PAOLO ROSSI, “HURRÀ JUVENTUS” DELL’OTTOBRE 2010
È stato un ingegnere tra i più importanti nella Torino del secondo dopoguerra e la sua ampia cultura l’ha messa al servizio della costruzione di scuole e biblioteche. Oggi, a 90 anni, è un coinvolgente narratore di una storia di famiglia che ci riguarda da vicino. Perché Mario Daprà è il figlio di Francesco, classe 1881, uno studente che insieme ai suoi compagni, a 17 anni, decise d’inventare una creatura che ci riempie d’infinito orgoglio. I suoi ricordi partono dai racconti del padre, uomo di poche parole, come si conviene a chi genera sogni che valgono per milioni di persone.
– Chi era suo padre?
«Mio padre andava a scuola al liceo classico Massimo D’Azeglio ed è stato uno dei fondatori della Juventus. Il D’Azeglio a quel tempo era frequentato dalla “crema” dei torinesi, uscire da lì era un titolo importantissimo, dal valore formidabile».
– Come nacque l’idea di fondare una squadra di calcio?
«Tutto nasce dai fratelli Canfari, che sono stati i primi presidenti della società. Uno di loro aveva lavorato in Inghilterra dove si era innamorato del calcio che – differentemente che in Italia – era già uno sport molto popolare. La prima Juventus, nata nel 1897, non era una società unicamente votata al pallone. L’idea di base era quella di creare una polisportiva che abbracciasse diverse discipline. Il calcio divenne il primo e poi l’unico interesse quando si affacciò alla ribalta anche il Torino e la rivalità fu subito accesa. Le prime partite si giocarono in Piazza d’Armi, poi nel 1923 ci fu l’approdo in corso Marsiglia quando Edoardo Agnelli divenne il presidente della Juventus. Quello stadio me lo ricordo bene. Era diviso in due parti: una agonistica, messa in funzione per le partite; l’altra, invece, era una sorta di club, aperto ai soci e ai loro invitati. Ho ricostruito una pianta del vecchio campo, basandomi su alcuni dati. Oltre al terreno di gioco c’erano anche otto o dieci campi da tennis. Il pubblico era tranquillissimo: nella tribuna dei soci, arredata con panche di legno, al massimo i tifosi gridavano “Alè alè!” per incitare i propri giocatori o battevano le mani quando gli avversari facevano una bella azione. Sotto la tribuna che divideva il campo dal resto dell’impianto c’erano gli spogliatoi. Per dare un’idea dalla distanza rispetto al calcio di oggi basta pensare che i giocatori attraversavano il parterre e si intrattenevano con il pubblico o che per mantenere in ordine il prato si organizzavano merende a base di uova sode e insalate di girasoli. Sul campo dove giocava la Juventus».
– Cosa le raccontò suo padre della fondazione? La famosa panchina di Corso Re Umberto dove nacque la Juventus esisteva davvero?
«Sì, la panchina era posizionata sul controviale. Uscendo dal D’Azeglio, mio padre e gli altri ragazzi si fermavano li, dove c’è il Caffè Platti. La signora del caffè era prosperosa e loro, che non avevano abbastanza soldi per entrare nel locale, la guardavano dalla vetrina. La panchina è stata poi ricostruita successivamente dalla Juventus facendosi dare il modello dall’Ufficio Giardini e Alberate del municipio. Quand’ero bambino, negli anni Venti, mio padre mi portava a vederla ma ormai, in Corso Re Umberto, ce n’erano tante a farle compagnia… Comunque va detto che non si può parlare di fondazione vera e propria. Non esistono atti ufficiali, non si trovano. Diciamo che erano dei ragazzi che organizzavano riunioni e s’innamorarono del gioco del calcio, lo volevano praticare. Quando la Juventus era diventata ormai una società affermata, che partecipava al campionato di Serie A e i fondatori erano diventati uomini, le riunioni le facevano allo stadio. Poi cambiarono idea scoprendo il Caffè degli specchi, in piazza Solferino».
– A casa sua esistevano documenti ufficiali sulla Juventus?
«Sì, mio padre li custodiva in un armadio. Non li ho mai letti e non so cosa ci fosse di preciso. Ricordo che non erano raccolti e catalogati, erano sparsi qua e là, non c’era l’idea che potessero avere un valore storico. Purtroppo i bombardamenti della guerra hanno causato la perdita di un prezioso patrimonio di testimonianze che oggi risulterebbero utili».
– Suo padre in che ruolo giocava?
«Era un terzino e giocò fino al 1907. Fece parte dei consigli di amministrazione della Juventus, di cui era revisore dei conti. Poi, con l’avvento degli Agnelli negli anni Venti si formò una contrapposizione tra le due anime che convivevano nella società: quella dei ragazzi che avevano iniziato l’avventura e pensavano al calcio con lo spirito delle origini e quella, più moderna, che incarnava un’idea di squadra all’altezza dei tempi, con uno stretto rapporto con la Fiat. Avvenne così una sorta di naturale passaggio di consegne tra il vecchio e il nuovo, simbolicamente rappresentato dallo spostamento dal campo di Corso Marsiglia allo stadio intitolato a Benito Mussolini, diventato poi Comunale e oggi Olimpico. A Torino, negli anni Trenta c’erano stati i Vittoriali dello sport, una specie di Olimpiade per ragazzi. Una volta finiti, lo stadio era rimasto inutilizzato. La federazione fascista propose allora alla Juventus e al Torino di giocarci. Le due società accettarono perché il campo di Corso Marsiglia era ormai inadeguato. Fu la svolta decisiva. I vecchi soci della Juve che avevano un posto numerato in tribuna non si ritrovano più, il loro mondo scomparve e non pochi abbandonarono il calcio per iscriversi alla società di canottaggio Caprera, non tanto per reale interesse verso quello sport, ma per avere un motivo per continuare a ritrovarsi. Forse aveva inciso anche il fatto che per aderire alla Juventus era aumentata la quota d’iscrizione e i fondatori del D’Azeglio non volevano pagarla…».
– Andava allo stadio con suo padre?
«Poche volte al Mussolini, molto in Corso Marsiglia. Mi colpiva moltissimo che quando c’erano incontri con poca gente invitavano gli Artigianelli, allievi di una scuola per ragazzi sbandati, vestiti in rigorosa uniforme umbertina. Erano tanti, partivano con la banda e marciavano militarmente cantando l’inno della Juve, che per la verità non era particolarmente bello, aveva un ritornello molto retorico».
– Nel pubblico si notavano presenze femminili?
«Erano poche, le chiamavano le “dame patronesse”. Erano le sole ad assistere alle partite».
– Qual era il mestiere di Francesco Daprà?
«Era laureato in chimica e farmacia ma rinunciò a proseguire nel settore per impiegarsi alla Cassa di Risparmio, dove fece carriera come dirigente. La Juventus fu per lui un grande amore ma dopo il matrimonio si chiuse un po’ in famiglia, come capitava un po’ a tutti in quell’epoca. Andava ancora allo stadio, ma non era più il giovane con la barba delle origini».
– Le raccontava cosa significava essere juventini?
«Non c’era bisogno di parole. Lo si vedeva. Era vivere solo per la Juve. Se vinceva alla domenica, alla sera mio padre si presentava in famiglia con un dolce. Se il risultato era stato negativo si saltava pure cena…».
– Ha notizie di altri fondatori?
«Non ho avuto grandi frequentazioni: mio padre amava la Juventus, ma lo faceva in maniera discreta. Ricordo Nizza, un ingegnere dell’azienda tramviaria di Firenze che lavorò a Torino al Politecnico. Era un uomo brillante. I Canfari non li ho conosciuti, mentre ricordo Mario Durante, il portiere pittore. Era un personaggio speciale, discuteva animatamente con il pubblico e quando c’era una punizione la contestava apertamente».
– Un mito dell’epoca fu Carlo Bigatto…
«Carlo Bigatto è stato il capitano della Juventus per tanti anni. Rifiutava di farsi pagare, non concepiva il calcio se non come passione. Era un personaggio notevole, giocava con una retina in testa, era di gran moda, una cuffia con elastici che lo rendevano riconoscibile».
– Facendo un salto in avanti nel tempo, lei ha conosciuto qualche giocatore della Juventus?
«Sì, Giampiero Combi, il portiere degli scudetti del quinquennio. Era di casa, frequentava regolarmente la mia famiglia ed era un ragazzo che voleva giocare sempre al football, il campo di gioco era la sua vita. Gli zii avrebbero voluto che diventasse un ragioniere per gestire l’azienda di famiglia che produceva vermouth, poi con il tempo hanno confessato a mio padre che era andata meglio così, era giusto che avesse seguito il suo istinto e la sua passione. Era un vero numero uno, lo paragonavano a Zamora, il mitico portiere della Spagna. Il bello di Combi è che stava appoggiato al palo della porta quando la Juventus attaccava e considerando la forza dei bianconeri trascorreva così gran parte del tempo della partita. Finita l’attività agonistica aveva messo su un caffè in via Roma e sul banco c’era una statua che lo raffigurava proteso in una parata. Però, quando si passava da lì, lo vedevi che stava sulla porta del caffè proprio come se fosse ancora sul campo, appoggiato allo stipite con lo sguardo rivolto in avanti come se dovesse fermare un tiro. Quando mio padre morì, nel 1952, lui portò con orgoglio il gonfalone della Juventus al suo funerale. Fu l’ultima volta che lo vidi».
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