lunedì 8 gennaio 2024

Daniele FORTUNATO


Con quel nome – scrive Adalberto Scemma sul “Guerin Sportivo” del 26 luglio 1989 –, Fortunato deve essere piaciuto un sacco a Giampiero Boniperti. Potenza della scaramanzia. Costretto dall’educazione piemontese a evitare amuleti e chincaglierie napoletane, il presidente della Juventus rincorre da sempre, concedendo parecchio all’ironia, la formula di qualche infallibile rito propiziatorio. Ecco dunque che se il destino gli spiattella davanti un giocatore con fama di portbonnheur, Boniperti non chiede di meglio che ricorrere al più antica dei rituali beneauguranti: gli spalanca le braccia.
Fortunato di nome, ma anche di fatto, a prendere visione dei risultati. A vent’anni, nell’83, ha portato il Legnano dalla C2 alla C1; nell’86 ha centrato con il Vicenza una promozione in A poi negata dalla giustizia sportiva; nell’88 è salito ancora una volta in A con l’Atalanta e nell’89 ha ottenuto con la squadra bergamasca la qualificazione Uefa. Ha lasciato. in poche parole, il segno dappertutto. E se tanto mi dà tanto, grazie anche al nome che si ritrova, ecco che a corroborare valutazioni ben precise di carattere tecnico devono essere intervenute considerazioni più sottili sul filo della scaramanzia. La possibilità, per esempio, di riprendere con l’Atalanta un nuovo fortunato periodo di collaborazione dopo il capitolo miliardario di Cabrini, Marchetti, Scirea, Fanna, Marocchino e così via: l’età, infine, del giocatore. Daniele ha 26 anni, è nel pieno della maturità, non dovrà temere il pericolo dell’ambientamento. E poi 26 è il doppio di 13, numero magico. Tornano i conti, insomma, e si chiude il ciclo dei riti propiziatori in attesa che si riapra quello, certo più caro a Boniperti, delle vittorie calcistiche.
Lui, Daniele Fortunato, si è presentato subito nel segno (e nella filosofia) della Juve. Frasi concrete, meditate promesse, dichiarata voglia di vincere, nessuna concessione ai proclami furenti di Rodomonte. Ha dribblato subito, e con molta destrezza, il problema del ruolo. Libero o centrocampista? «La questione», dice tranquillo, «non mi toglie certo il sonno. Nell’Atalanta ho giocato di preferenza a centrocampo, da play-maker arretrato, ma da libero ho disputato almeno una decina di partite, o perché mancava Progna, o perché così aveva deciso Mondonico. La verità è una soltanto, anche se la frase con cui la esprimo è vecchia come il cucco: nella Juventus sarei disposto a giocare anche in porta, con tutto il rispetto per Tacconi».
C’è il problema, suggeriscono gli ipercritici, di una scarsa propensione per lo sprint. Di struttura piuttosto compatta (è alto 1,81 e pesa 79 chili). Daniele Fortunato è tutto meno che un velocista. Si esprime in progressione con una certa disinvoltura, ma nel gioco corto, quando non basta la potenza ma serve anche il supporto della rapidità, potrebbe evidenziare limiti ben precisi. «Se mi mettessi a smentire questa valutazione», dice, «farei un torto a me stesso. Non sono un bugiardo e non posso certo nascondere l’evidenza. È vero, sono un po’ lento, però non bisogna esagerare considerandomi una lumaca. E poi ci sono alcuni segreti che Giorgi e Mondonico, gli allenatori più bravi che ho avuto nella mia carriera, mi hanno insegnato...».
I segreti di Fortunato non sono figli dell’empirismo ma della logica. «La palla corre più veloce dell’uomo, non ci sono Carl Lewis, o Ben Johnson, che tengano. Bisogna colpirla bene, però. Non bisogna permetterle di andarsene per conto suo. Questione di tecnica? Sissignori. Facendo correre la palla al momento giusto e nel posto giusto si velocizza anche il gioco e si ottiene un risultato che nessuno sprinter al mondo, neppure il più forte di tutti, potrebbe centrare. E siccome la tecnica non mi manca, ecco che arrivo alla Juve tranquillo, senza il timore di deludere troppo le aspettative».
Bruno Giorgi ed Emiliano Mondonico, dunque, alla base della maturazione di Daniele. E lui stesso a dichiararlo ed è un tributo doveroso, come ama ripetere, alla professionalità e anche all’«umanità». dote rara. «Parlare di riconoscenza», dice, «e il minimo che io possa fare. Ma in entrambi i casi mi sono trovato di fronte a personaggi davvero splendidi, due gentiluomini bravissimi anche sotto il profilo tecnico».
A sentire Mondonico, cui spetta il merito di aver garantito a Fortunato la massima valorizzazione, questo ragazzo dalla volontà di ferro e dalle idee concrete, conserva ampi margini di miglioramento. Nonostante l’età e nonostante l’ipotesi di «maturità» che ha ispirato la scelta di Boniperti. «Anno dopo anno», ammette Daniele, «i progressi mi sono apparsi abbastanza evidenti. So come stare in campo, riesco a prevedere le situazioni tattiche che si presentano. Ma in tutta onestà non saprei proprio come valutarmi. Forse sono ancora da scoprire, e non soltanto sotto il profilo tecnico. Dal punto di vista piscologico, per esempio, ho acquisito durante le due ultime stagioni una buona dose di “forza”: ma penso che l’esperienza alla Juve contribuirà a cementarmi il carattere ancora di più. Credo che Mondonico faccia soprattutto un discorso di potenzialità inespresse, quando parla di margini di miglioramento. Un calciatore non si costruisce soltanto con la tecnica ma anche con la motivazione, con l’ambiente, con gli stimoli giusti: è naturale che giocando ai massimi livelli, con obiettivi degni di una squadra di vertice, il rendimento sia destinato a risentirne. Nell’Atalanta, bene o male, non ho mai avuto problemi particolari: l’importante era non perdere, tutto il resto costituiva una specie di optional. Alla Juve, invece, bisogna vincere subito. Quando si perde c’è sempre qualcuno pronto a chiederti il conto».
Ventisei anni fatti a gennaio, nativo di Samarate nei pressi di Varese, cresciuto calcisticamente nel Legnano, Fortunato si presenta a Torino con credenziali sicuramente superiori (l’analisi è di carattere tecnico) a quelle di cui lo gratificano i critici superficiali, abituati a tener conto dell’«effetto popolarità» più che della concretezza. Non è un fuoriclasse ma già in partenza garantisce a Zoff una possibilità di impiego in più direzioni pur nei limiti imposti dalle sue funzioni di centrocampista. Il che rappresenta di per se stesso una rarità considerando gli eccessi di specializzazione che alcuni allenatori della nuova frontiera sembrano propugnare: centrocampista laterale, cursore, interdittore, playmaker, suggeritore e così via. Ma affibbiare a Daniele Fortunato l’etichetta di jolly può essere limitativo. «Sia a Vicenza che a Bergamo», sottolinea Daniele, «mi sono trovato ad affrontare le situazioni tattiche più disparate. Durante la mia prima stagione atalantina, poi, ho potuto sperimentare l’ebbrezza di giocare in Europa: l’esperienza in Coppa delle Coppe, grazie anche al suggerimento di uno come Stromberg, è stata fondamentale. Posso dire soltanto che il calcio di oggi, a mio avviso, consente ampi margini di espressione a giocatori che abbiano un minimo di fantasia. Ripetere in continuazione lo stesso schema, esercitare le stesse funzioni può rappresentare l’anticamera della paranoia. Personalmente preferisco affrontare situazioni nuove, risolvere gli imprevisti. È una questione di stimoli».
Gli stimoli, Daniele Fortunato, ha corso il rischio di perderli tutti due stagioni fa, in occasione della sfortunata parentesi vicentina. «Quello è stato davvero un colpo basso. Dopo aver inseguito un sacco di sogni, dopo una stagione infittita di sacrifici, ci siamo ritrovati in C invece che in A. Avevo 24 anni, un’età “difficile”, nel senso che se non trovi subito il salvagente a portata di mano corri davvero il rischio di perderti, Invece ho avuto la fortuna di incontrare l’Atalanta e di poter ricominciare daccapo. Ma se devo essere sincero la mia convinzione era ormai una soltanto: quella di fare la spola tra la Serie B e la C, a seconda delle circostanze. Si vede che nel calcio non bisogna mai arrendersi davanti a nulla, neppure all’evidenza».
C’è sempre (come Boniperti si sforzerà di non ammettere) una componente scaramantica. Nel caso di Daniele Fortunato il portbonnheur di turno è stato un piccoletto alto appena 1,68, Eligio Nicolini. Gli ha portato buono sia al Vicenza che all’Atalanta ma non potrà seguirlo (anche se non ci sono limiti alla provvidenza) in occasione dell’avventura juventina. «Mi sono simpaticissimi i “tappi”», ride Daniele, «e Nicolini mi mancherà moltissimo. Ma a Torino troverò Rui Barros, che è ancora più piccolo. Andremo d’accordissimo. Ha un carattere che si integra perfettamente con il mio».
Per far compagnia a Daniele (tre anni di contratto, ma lui spera ovviamente di rinnovarlo) si trasferiranno a Torino, da subito, la moglie Cinzia e il piccolo Luca. E se proprio vogliamo tornare alla scaramanzia, osserviamo che per tre ex-atalantini che partono (Cabrini, Magrin e Bodini) ne arriva uno ancora più... Fortunato. Non è Finita. Daniele ha giocato nel Legnano come altri due juventini del passato, lo svedese Palmer e l’olimpionico Emilio Caprile. «azzurro» nel ‘48. Lo stesso Caprile che contribuì a far vincere alla Juve lo scudetto del ‘52. Buon sogno.

È un vero jolly, capace tanto di giocare sia a centrocampo quanto in difesa. Ha un unico vero limite, una lentezza davvero esasperante, anche se lui si arrabbia quando glielo fanno notare: «Non capisco questa critica, sinceramente. Non sarò velocissimo, però non ricordo un avversario che mi sia andato via in velocità, né a centrocampo, né in difesa. Credo di avere tempismo e senso della posizione. Ma la verità è che le critiche mi piovono addosso solo quando perdiamo. Se si vince, nessuno si accorge se sono lento o meno. Comunque, se proprio bisogna trovare un difetto al sottoscritto, va bene la lentezza, tanto più che un fulmine di guerra comunque non sono mai stato».
Ha, però, un senso tattico davvero sviluppato da autentica prima fascia, piedi non disprezzabili e intelligenza calcistica sopraffina, testimoniata dalla facilità con la quale si alterna in difesa e a centrocampo e da una non trascurabile confidenza con il gol: «Non sono mai stato un regista, non ne ho le caratteristiche in senso classico. Mi sento un mediano, che cerca di rubare qualche palla all’avversario e rilanciare il gioco. Credo però che il regista non necessariamente debba stare in mezzo al campo: può agire in difesa o là davanti».
La prima stagione in bianconero, sotto la guida di Dino Zoff, non è particolarmente fortunata: «In otto anni di carriera professionistica non mi ero mai fermato. Arrivo alla Juventus e subito va tutto bene, gioco, me la cavo discretamente in campionato e bene in coppa. Poi, a gennaio, la prima tegola e, subito dopo, la seconda. Se la prima volta è stata brutta, la seconda è stata tremenda. Ho temuto per la carriera, lo confesso, avevo paura di non riuscire a recuperare, visto che non ero abituato a infortuni così seri. Ma è stato proprio allora che ho capito tutta l’importanza di essere alla Juventus. Nel senso che devo ringraziare la società, in particolare l’allora presidente Boniperti. Mi sono stati tutti vicini, mi hanno tranquillizzato, mi hanno detto di non avere fretta, di recuperare senza preoccupazioni. Mi hanno fatto capire che c’era bisogno di me. Sì, lo so, possono sembrare cose banali, ma per me era importante sentirmele dire da certi personaggi. Ho capito che la Juventus è il massimo anche per un giocatore infortunato».
Nonostante tutto, Daniele ha la grande soddisfazione di vincere sia la Coppa Uefa, sia la Coppa Italia.
Nell’anno di Maifredi, con una Juventus assurdamente infarcita di punte e mezze punte, l’Avvocato disse: «Con Fortunato in campo mi sento più tranquillo». In effetti, bilanciare quella squinternata banda di frivoli, senza far venire enormi spaventi al povero Tacconi, era un’impresa veramente ardua. Per lui, comunque, 34 presenze e una rete contro il Cesena. Purtroppo, anche un autogol nel derby di ritorno, che causa la sconfitta nella sfida stracittadina. «Può succedere, ma accidenti, mi sono detto, proprio nel derby? Avrei voluto scomparire, smaterializzarmi, ritrovarmi a mille chilometri di distanza!».
La stagione del “calcio champagne” è deludente. «Uno come me non può essere quello che risolve: i risultati si raggiungono tutti assieme, con il sacrificio. Ci siamo sacrificati tutti meno del necessario, ecco la possibile spiegazione di questa annata non positiva».
Nell’estate del ‘91 è ceduto al Bari; con la casacca bianconera totalizza 62 presenze e realizza 5 gol.

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