava tutte vinte. Chissà, se avessi trovato uno più severo. Anche Mondonico era matto ai miei tempi, quando giocava. Ma come allenatore! Fu lui, che l’aveva già visto tra i giovani del Torino, a volere Christian all’Atalanta. Gli parlò una volta sola. E poi non gli parlò più. Ma quella volta bastò».
Al termine del torneo 1968–69, altalenante nei risultati e negli umori, c’è aria di gran rinnovamento in casa juventina. È finito il lungo ciclo “heribertiano” e, al posto del trainer paraguagio, arriva un signore paffuto con occhietti sornioni e l’aria navigata di chi del calcio conosce proprio tutto; si chiama Luis Carniglia, è argentino e vanta trascorsi di gran prestigio sia in Italia che all’estero. E arrivano anche giocatori nuovi: lo stopper Morini, che eredita il posto tenuto gloriosamente per anni da Bercellino, Leonardi, ala di ruolo non giovanissima ma indispensabile per un attacco imperniato l’anno prima sul solo Anastasi. E, infine, Vieri dalla Sampdoria, lasciando grande rimpianto fra i tifosi blucerchiati; approda a Torino e l’attesa dei tifosi juventini è naturalmente grande. L’acquisto boom è costato il sacrificio di Benetti e una barca di soldi.
Qualcuno avanza dei dubbi sull’utilità di un giocatore così estroso, in un complesso nel quale già figura Helmut Haller, ovvero l’estro fatto persona. Sono dubbi, si dice, presto destinati a cadere; e poi, proprio nelle file della Sampdoria, Vieri ha giocato partite memorabili contro la Juventus. Lo stesso tedesco è entusiasta: «Giocare a fianco di un giocatore come lui è quel che desideravo – dice Helmut – sono convinto che insieme formeremo una grande coppia. Vieri gioca come facevo io sette anni fa, anche se rispetto a lui vantavo una maggior dinamicità, uno scatto più secco».
Ben venga Vieri, dunque; al primo approccio col nuovo ambiente, Bob ricorda figure antiche e recenti di juventini stravaganti eppur grandissimi. Cesarini, per esempio, aveva lo stesso carattere e caracollava con la stessa indolenza per il campo, in attesa di mettere a segno la zampata che risolveva la partita. E non parliamo poi di Sivori; Bob ricorda il grande Omar non solo nell’aspetto (“cabezon” e calzettoni srotolati) ma anche e soprattutto nell’incedere palla al piede, nella dimestichezza con il pallone. Sono impressioni della prima ora e, magari, si esagera nel gravare di responsabilità il giovanotto, che ha appena ventitré anni e ben poca esperienza a certi livelli. Bob si schermisce: «Omar appartiene a un’altra categoria, altra classe, come lui non ci sarà più nessuno».
Carniglia, dalla sede del ritiro precampionato, si lascia trasportare da entusiasmi squisitamente romantici e ai cronisti, che cercano anticipazioni sulla nuova Juventus attesa alla riscossa, dispensa giudizi entusiastici sul conto di questa mezzala nuova e antica al tempo stesso, che “tiene piedi come mani” e a cui il nuovo trainer juventino non si sente di dover insegnare niente. «Il ragazzo ha classe, non si discute. Subito, però, mi preoccupava la sua tenuta fisica, non mi era parso adatto per coprire molti chilometri. Oggi va decisamente meglio, mi segue, mi ascolta come tutti gli altri. Quando gli ho chiesto di tagliarsi mezzo chilo di capelli se li è tagliati subito, quasi quasi mi finiva sotto peso».
Il tempo delle verifiche non tarda a venire; dopo le partitelle amichevoli, il primo impegno di un certo livello avviene al Comunale contro l’Ajax, vice–campione d’Europa, che viene a collaudare la condizione della Juventus nuova edizione. È una serata calda di inizio settembre e la folla risponde in massa; naturalmente, è Vieri l’osservato speciale e l’ex sampdoriano si cala alla perfezione nella parte. Prestazione orgogliosa, la sua, con momenti davvero entusiasmanti di calcio persino lussuoso. La squadra va a singhiozzo, manca di intesa tra i reparti e la partita vive sugli spunti dei singoli e di Bob; la mezzala gioca nella posizione di regista offensivo, che Carniglia gli ha assegnato, e dal suo piede partono tutte o quasi le offensive bianconere. L’incontro, che si era messo male per la Juventus dopo un goal di Groot in apertura di ripresa, è raddrizzato proprio da due prodezze di Vieri; la prima frutta un’autorete di un difensore olandese su sua stangata dal limite e la seconda consente alla squadra bianconera di aggiudicarsi l’incontro. Una discesa in slalom, nugoli di avversari saltati con un dribbling noncurante e persino sfottente e alla fine botta ravvicinata con palla che va nel punto più lontano per il portiere. Insomma, un esordio alla grande; la gente di fede bianconera esulta e si prepara a far festa per gli impegni che contano.
Si comincia con la Coppa Italia: Vieri, che salta il primo turno per una squalifica rimediata alla fine del campionato precedente, debutta a Bergamo e può ben poco nel grigiore generale della squadra. Qualcosa di meglio si vede in Coppa delle Fiere, ma anche la netta vittoria per 3–1 a spese dei bulgari del Lokomotiv non dissipa tutti i dubbi sulla funzionalità del complesso “carnigliano”. Haller trotterella esattamente come l’anno precedente e quando ha lui la palla tutto va bene; ma capita spesso che il suo avversario diretto si ritrovi smarcato e a centrocampo si soffre tantissimo. Vieri, dal canto suo, non ha certamente attitudini da maratoneta, né Carniglia pretende da lui l’assolvimento di compiti di marcatura; Furino e Del Sol devono in definitiva correre per quattro e la squadra si sbilancia fatalmente.
Il campionato comincia alla grande; il Palermo di Bercellino II e di un certo Causio subisce quattro reti a Torino, con Vieri in cabina di regia e Haller nelle vesti di cannoniere. Già a Verona, seconda giornata, si intuisce che la squadra, così impostata, denuncia preoccupanti lacune e sbandamenti. La coppia formata dal tedesco e da Bob è esemplare sotto il profilo stilistico; classe da vendere e numeri di alta scuola, per la gioia di Carniglia, ma i tempi suggeriscono soluzioni meno spettacolari e più redditizie. Sette giorni dopo la sconfitta di Verona, la Juventus è attesa dal difficile incontro contro il Bologna. I bianconeri iniziano con puntiglio e vanno anche in goal per primi, proprio con Vieri, esecutore di un’esemplare punizione dal limite, con palla tagliata e angolatissima. Non è sufficiente, però; la squadra bolognese corre e marca con maggiore determinazione e il filtro, che il centrocampo bianconero riesce a effettuare, è quanto mai approssimativo.
Le partite successive confermano le difficoltà della squadra a esprimere un gioco apprezzabile; dopo la duplice sconfitta nel derby e con il Vicenza, nella guida tecnica della squadra subentra Ercole Rabitti. La Juventus cambia totalmente; dopo la vittoria sull’Inter, la squadra perde di misura a Napoli e Vieri è nuovamente al centro dell’attenzione. Succede che Bob calcia contro il palo un rigore, buttando alle ortiche un pareggio che avrebbe significato rilancio. È un episodio significativo, ma non è certamente solo per il penalty sciupato che Rabitti accantona Bob nella successiva trasferta di Cagliari. Il nuovo allenatore ha vedute opposte a quelle del suo predecessore ed esige dai suoi giocatori una disponibilità totale, sia in costruzione sia in interdizione. Cuccureddu, il fresco acquisto novembrino, esemplifica le nuove concezioni tattiche e la squadra, corroborata nel tono atletico, comincia a risalire la classifica.
Bob è un capitale tecnico tutt’altro che irrilevante e il suo contributo, pur ridimensionato rispetto alle previsioni iniziali, sarà comunque apprezzabile. Il rientro contro la Fiorentina non dice molto, ma ben di più significa la sua prova a San Siro contro il Milan, sette giorni più tardi. All’inizio della ripresa è un suo piccolo capolavoro che permette alla Juventus di passare in vantaggio; ancora una lunga discesa in dribbling, finte e controfinte quasi a ritmo di danza e poi il tiro, a mezza altezza, sul quale Cudicini, che pure si allunga, non riesce ad arrivare.
«Vieri ha disputato – scrive Bruno Bernardi su “Stampa Sera” – sotto lo sguardo del padre, la sua miglior partita di questa difficile stagione juventina. Dopo il goal, un “goal alla Sivori”, ha pianto di gioia. Alla fine ha vanamente chiesto all’arbitro di cedergli il pallone a ricordo della partita. Di se stesso non ha voluto parlare, né del confronto a distanza con Rivera: “Sono felice e basta, si è giocato bene. Ho visto una grande Juve che, dall’inizio alla fine, ha sempre tenuto in pugno il risultato. Una Juventus che avrebbe sconfitto qualsiasi avversario”».
Il paragone con il grande Omar si ferma lì – conclude Giacone – una prodezza significa tutto e nulla, nel calcio oramai ben poco romantico dei nascenti anni Settanta. Vieri non è un brocco, come frettolosamente i denigratori, delusi dalle sue prime esibizioni in campionato, lo avevano definito. Vieri ha talento da vendere ma non basta questo per fare un fuoriclasse; bastava, forse, nella Juventus pigliatutto di Cesarini e ancora in quella assai più vicina di Sivori e degli altri fuoriclasse. Proprio con Sivori si è chiusa un’epoca e troppo tardi arriva Bob Vieri per riproporre tempi irrimediabilmente superati.
È ceduto alla Roma e da qui al Bologna dove, accanto a Bulgarelli, disputerà memorabili prestazioni. In seguito, un continuo peregrinare in formazioni minori prima del viaggio in Australia, dove troverà un ingaggio, presso il Marconi di Sydney. «Avevo trentatré anni, ero finito. Mi offrirono un contratto per fare otto partite con una squadra di Sidney, il Club Marconi. Aveva 8.000 soci e si finanziava con le slot machine. “Andiamo a vedere – dico a Nathalie – ci vediamo l’Australia gratis e in più mi pagano”. Ventiquattro ore di volo, Madonna bona! Ma quando arrivammo lì. Un paese stupendo! Di spazi, di aria. Non ce ne sono altri al mondo, di paesi cosi».
Ritorna alla ribalta negli anni Novanta, quando i figli Max e, soprattutto, Christian calcano i campi di calcio, ripercorrendo le orme del padre; particolare curioso, entrambi i figli militano nella Juventus, anche se Max non avrà mai l’onore di indossare la maglia bianconera in partite ufficiali.
GIOVANNI ARPINO, DA “LA STAMPA” DEL 15 OTTOBRE 1969
«Dica lei: le sembro un ragazzaccio?», mi interroga corrugando la fronte. Ha le basette molto fiorite, i capelli che gli spiovono sugli occhi e lo sguardo che a prima vista appare un po’ torbido. Uno dei tanti giovani d’oggi, poco più che ragazzi, che fanno l’autostop con lo zaino lungo le strade d’estate, che suonano la chitarra, che occupano le aule universitarie. Lo si potrebbe incontrare in un caffeuccio della “riva sinistra” a Parigi, o nel giardino dei capelloni a Juan–les–Pins, o a una festa hippie a Londra. Invece ha una Porsche rossa parcheggiata sotto casa, una camicia color aragosta, una caviglia gonfia e bendata, e una certa ritrosia che ogni tanto si libera per lasciar scattare la risposta pronta, leale.
Ecco Roberto Vieri, mezzala juventina, uno dei giovani calciatori che stanno facendosi largo per i sentieri del football nazionale. Un tipo e un carattere di giocatore nuovo, che in Inghilterra si chiama Best, in Olanda si chiama Cruijff, in Italia si chiama Bertini, Bedin, Chiarugi, e appunto Vieri, che come Bertini è nato a Prato, come lui ha fatto il macellaio, come lui è noto per il carattere estroso, la battuta pronta, il temperamento non proprio docile. Dopo gli anni trascorsi a Genova, dov’era più o meno un reuccio («ho tanti amici a Genova, però quando si perdeva non era la Sampdoria a essere giudicata sconfitta, bensì io»). Si trova a Torino da poco, non conosce la città, appena le strade che portano in centro e allo stadio. Nel suo alloggetto di scapolo, niente di superfluo, un tavolo rotondo, un divano, e il cane Titina che corre e guizza e trema da vero chihuahua. Parlando, muove le mani, si contrae in viso, fa lavorare i muscoli delle guance. Via via ha imparato a controllarsi. «Fin da ragazzo ero conosciuto come un toscanaccio, uno che ribatte la parola. Naturalmente sono cresciuto, adesso mi domino».
Non parliamo del derby torinese trascorso, né delle convocazioni per la Nazionale, né dei Mondiali in Messico, aspirazione di ogni campione del football. Discutiamo divagando, è una giornata di riposo per un professionista del calcio, che sul campo si spreme come un dannato, secondo alcuni critici spendendosi anche troppo. Si diverte ancora a giocare? «Sì, mi piace, molto. Però, divertirsi è più difficile. Il calcio è duro, oggi, bisogna spingere come dannati, essere dappertutto per novanta minuti». Non ha atteggiamenti da divo, non cerca di creare un diaframma che lo protegga, tace volentieri, i muscoli facciali sempre in movimento. È in salute, dorme bene, il lunedì è la giornata più difficile, perché si ripensa agli errori commessi, alla vittoria sfiorata e non raggiunta. Di colpo ride scoprendo i denti: «Il calcio è bellissimo quando si vince». Si alza, si risiede, trascinando un piede appena infilato nella scarpa. È un piede, è una caviglia, che devono riprendersi da una botta. Segue il cane con occhi ridenti, e il cane corre, si lascia abbracciare, finge di mordere. È stato anche operaio. «Sono abituato al fatto che da me si pretenda sempre molto. È stato così da sempre», confessa con brusco pudore.
Forse per questo gli piace stare in casa, appena può, in vari mesi a Torino avrà visto sì e no quattro o cinque film, tra cui un western troppo violento e quindi inevitabilmente monotono. Tormenta un pacchetto di sigarette con le mani, ma non fuma, offre un whisky, ma non beve, se suona il telefono, e viene costretto a una lunga chiacchierata con un parente, la voce infoltisce le parole quasi confondendole, con la noncuranza e l’annoiata rassegnazione tipica in un ventenne, che non si lascia sorprendere da nulla, per cui tutto è più o meno normale. Un amico che gli tiene compagnia approfitta d’un attimo d’assenza per dire che sotto la scorza il Bob, come già lo chiamano molti tifosi, è un cuor d’oro, un ragazzo assennato, tutti i suoi estri sono quelli d’un giovane del nostro tempo, non bizzarrie di un campione sregolato. «Quando esco dal campo dopo gli allenamenti, tra i gruppetti dei tifosi ci sono sempre dei tizi che criticano la mia automobile, le basette. Si fermano ai particolari, non pensano mai alla sostanza», sogghigna lui rimettendosi a sedere.
È un sentimentale, sa sostenere benissimo la responsabilità piovutagli addosso in una squadra di rango, però è geloso dei propri pensieri, della vita privata. Detesta i pettegolezzi, sa benissimo che ne basta uno solo a trasformarsi in fastidiosa etichetta. Non si lamenta della prigione d’oro in cui vive un campione, ma in certi toni lascia capire come la vita spensierata d’un tempo, quand’era operaio e toccava i primi palloni, è cancellata, un capitolo chiuso. Oggi, a ventitré anni, è battaglia: per maturare, durare. Per vincere, sapendosi amministrare nel nome, nella salute. Dalla finestra di casa Vieri si vedono le strade che portano a Piazza Vittorio, qualche bambino che gioca nel sole, i tavoli di un’osteria con giochi di bocce. Vi abitava prima Salvadore, il terzino bianconero che ha dovuto cambiare alloggio dopo la nascita del secondo figlio: nelle tre stanze, Vieri si aggira con l’irrequietudine d’un ufficiale di picchetto, che ha preso il posto lasciato da un collega e che a sua volta lo cederà a un nuovo collega. Una valigia pronta, un paio di scarpe bullonate e la strada che porta al campo o al ritiro. Può essere tutto, a ventitré anni, e può essere niente: Roberto Vieri, mezzala bianconera, sa d’avere cominciato oggi a costruire se stesso. Le carte buone da giocare sono ancora nel mazzo.
ERNESTO CONSOLO, DA SOCCERNEWS24.IT DEL 30 DICEMBRE 2017
«A me m’ha rovinato lo spagnolo. Partivamo per i locali della Costa Azzurra o per la Svizzera. Tornavamo la mattina. Ma gli aveva un fisico della Madonna. Gli era quadrato, un metro per un metro di cassa toracica, faceva una doccia ed era pronto per allenarsi. Mentre io ‘un ce la potevo fare. A me m’ha rovinato lo spagnolo». Che per la cronaca è Luis Del Sol.
Per far sbocciare il talento di questo toscanaccio che se ne infischia del protocollo e della grammatica italiana, ci hanno provato in tanti. E non senza risultati. Anche perché Roberto Vieri soprattutto quell’anno s’impegna, bisogna riconoscerlo. E la sua squadra è quella che sognava da bambino. Ci crede soprattutto Ercole Rabitti, che lo ha già visto nel 1962 e voleva farlo prendere alla Juve: l’appuntamento era stato rimandato di sette anni.
«Sono un regista di centrocampo, non una mezzala di punta». Tecnicamente raffinato, vede il gioco come pochi, ma rimane piacevolmente refrattario a quel calcio da atleti. Qualcuno parla di infanzia sofferta, di genitori che litigano e soldi che latitano. Papà Enzo è operaio, ma anche un discreto calciatore di seconda fascia. Lo lascia correre sui campetti della periferia di Prato. Poi lo porta a vedere la Juve, che quel giorno perde. E Roberto piange. Intanto a casa accarezza già la palla: quando scavalca papà con un tiro dei suoi, lo fa imbestialire.
La prima grande chance alla Fiorentina: la brucia. Non gli resta che fare l’operaio. Ci riprova col Prato ed è tra i migliori giovani della serie C. Ripassa dalla Fiorentina dove non se ne accorge nessuno, tranne quando vince la Mitropa Cup. Ma Chiappella non è convinto. In tribuna il dottor Fulvio Bernardini, allenatore della Samp, nota subito quel ragazzo dal tocco aristocratico e il curriculum da operaio. Telefona al presidente: «Voglio quel Vieri, ci farà comodo». «Ma la Fiorentina vuole ottanta milioni…». Arruolato comunque. «Il calcio è la cosa più bella di questo mondo. Quando corro dietro la palla, mi sento vivo, mi sento felice».
Brescia–Samp. Punizione dal limite dell’area per fallo su Salvi: la parabola di Vieri si ferma solo sotto l’incrocio dei pali. Ancora lui, stavolta un colpo d’incontro: ruba palla a Casati e si lancia verso la porta. Quindi deposita nell’angolino sul portiere in uscita. Il pubblico di Brescia applaude nonostante la sconfitta.
Vent’anni, ma per Bernardini è un fuoriclasse. Pare che lo veda erede di Sivori. Anche caratterialmente. Si viene infatti a sapere che Roberto fa tardi la sera con Giancarlo Salvi. La Samp sguinzaglia le vedette. Una sera Roberto esce davvero con Salvi, ma usando l’auto di Francesco Morini. Quando a mezzanotte passa il sorvegliante della società, trova le auto di Vieri e Salvi regolarmente in garage: viene multato Morini.
«A San Siro contro l’Inter. Fine primo tempo e perdiamo 1–0. Sabatini controllava Domenghini e Delfino era “libero”. Sono andato dal dottor Fulvio, su delega dei compagni e ho detto “Scusi, forse conviene mettere Delfino stopper e liberare Sabatini”. Così ha fatto e abbiamo pareggiato. Bernardini mi dice sempre: “Roberto tu in campo fai quello che sai fare, nient’altro”. È uno al quale piace il bel gioco. Col quale puoi confidarti. Un secondo padre, il mio primo vero maestro. Non mi ha mai multato. Mi ha strigliato quand’era il caso, ma sa anche perdonarmi quando faccio qualcosa che non va. Una volta gli ho risposto con eccessiva durezza: mi diede un ceffone, ma poi a fine partita mi regalò una medaglia d’oro che gli era stata consegnata poco prima. E mi responsabilizza».
Qualcuno dice che dopo Meroni c’è lui. Forse non solo calcisticamente: «Mi hanno attribuito un flirt con Cristiana, la ragazza del povero Gigi Meroni. Invece non sono mai andato oltre una semplice amicizia». Occhiali scuri sul naso e aspetto un po’ trasandato, chiarisce: «Con Meroni non ci somigliamo. Ho sempre ispirato il mio gioco a quello di Sivori, il mio idolo. Che, chiamato in causa, conferma: “Vieri è l’unico col quale vorrei giocare insieme”».
Per Roberto c’è mezza serie A pronta a spendere e subito una maglia azzurra. Prima quella dell’Under 23. Gioca bene accanto a Riva, Anastasi, Savoldi, Boninsegna, Chiarugi. E segna un goal all’Irlanda del Nord. C’è anche la chiamata di Valcareggi per una tournée in Messico. E Roberto fa sfracelli. Ma a parole. «Non è stata un’esperienza piacevole: convocato e mai utilizzato. E poi anche Rivera sbaglia una partita: mi sembra troppo elogiato rispetto ai reali meriti. Ma quando gioca male, i giornali gli riservano commenti benevoli. E non ho mai detto che intendo soffiargli il posto». Valcareggi intanto non la prende bene.
Prima di lasciarla, Roberto salva la Samp dalla retrocessione. «Non vado via volentieri. Non posso dimenticare giorni felici. Mi sono ambientato bene. Esco da una vera famiglia e spero di entrare in un’altra. A volte mi verrebbe di dare un calcio alla carriera e ai soldi e fare di testa mia».
Con ciuffo in bella vista, spalle un po’ curve, basette lunghe e l’aria imbarazzata, entra nel sancta sanctorum. La Juve ha speso per lui la rispettabile cifra di 800 milioni di lire. Qui trova l’allenatore Luis Carniglia, non proprio entusiasta: «Se ti tagli quel mezzo chilo di capelli, mi fai un favore. Anche se non vorrei finissi sottopeso». Accontentato.
Il 27 agosto 1969 arriva l’Ajax in amichevole col signor Cruijff: applausi. Ma per Bob Vieri, che scorrazza, segna e provoca un autogoal. E timbra su un piazzato al Bologna. «Il calcio è bellissimo quando vinci». Poi la squadra si blocca, lui annaspa. E punta il dito contro i carichi di lavoro di Carniglia. «Divertirsi oggi è più difficile. Bisogna spingere come dannati. Io gioco per divertirmi. Se non mi diverto, è inutile che giochi. In settimana tutto bene. Ma alla domenica mi ritrovo i muscoli delle gambe duri. E più dormo, più ho sonno».
Altri spiegano la crisi diversamente: «Dolce vita? Ho ventitré anni, se all’inizio della settimana vado a ballare con la mia fidanzata non credo di nuocere a me, né alla Juve. Ho il mio carattere. Non lo posso cambiare. Ma sarò disciplinato. La Juve è la squadra che a un giovane come me offre maggiori spunti di suggestione».
Dopo due sconfitte consecutive, Carniglia viene cacciato. Roberto non disapprova: «In campo non sapevamo cosa fare». Poi un giorno c’è Milan–Juventus, che è anche la sfida a distanza con Rivera. E arriva papà Vieri: «Datti da fare figliolo, puoi rendere di più».
«Sono abituato al fatto che da me si pretenda sempre molto». Duetta con Haller, poi irride Schnellinger col sinistro e stende Cudicini col destro. Raddoppia Zigoni, la Juve passa a San Siro. Chiede all’arbitro il pallone della partita, piange di gioia. «Goal alla mia maniera. Sono felice e basta. Anche se penso di più a migliorare nel ruolo di regista. Oggi avremmo battuto chiunque. Una grande Juve. E se vinciamo lo scudetto offro una bottiglia di champagne a Haller: ci vuole riempire la piscina».
Sotto lo strato d’indifferenza c’è un ragazzo molto sensibile, entrato troppo presto nel grande giro. Sospeso tra euforia e vertigine. Rabitti prova a proteggerlo, insiste per sdoganarlo. Lo manda a Cervinia: deve irrobustirsi. Anche se nevica e Bob non esce quasi mai. Torna e lancia lungo per Haller. Il tedesco non ci arriva e Bob lo manda a quel paese: sacrilegio. Haller pretende le scuse. Con Del Sol invece Bob va d’accordo, soprattutto di notte.
Girone di ritorno. Dopo la partita con la Samp scoppia in lacrime negli spogliatoi. Adesso il fiore è reciso. I compagni la buttano sul ridere, cercando di scuoterlo. «Sono stato io a chiedere a Rabitti di mettermi a riposo. Fra influenza e infortuni, in inverno ho perso molto tempo. Quando invece mi hanno sostituito con Furino a metà dell’incontro col Napoli, mi è sembrato di subire un’ingiustizia. Mi hanno dato solo quei quarantacinque minuti per riscattarmi. La sera stessa avevo fatto le valigie per tornarmene a Genova. Solo Rabitti mi ha convinto a restare». Boniperti e Allodi lo convocano. Cercano di rasserenarlo e i genitori vengono pregati di trasferirsi a Torino.
A marzo dopo la sconfitta di Firenze, lo scudetto sfuma. Il Cagliari è imprendibile. Sul banco degli imputati Anastasi, Haller e, ovviamente, lui: «Non è colpa mia. Mi sono impegnato, ho corso. E poi si tira sempre in ballo il mio rapporto con Haller. Prima si diceva che non ci passavamo la palla, adesso che ce la passiamo troppo». Gli tocca la multa.
Sul “caso Vieri” interviene Colantuoni, presidente della Samp: «Vieri non sa badare a se stesso: scommetto che è capace di uscire al mattino in giacchetta, ma Torino non è Genova. Mandatelo qui per gli allenamenti. Il sabato e la domenica ve lo restituiamo».
Ancora Milan: forse viene escluso dall’undici di partenza, lui sta male per l’anticipazione della stampa. «Lasciatemi in pace». Parla con Rabitti prima dell’allenamento, salta sulla sua Porsche rossa e se ne va. Telefona alla madre. «Mio figlio ha già sopportato abbastanza. Non è giusto che lo trattino così. Da quando gioca nella Juventus, non è riuscito a trovare se stesso. Ed io credo di sapere di chi è la colpa». Tre giorni a Genova in permesso.
«Ho un carattere impossibile. Dico tante stupidaggini. Come quella che sarebbero i giornalisti a dettare la formazione. Mi scuso. Anche con Haller mi ha rovinato il mio carattere toscano». Per orientarsi nei suoi tortuosi percorsi mentali, si chiede anche a Bernardini: «Roberto è un bambino con la faccia da vecchio. Si può anche comunicare con lui, ma facendo ricorso all’intuizione». Migliore in campo contro la Lazio. E sembra arrivare la riconferma.
«Ho sbagliato ad andare alla Juventus. Non ero maturo. A chi non piacerebbe andare alla Juve? Mi era parso un punto di arrivo e invece non ho capito che era soltanto un punto di partenza. Ero frastornato e ho le mie colpe. Tutti parlavano di me come il nuovo Sivori. È facile montarsi la testa. Giocavo male, me ne rendevo conto io per primo. Ma ciò che più mi demoralizzava era il silenzio del pubblico. Quando sbagliava qualcun altro, erano fischi. Quando sbagliavo io, silenzio assoluto». Viene recapitato alla Roma.
Adesso o mai più. Helenio Herrera ha appena ricostruito fisicamente e psicologicamente Fabio Capello e ci crede. Allenava Roberto nell’Under 23. «Ha grande classe. Tornerà quello della Sampdoria». Alla presentazione con la nuova maglia, Bob arriva con venti minuti di ritardo: «Mi sono perso, non sono pratico di Roma». Poi se ne sta tutto il tempo appoggiato allo stipite di una porta. Sguardo basso, scocciato. Con lui c’è ancora Luis Del Sol, che tranquillizza tutti: «Bob è così e se si mette a giocare, la Roma andrà a mille».
Salvori parte in contropiede e la dà a Cordova, che mette basso in mezzo, velo splendido di Amarildo e piatto di Vieri sull’uscita di Sulfaro: è il 6 settembre 1970, la vittoria nel derby di Coppa Italia. Lui in quel pre–campionato offre spettacolo. E trattiene a lungo la palla. Quel tocco inutile, proprio per questo divino.
Poi i primi fischi e una catena interminabile di problemi fisici, che Herrera riesce facilmente a spiegare: tutti inventati. Per il dolore al ginocchio l’aveva mandato a Parigi dall’amico Wanono, mago del massaggio. Bob era tornato guarito, ma gli era scoppiato subito il mal di denti. Poi si stira (davvero) e perde un altro mese. Così quando in un Fiorentina–Roma si strappa un legamento, non dice nulla e continua a giocare. «Chi mi avrebbe creduto? Potevo chiedere di uscire, lo so. Sono considerato uno sfaticato».
Ha un amico vero, è Gianfranco Zigoni. Ma fuori dal campo. Perché in partita non fanno altro che litigare. Non solo per battere le punizioni, ma per qualsiasi sciocchezza. «Certo che mi intestardisco nel dribbling, certo che tengo palla. Se mi costringono a cambiare registro, non mi diverto. E finisce tutto». Quasi pronto per il rientro in squadra, riesce a farsi espellere e squalificare con la Roma De Martino. Anche se quel giorno va in goal. Herrera sbraita: «Sei un fuoriclasse. Devi metterti a giocare come sai».
Per tornare stabilmente in squadra deve aspettare che Amarildo prenda tre giornate di squalifica. Partecipa alla goleada al Catania. Ma il mago si accorge che il ragazzo indugia col whisky e le sigarette, rifugio artificiale della sua infelicità. «Quando si parla del solito Vieri piantagrane, mi vengono le lacrime agli occhi perché penso al dolore di mio padre e mia madre». Barba incolta, ciuffo e un’ora di ritardo all’allenamento. Pronta la multa. Risposta: mezz’ora di ritardo.
«Nel primo anno alla Roma gli allenamenti erano troppo duri. Ora mi sto abituando. Mi sono fidanzato e questo mi ha dato un senso di calma e un equilibrio che prima mi sfuggivano. Herrera dice che sono un uomo squadra. Credo di aver raggiunto la consapevolezza delle mie possibilità sia come uomo che come calciatore». Ma gioca solo il girone d’andata. Poi Helenio lo battezza numero tredici. «Meglio così, vuol dire che mi riposerò. Il calcio è la mia vita, non posso permettermi di rinunciare».
Nell’estate 1972 se ne va in Sardegna in vacanza. Rifiuta il Palermo, ma c’è il Bologna. «Il mago dovrà pentirsi amaramente. Lo aspetto alla terza giornata». Bologna–Roma 1–3. Per evitare la fatica di andare al cinema, si è accaparrato un costoso proiettore. E ha sposato una ragazza parigina, come se oramai inseguisse solo il destino dei fiori del male. Irrecuperabile anche per gli amici fraterni e per la massa catalogato come fenomeno da baraccone.
Un giorno, dopo una sconfitta, Pesaola ordina dieci giri di campo di quelli pronti via, al massimo della velocità. Dopo qualche minuto, Bob si stacca dal gruppo e si dirige verso un angolo del campo. Sta per calarsi un po’ i pantaloni, quando Pesaola urla: «Dove va Vieri?». «Vo’ a fa’ l’antidoping, Maremma maiala a tutta l’Argentina».
Proprio Bruno Pesaola ha chiamato l’amico Juan Carlos Duran, un pugile che si alza alle cinque del mattino per far correre Bob nei boschi. «Il matrimonio mi gioverà. Il Vieri di una volta non esiste più. Non prometto cose eccezionali. Vorrei soltanto giocare come so. Come alla Sampdoria. La mia parabola discendente dovrebbe essere finita. Ora mi sacrifico. Non posso più sbagliare. E ho trovato Pesaola che mi capisce come mi capiva Bernardini». Intanto è nato il suo primo figlio: lo chiama Christian.
I dirigenti sono dalla sua parte, i tifosi in piedi ad applaudire al primo tocco. E Pesaola riesce addirittura a prevederne i dolorini: «Bravo quando gioca per gli altri. Se si intestardisce nel dribbling, torna in tribuna. Un bel posto numerato e lo lasciamo là». Lui regala sprazzi di classe pura, assist da sogno. E davvero non dribbla più. Migliore in campo nella squadra che ne rifila tre al Milan e tre all’Inter. «Ultimamente mi hanno sempre marcato i terzini. Strano, visto che gioco piuttosto arretrato. Evidentemente ci si preoccupa del momento in cui mi butto in area. In quei casi sono piuttosto difficile da fermare. Mai in tanti anni di carriera sono stato tanto felice». Segna nella quaterna al Cagliari. Paragoni in libertà, perfino con Neeskens. Concede un cameo in Coppa Italia, quella vinta.
Non può durare e lui fa il suo: infatti scappa.
Prima a Bangkok, dopo una vincita al gioco. Quasi un mese. Poi in America, dove lo porta Marino Perani. Dollari e calcio nuovo. Rimbalza in Canada: qualche partita e torna a casa. Allarga le braccia, «che vuoi farci… è così». Praticamente inattivo. Vale adesso molto meno che al Prato. Sembra davvero il capolinea anche perché perde sua madre.
«Ho sempre detto e fatto ciò che pensavo. Grosso errore che però ripeterei. Non sono mai sceso a compromessi, né mi sono arruffianato nessuno. Non andavo d’accordo con Herrera, ma ho sempre rispettato le sue opinioni e la sua personalità. Non mi sono mai reputato migliore di altri calciatori, ma neanche peggiore. Fino a poco tempo fa tutto ciò non era accettato. Ora molte cose sono cambiate. Ma io per divertirmi, me ne vado da Pelé, se ci riesco». Il provino ai Cosmos però va male.
Diciotto mesi di isolamento. Poi la stagione del Bologna 1976–77. «Oggi sono tornato Roberto Vieri. Anche per la gente. Il merito è di Giagnoni, che è un uomo vero e meriterebbe più fortuna». Un mese di grandi prestazioni. Ma la squadra stavolta è fragile e non può reggere il suo estro vagamente anarchico: in quelle sue quattro partite si prendono dieci goal, segnandone uno.
Se ne va in Australia, ma questa non è una fuga. Trova l’ingaggio in un club italiano alla periferia di Sidney. L’espressione è cambiata, più serena. Gli danno in mano il gioco e la squadra vince il campionato.
Un giorno si ritrova accanto alla radio per ascoltare Torino–Lazio di Coppa Italia. Sembra distratto, a tratti quasi annoiato. Anche quando il Torino va in vantaggio. Intorno a lui seguono la partita alcuni parenti. Che sembrano molto più interessati al racconto martellante di Ameri. Coinvolti come se giocassero. Poi gli occhi di Bob s’illuminano, improvvisamente. Anche se solo per un attimo: ha segnato Christian.
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