sabato 25 novembre 2023

Gianfranco ZIGONI


«Quello è un “musso”, è un “figlio de puta” e poi ha troppe donne che lo sfiniscono, ma quando vuole è un purosangue». Queste parole, pronunciate da Saverio Garonzi, presidente di Gianfranco Zigoni nei suoi anni a Verona, riassumono perfettamente la personalità e il carattere del nostro. Pare di vederlo ancora, Zigo, che si toglie pelliccia e cappello, il suo abbigliamento da panchina, saluta il suo pubblico e, se gli gira bene, porta a casa la partita con un paio di prodezze.
Racconta: «Detestavo gli arbitri, tiranni al servizio delle squadre più potenti e fregarli non era solo un piacere, ma un dovere per chi giocava in una squadra di provincia. Sognavo di morire sul campo, con la maglia del Verona addosso. Mi immaginavo i titoloni dei giornali e la raccolta di firme per cambiare il nome allo stadio: non più Bentegodi, ma Gianfranco Zigoni. Ho accumulato più giorni di squalifica che gol, perché non sottostavo ai soprusi degli arbitri. Dicono: bisogna credere alla buona fede di quei signori. Ma per favore, ho visto furti inimmaginabili e ho pagato conti salatissimi. Una volta mi diedero sei giornate di squalifica 30 milioni di multa perché dissi a un guardalinee di infilarsi la bandierina proprio là. 30 milioni negli anni ‘70: all’epoca con quei soldi compravi due appartamenti. Il prezzo della mia libertà di opinione. Ho un unico rimpianto, essermi tagliato i capelli alla Juventus, ma ero troppo giovane, non avevo la forza di ribellarmi agli Agnelli. Avevo una grande opinione di me stesso, pensavo di essere il più forte calciatore sulla terra. In campo odiavo l’avversario e lo colpivo con il mio pugno, che era micidiale, fuori gli volevo bene e lo invitavo a bere un whisky».
Un giorno, alla Roma, gli capita di incontrare il Santos di Pelé, in amichevole, all’Olimpico. «Mi dico: “Oh, giustizia sarà fatta, oggi il mondo capirà che Zigo-gol è più forte di Pelé”. Lo aveva già detto Trapattoni dopo un Genoa-Milan 3-1 degli anni ‘60, tripletta mia. “Ragazzi – dichiarò il Trap quel giorno – Zigoni è meglio di Pelé”. Lo aveva ammesso Santamaría, gran difensore, dopo una sfida Juve-Real Madrid: io avevo fatto impazzire il Santa, finte e tunnel, e quello a fine partita si rivolse così a Del Sol: “Este chico es mejor que el negro”. Ero convinto della cosa, mi sentivo più bravo di Edson Arantes e di tutti i suoi cognomi. Poi arriva l’amichevole con il Santos, vedo Pelé dal vivo e mi prende un colpo. Madonna, che giocatore. Ho una botta di depressione, di malinconia, penso che a fine partita annuncerò in mondovisione il mio ritiro dal calcio. Mi preparo la dichiarazione in terza persona: “Zigoni lascia l’attività, non sopporta che sul pianeta ci sia qualcuno più forte di lui”. A un certo punto il Santos beneficia di un rigore, Pelé va sul dischetto e Ginulfi, il nostro portiere, para. Allora è umano, penso, e così resto giocatore».
Girava in pelliccia, mangiava coniglio e polenta prima di un allenamento, erano più le volte in cui usciva dal campo con la maglietta ancora asciutta, ma sapeva come far innamorare i tifosi. Calzettoni perennemente abbassati, una stempiatura evidenziatasi ben presto nonostante sulla nuca i capelli fossero sempre lunghi, Gianfranco Zigoni dall’inizio degli anni ‘60 alla fine dei ‘70 è stato uno dei calciatori più spettacolari. Faceva impazzire gli allenatori, ma li ripagava sul campo: «Più forte di me? C’è stato solo Pelé, io ero il corrispettivo in bianco. Solo che per avere continuità avrei anche dovuto allenarmi, qualche volta».
Il vocabolo estroso sarebbe fin troppo riduttivo per inquadrare Zigo-gol. Lui era la mosca bianca, quello che usciva dagli schemi, che non si faceva ingabbiare, convinto che il suo enorme talento sarebbe comunque emerso. Juventus, Genoa, Roma, Verona, Brescia: «In bianconero vinsi anche uno scudetto con Heriberto Herrera: mi faceva impazzire chiedendomi di andare a coprire a centrocampo. Quello era uno Zigoni vincente, ma triste».
Il meglio è convinto di averlo dato a Verona e nelle ultime due stagioni con il Brescia: «A Verona ero e sono tuttora un idolo. I bambini incidevano sui banchi delle chiese il mio nome e i preti si arrabbiavano con me. Ci vorranno almeno altri trent’anni prima che a Verona mi dimentichino. Quando giocavo penso di aver distribuito almeno 5mila fotografie autografate e ancor oggi i tifosi mi chiamano nei club».
Arriva a Brescia l’11 ottobre 1978, al mercatino di riparazione, lo pagarono 60 milioni. Ha già 34 anni, si teme che sia a tirare indietro il piedino, ma serve una quarta punta dietro il trio Mutti-Grop-Mariani: «La squadra era in B e navigava in brutte acque. Mi chiamò il mio amico Gigi Simoni, con il quale avevo giocato nella Juventus. Giocai 21 partite e segnai 4 gol, ci risollevammo in fretta per una salvezza dignitosa».
Quando la gara non si sblocca, dalle scalette del Rigamonti si alza il coro: “Zigo, Zigo, Zigo” e Simoni, puntualmente, opera il cambio. Capita però che vada a prendere posto in panchina a partita già ampiamente iniziata. Capita proprio in un Brescia-Verona del 6 gennaio 1980: «A una certa età il freddo pungente fa male», commenta a fine gara, mentre Simoni lo guarda sorridendo. «L’anno della promozione non feci gol, ma dopo un pessimo inizio della squadra giocai 4 partite consecutive e facemmo 7 punti. Ci diedero la spinta decisiva».
L’anno successivo è quello della promozione: «Rimasi, ben sapendo che il mio compito sarebbe stato quello di uomo spogliatoio». Lo ricordano con il numero 14 sulle spalle (al tempo in panchina andavano tre giocatori), in quei riscaldamenti sotto la tribuna del Rigamonti: «Entravo sempre, io dicevo al mister di far giocare i giovani, ma lui aveva bisogno della mia esperienza».
Ma Zigoni in che ruolo giocava? «Lerici, l’allenatore che ebbi al Genoa, diceva prima della partita: date la palla a lui. Ero un numero 11, che aveva bisogno di giocare a briglie sciolte, oggi mi farebbero stare, forse, nei Dilettanti, eppure ero il più forte. Per fare un’altra carriera avrei dovuto rinunciare a parecchie bicchierate con gli amici, e vedere qualche alba in meno, ma non ne valeva la pena».
Fare il calciatore per Zigoni è stato un gioco. Il bello è che gli è venuto anche bene. Nonché un aneddoto ulteriore, con parole sue: «Prima della gara Valcareggi mi dice: “Zigo, oggi non giochi”. Non c’era nulla da fare, dovevo andare in panchina, e visto che era una giornata molto fredda decisi di andare in campo con la pelliccia e il cappello. Entrai in campo e ci fu un boato».

NICOLA CALZARETTA, DAL “GS” DEL GIUGNO 2016
È l’antica Opitergium, oggi Oderzo provincia di Treviso, ad aver dato i natali a Gianfranco Zigoni, venuto al mondo il 25 novembre 1944 sotto le bombe, nel quartiere Marconi, il Bronx come lo definisce lui. È qui che si è manifestato il lussureggiante talento di uno dei giocatori-simbolo degli anni Settanta quanto a genialità e anticonformismo. Capelli lunghi, viso stropicciato, sguardo truce. D’inverno la pelliccia. E sotto la pelliccia, il petto nudo e la fondina con la pistola. Ma soprattutto, sotto la pelliccia, un ragazzo nato libero, buono e romantico, roso da un’inquietudine eterna che ancora oggi non lo abbandona. Una carriera lunghissima che lo ha visto indossare le maglie di Juventus, Genoa, Roma, Verona e Brescia, prima di chiudere ultraquarantenne con l’Opitergina e il Piavon nei Dilettanti.
Uno scudetto con i bianconeri nel 1967 e una serie infinita di avventure. Il Bronx si diceva: è qui che ci troviamo, nella sua vecchia casa. Piano terra, una taverna tappezzata da foto e ritagli di giornali. Un tazebao di ricordi, tra immagini giovanili, ritratti del “Che” e la sciarpa del Rayo Vallecano. “Tatino”, il fratello minore, è con noi: a lui il compito di preparare il pranzo. Uova sode, salame, formaggio e buon vino. «Questa è l’amicizia. Condividere la tavola».
La nostra chiacchierata inizia così, a stomaco pieno. «Siamo una famiglia di sportivi. Mio figlio Gianmarco è adesso alla Spal. Spero che faccia bene. È un bravo centravanti oltre che un ottimo figliolo. Mio fratello Duilio era un pugile. Domenico e Fiorenzo calciatori; Giovanni era una grande atleta, oggi purtroppo è malato di sclerosi a placche e costretto alla sedia a rotelle. Tatino, che ha più di 60 anni, fa ancora le maratone. Io 42 chilometri non li ho mai corsi in tutta la mia carriera».
Però tra i calciatori sei stato il più grande. «Grande è solo Dio, Gesù. Poi Che Guevara per la sua idea di uguaglianza. I grandi veri sono i missionari, i chirurghi».
E tu dove stai? «Sto con i fuoriclasse del pallone. Insieme a Pelé e Maradona perché calcisticamente siamo tre extraterrestri».
Pelé lo hai visto da vicino. «Amichevole Roma-Santos, 1972, in notturna. Una meraviglia nera. Salta di testa un paio di volte. Salta e rimane sospeso in aria. Di fronte a quella visione, mi dico: “Io al calcio non gioco più”. Poi Ginulfi, il nostro portiere, gli para un rigore ed io riprendo coraggio. “Allora Pelé è come me”».
L’unica differenza è il colore. «Parole di Gipo Viani, il mio direttore tecnico quando ero al Genoa, metà anni ‘60. Una volta disse anche che la nostra squadra era come il letame con un diamante incastonato, riferendosi a me. Io risposi dicendo che dal letame nascono i fiori. E i miei compagni sono ancora lì a ringraziarmi».
Per il madridista Santamaria eri più forte di Pelé. «Lo disse al mio grandissimo amico Del Sol dopo avergli chiesto chi fosse il “niño” con la maglia numero 9. Real Madrid-Juventus, avevo 17 anni. Perdemmo 3-1, il gol lo feci io. E nel tabellino dei marcatori accanto ai nomi di Puskas e Di Stefano, c’è anche quello di Zigoni».
Chiamato Gianfranco in memoria del fratello morto piccolino, quinto di otto figli. «Una grande famiglia: mio padre Francesco faceva l’operaio; mia madre Stefania tutto il resto. Devo tutto a loro e al Bronx, il mio quartiere dove ho imparato a vivere. Libertà, giochi, amicizia, uguaglianza. C’erano anche molti bambini di famiglie che venivano dal Sud. Mai saputo cosa fosse il razzismo. Un’infanzia non semplice, ma bella. Il fiume, le prime nuotate. La campagna, le corse e quando arrivava maggio con il rosario serale alla Madonna, si stava fuori anche dopo cena».
E al Bronx c’è spazio anche per il pallone. «Ed io ero il Duce. Non c’erano regole o costrizioni. Si giocava liberi, a piedi nudi. Solo l’istinto e il talento naturale. Ed io sono sempre stato il migliore. Sai quante volte ho giocato da solo contro tutti! A fine carriera ho allenato per anni i bambini. E con loro sono tornato ai quei primi anni fantastici».
Eri tifoso di qualche squadra da piccolo? «Il Grande Torino mi era entrato nel cuore, anche per la sua tragica fine. Stravedevo per Nacka Skoglund, grandissimo per la vita e anche per la morte. Mi piaceva Fausto Coppi. Mi attrae il talento, specie quando è maledetto. Anche in altri campi come la poesia e la musica. Ho avuto un debole per Pasolini con cui ho giocato una volta in una partita con gli artisti: mi fece un cross d’esterno che neanche i miei veri compagni di squadra. Ero l’idolo di Fabrizio De Andrè e lui lo era per me».
Come è che sei finito alla Juventus? «Fosse stato per me non mi sarei mai mosso dal paese. Ma ero bravo e se ne accorsero quelli del Pordenone che, a fine anni Cinquanta, era una succursale della Juve. Mi venne a cercare al quartiere Bepi Rocco e mi trovò che stavo palleggiando davanti casa a piedi nudi. Feci il provino per il Pordenone sotto gli occhi di Viri Rosetta, che lavorava per la società bianconera. Quindici minuti, tanto durò la mia esibizione. Preso all’istante».
Quanti anni avevi? «Quindici e fino ad allora non avevo avuto mai nessun allenatore. Non volevo farne di niente. Fu il prete a insistere e a convincere mia madre. Ed io lo feci per lei, santa donna. Al Pordenone trovai Ercole Rabitti. Un anno dopo ero alla Juve insieme ad altri tre ragazzi. Ricordo ancora il viaggio in treno a Torino: era la prima volta che ne prendevo uno».
Come stavi? «Male. Mi pesava la lontananza. Mi dicevo che cosa ci stessi facendo lontano da casa. Per fortuna c’erano dei parenti a Torino. E poi le regole, le fatiche, le corse. L’ho sempre detto: avevo doti tecniche incredibili; con l’allenamento le ho solo peggiorate».
Quanto guadagnavi alla Juve? «Quindicimila lire al mese. A Natale portai i soldi dei primi quattro mesi a casa e li consegnai a mia madre per le esigenze di famiglia. Tempo dopo andai a fare un prelievo e sul libretto che mi era stato aperto ci trovai cinquantamila lire. Hai capito? Ce li aveva messi mia mamma i soldi in più. Mi viene ancora adesso la pelle d’oca dall’emozione».
Alla Juve hai l’opportunità di conoscere Omar Sivori. «Un fuoriclasse, un’artista. Il primo incontro fu traumatico. Ero in sede insieme ad altri compagni. Lui si avvicina e ci chiede chi, nella squadra giovanile, indossi il “10”. Divento rosso come un peperone quando gli dico che lo porto io. “Ragazzo cambia maglia perché con quel numero non giocherai mai”».
E invece hai giocato la tua prima partita con la Juve proprio con la sua maglia. «10 dicembre 1961, avevo 17 anni, trasferta a Udine. Omar era infortunato e chi poteva sostituirlo se non io? I giornali parlarono di me. Allo stadio c’erano anche tanti miei compaesani a vedermi. Purtroppo l’emozione mi tagliò le gambe. Non feci bene».
Chi ti ha impressionato di più alla Juve, oltre al Cabezon? «Luis Del Sol. Un uomo vero, dritto, leale e sincero. Gran fumatore, grande bevitore, ma in campo un giocatore fondamentale e di una generosità unica. Lui non mi avrebbe mai detto a brutto muso di portargli la borsa come fece una volta Sivori. Io, comunque gli risposi per le rime: “Perché non porti tu la mia?”».
Non c’è male come risposta: è per questo che a novembre 1964 lasci la Juve? «No. Ero giovane e dovevo giocare. Meglio avere qualche opportunità altrove. Andai al Genoa e per due anni sono stato benissimo, nonostante la retrocessione in B. Giocavo, facevo divertire la gente, ho vinto i due derby con gol miei. E poi c’era mister Lerici che diceva alla squadra: “Ma quale tattica e tattica. Date la palla a Zigoni. Se ha voglia di giocare la partita è vinta. Altrimenti non c’è nulla da fare, possiamo stare qui anche tre giorni senza fare risultato».
Hai sempre avuto voglia? «No. Odiavo i compiti tattici. Dovevo essere libero di esprimermi. Il mio talento non poteva essere imbrigliato. Se mi lasciavano fare non ce n’era per nessuno. Una volta in un Inter-Juventus giovanile feci piangere Aldo Bet che non riusciva mai a beccarmi. Anni dopo in un Verona-Lazio, all’ennesimo tentativo di aggrapparsi alla maglia, tiro un cazzotto in faccia ad Ammoniaci che per poco non rimane secco e duro in campo. Lui dopo si rialzò. Io presi quattro giornate di squalifica».
Immagino che non vedevi l’ora di allenarti. «Non ho mai sopportato gli allenamenti. Ero sempre l’ultimo al campo. E se per caso capitava di arrivare in anticipo, mi nascondevo per poi comparire quando gli altri erano già pronti per la seduta. Anche prima della partita mi preparavo per ultimo e chiudevo la fila all’ingresso nello stadio. Il bello è che, specie a Verona, mi facevano trovare la roba già pronta, cosa che faceva imbestialire qualche mio compagno, su tutti Domenghini che era stato all’Inter e in Nazionale. Ma a lui rispondevano che solo per me facevano questo, perché ero Zigoni, il migliore».
E dei ritiri che mi dici? «Che io facevo di tutto per starci il meno possibile e per trovare altri modi di impiegare il tempo. Le notti erano lunghe. Sì, ho avuto molte donne. Ho bevuto, soprattutto whisky. Ma ho anche letto tanti libri, soprattutto di filosofia. Mi piaceva vivere la notte, respirarne l’aria, guardare le stelle. E la mattina dormivo fino alle dieci. E guai a chi mi svegliava prima, perché mi incazzavo come una bestia».
Anche con Guidolin? «Francesco era molto giovane. Era in camera con me. La squadra si trovava alle 8.30 per fare colazione. Allora io gli dicevo di portarmi caffè e cornetto direttamente in camera, alle dieci in punto, non un minuto prima. E lui da bravo figliolo, eseguiva».
E nessuno reclamava? «Qualcuno sì. Per esempio Antonio Logozzo, baffuto terzinone con i piedi di marmo. Una mattina fuori dalla mia camera sento il suo vocione, mentre io sono ancora a letto. Stava chiedendo a Valcareggi il perché di quel privilegio. E il mister, un grande, rispose così: “Tonino, quando avrai i suoi piedi potrai dormire anche tu fino alle dieci”».
La leggenda narra di uno Zigoni abile tiratore con la pistola. «Ma quale leggenda? È la verità. Io avevo una Colt 45, registrata e con regolare porto d’armi. La portavo sempre con me nella fondina sotto la pelliccia. E quando ne avevo voglia, aprivo la finestra della camera e centravo tutti i lampioni a portata di tiro. Lo facevo già alla Roma, con Petrelli. Al Verona era un testa a testa con Mascalaito, uno che tirava benissimo».
Manca il capitolo delle auto per completare il quadretto. «La storia più bella è quella dell’incidente con la mia Porsche. Un trattore mi attraversa la strada. Per scansarlo finisco in fossato. Macchina sfasciata, ma io neanche un graffio. Dietro di me, su un’altra auto, c’è il mio compagno Maddè e il medico del Verona. Che si precipitano verso di me. E allora io fingo di essere morto. Loro iniziano a urlare: “Zigo è morto”, hanno le facce come il marmo. Alcuni secondi di panico, poi gli faccio l’occhiolino. Me l’hanno perdonata dopo un po’ di tempo. Invece il padrone del trattore mi chiese l’autografo».
E infine l’allergia alle regole e agli arbitri in particolar modo. «L’ideale è giocare come si faceva da bambini, senza arbitro. Non ho mai sopportato l’ingiustizia. Prendevo fuoco subito e qualche volta dovevano contenermi con la forza. Una volta quando ero a Verona, giocavamo con una squadra che doveva salvarsi, noi eravamo tranquilli. L’arbitro la combinò grossa: convalidò l’1-0 su punizione di seconda che fu tirata direttamente in porta e poi vide solo lui il classico gol-fantasma che valse il 2-1 finale. Lo avrei strangolato».
Qual è stato l’episodio più clamoroso che ti ha visto protagonista? «Di sicuro quello con il guardalinee che, dopo un Verona-Vicenza, nel sottopassaggio a fine gara, ebbi l’ardire di interrompere un dialogo tra me e il mio compaesano Faloppa».
Perché? «Voleva sapere cosa gli avevo detto in campo durante la partita.
E in campo cosa era successo? «A una mia protesta, lui mi si avvicinò e mi disse: “Sei sempre per terra, non stai in piedi”. Effettivamente la notte precedente ero stato con una donna fino all’alba. Ma quelli non erano fatti suoi e lo mandai a quel paese. Così a fine partita venne da me a chiedermene conto. Ed io gli dissi: “Come ti permetti di interrompermi mentre sto parlando. La bandierina te la cacci su per il culo”. Morale, mi dettero sei giornate di stop e mi tolsero sei mesi di stipendio».
Nel 1966 torni alla Juve e vinci lo scudetto. «Feci il gol del 2-0 nell’ultima gara contro la Lazio. Lo avevo detto a Cinesinho di tirare teso, sul primo palo. Il merito di quello scudetto va tutto a Heriberto Herrera, che ci ha creduto fino in fondo».
Come erano i tuoi rapporti con HH2? «Tesi. Lui mi ha tarpato le ali. E di me diceva. “Tua madre è una santa, ma tu sei un hijo de puta”. È stato un dittatore, una volta mi dette un cazzotto nello stomaco perché in una partita di Coppa Campioni contro l’Olympiakos non avevo seguito il mio marcatore. Mi è dispiaciuto lasciare la Juve, ma non sopportavo le regole ferree, le telefonate alle dieci di sera, i capelli corti».
E così nel 1970 vai alla Roma. «Due stagioni discrete. Con Bob Vieri una volta litigammo per battere una punizione. Intervenne l’arbitro Lo Bello a mettere fine alla sceneggiata. Calciai io e feci gol. Un’altra volta a Catanzaro tirai da lontanissimo, approfittando del vento. Del Sol mi dava del pazzo, io segnai. E la sera in tv lo fecero rivedere molte volte».
A Roma trovasti l’altro Herrera, Helenio. «Una pacchia. Perché il Mago era innamorato perso di Fiora Gandolfi. Così lui verso le undici di sera, credendo che la squadra stesse dormendo, lasciava il ritiro per andare da lei. E noi si faceva lo stesso».
1972: inizia la tua storia d’amore con il Verona. «Sono stato lì sei anni. Mi hanno voluto bene. Ed io ho ricambiato l’affetto con tutto me stesso. Sono stati i tifosi gialloblù a scrivere un giorno su uno striscione: “Dio Zigo, salvaci tu”. Una cosa bellissima».
Alla fine del tuo primo campionato con il Verona, fate lo scherzetto al Milan di Rivera: fu tutto regolare? «Regolarissimo. Altrimenti io non sarei sceso in campo. In tutta la mia carriera solo due volte, in campo, ripeto: in campo, ci siamo di fatto accordati per un pareggio. E solo un’altra volta, in un Cesena-Brescia di B, alcuni ex compagni che giocavano nella squadra romagnola, ci chiesero di lasciare loro la vittoria. Io comunque non mi risparmiai, tanto da far fare una figuraccia al mio marcatore che era osservato dal Milan e che non fu preso».
Torniamo alla “Fatal Verona” che costò lo scudetto della stella al Milan. «La verità è questa. A noi la società aveva promesso il premio doppio, seicentomila lire a testa per la vittoria. Noi eravamo salvi, ma c’era in ballo la regolarità del campionato. Nessuno di noi avrebbe potuto tirarsi indietro. Io ricordo che mi scaldai parecchio quando vidi lo stadio colorato di rossonero. Guardai il mio amico Mazzanti e gli dissi: “Questo non va bene”. Allora rivolto ai miei compagni dico: “Datemi al più presto il pallone, che ci penso io”».
Minuto diciassette: fuga di Zigoni sulla destra, cross in area e Sirena fa l’1-0. «E il Milan affondò. Il primo tempo finì 3-1 per noi. Nel secondo tempo arrivarono altre due reti per parte per il 5-3 finale. E lo scudetto alla fine lo vinse la Juve».
Ma durante l’intervallo non successe nulla? «Niente. Temevo che qualcuno del Milan potesse venire da noi, ma erano miei pensieri. La partita è stata regolarissima. L’unica cosa è che il presidente Saverio Garonzi ci fregò perché ridusse il premio a cinquecentomila lire».
Tu e Garonzi eravate veramente una coppia di fuoco. «Gli davo del tu, lo chiamavo Saverio. Se il Verona vinceva ero il migliore. Se perdeva la colpa era mia che avevo troppe distrazioni. Era un uomo normale che aveva fatto i soldi con il lavoro. Era rimasto modesto e tremendamente tirchio. Una volta mi regalò una cravatta. Ed io gli dissi: “Saverio, e che ci faccio solo con la cravatta. Mi serve anche il vestito”. Acconsentì. Ma quando gli arrivò il conto, trecentocinquantamila lire, minacciò di tagliarmi lo stipendio».
Una volta ti promise una Jaguar, vero? «Era usata, verde. Comunque sì. L’avevo vista nella sua concessionaria. “Se fai otto gol te la regalo”. Ero a quota sette. Contro la Sampdoria c’è un rigore per noi. Prendo il pallone per calciare, ma Emiliano Mascetti, il rigorista della squadra, non ne vuole sapere. Litigammo in campo per alcuni minuti. Poi il mio amico Mazzanti mi convinse. Ed io, per ripicca, in quel campionato non segnai più, rimanendo a sette gol».
Garonzi nel gennaio del 1975 fu vittima di un rapimento. «Ed è rimasto sempre convinto che io fossi uno dei suoi carcerieri».
Nel 1975, dopo il ritorno in A, sulla panchina del Verona si siede Ferruccio Valcareggi. «Un papà. Mi fece debuttare in Nazionale, nel 1967, a Sofia contro la Bulgaria. Poi mi convocò altre due o tre volte, senza farmi giocare. Così gli dissi di non chiamarmi più. E addio maglia azzurra. Mi voleva bene e mi ha sempre trattato come un figlio».
Però quella volta che ti tenne fuori con la Fiorentina, ne tirasti fuori un’altra delle tue. «Stagione 1975-76. Andai in panchina con la pelliccia e il cappello da cow boy. Ma guarda che non credevo di suscitare tanto scalpore».
Mica dici sul serio? «Il “Valca” si permise di tenere fuori il più grande. “Zigo oggi non giochi”. “Come, non fa giocare il giocatore più forte del mondo? Sta scherzando spero!”. I miei compagni, tra cui anche Klaus Bachlechner, molto tirchio, scommisero che non sarei andato in panchina conciato in quel modo. Scommessa persa, ma io avevo già deciso che l’avrei fatto comunque».
E del malore nell’intervallo di Juventus-Verona che mi dici? «L’anno dopo, campionato 1976-77. La verità è che mi colpì di striscio una bottiglietta mignon sulla spalla. Sirena e Franzot che erano dietro di me mi dissero di buttarmi per terra, mentre un ragazzino fece sparire la bottiglia. Io mi sentii male davvero, ma per l’agitazione che mi prese, non per il colpo subito. Mi dettero un calmante, non stavo in piedi e non rientrai in campo. Valcareggi insistette perché rientrassi, ma non ce la facevo proprio».
Qual è il gol che ricordi con più piacere della tua parentesi veronese? «La bordata di destro, che non è il mio piede migliore, in un’amichevole contro il Vicenza. Una rete bellissima. E appena vidi la palla gonfiare la rete me ne andai dal campo. E così fece gran parte del pubblico del Bentegodi che non avrebbe potuto vedere di meglio».
Avresti mai lasciato Verona? «No. Nel 1974 rifiutai una bella offerta dell’Inter. Il mio sogno era quello di morire con la maglia del Verona addosso con tanto di intitolazione del Bentegodi al sottoscritto: “Stadio Gianfranco Zigoni”. Senti come suona bene».
Dopo il Verona, ancora un po’ di professionismo con il Brescia in B. «Al Brescia mi chiamò il mio ex compagno Gigi Simoni nel 1978. Gli detti una mano per la promozione in A l’anno dopo. Poi ho preferito fare ritorno a casa tra la mia gente».
C’è stato un tuo erede? «Dirceu, che ha giocato anche nel Verona. Un giorno lo incontrai a Milano e lui mi venne incontro per ringraziarmi di tanto onore».
Hai tatuaggi? «Nessuno. I veri tatuaggi li ho nel mio cuore: i miei genitori, la mia nipotina morta a quattro anni e tutti i bambini del mondo».

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