«Per gli amici Giangi – racconta Renato Tavella – si può dire che allo stadio sia di casa. Come il presidente Catella, anch’egli arrivava al campo dodicenne a bordo di una gialla e fiammante bicicletta. Gialli erano pure i suoi capelli, solare il tocco di palla, la visione del gioco. Fin dall’infanzia è nominato capitano. La sua bella figura era quanto di meglio potesse rappresentare la società anche sui campi delle minori. Mario Pedrale per lui stravedeva. Ma, a dire il vero, l’ineguagliabile istruttore del parco piccoli juventino aveva un debole un po’ per tutti e in cuor suo sognava la prima squadra per ognuno. E proprio a proposito di Roveta un bel giorno Pedrale ebbe a far parole con Rabitti, tecnico che si occupava della squadra Primavera, formazione che di fatto era il rincalzo della Prima Squadra. “Non è un difensore, Gianluigi: è una mezzala”, seguitava a sostenere l’istruttore. Forse a Giangi di questo diaspore poco importava, lui avrebbe giocato anche in porta pur esordire con la Juve. E come nelle favole più belle il suo desiderio venne coronato».
“HURRÀ JUVENTUS” DEL MARZO 1968
Lo ha detto Bercellino che di giocatori se ne intende e, soprattutto, di «stopper». Gli ha fatto eco Leoncini: «Roveta farà strada». Lo ha dimostrato al suo esordio in campionato contro la Roma, meritandosi gli elogi della critica, lo scapigliato Enzo ha dovuto segnare il passo. Avrebbe dovuto già esordire nella partita di Mantova nella posizione di «libero», che gli è congeniale, in assenza di Castano infortunato, aveva un dito fratturato e non poté scendere in campo. Il che dimostra che non soltanto quest’anno sono stati indisponibili molti titolari ma anche i rincalzi.
Gianluigi Roveta ha 21 anni. È un giovane studioso. Diplomatosi ragioniere, si è iscritto alla facoltà di Economia e Commercio che frequenta e nelle ore libere non manca di aiutare il padre nell’ufficio di commercialista. È un giovane tranquillo, tanto che si poteva anche ritenerlo in difetto di grinta. Invece è soltanto paziente. Ha atteso senza alcun segno di irrequietezza il suo momento per dimostrare il suo valore: una tecnica sopraffina al servizio di una validissima determinazione. Vuole arrivare.
Crebbe nelle file del Nagc juventino ed ebbe quindi, dall’appassionato e paziente Pedrale, le cure più attente. Il Nagc è certamente una valida scuola di calcio. Sono campioncini in erbe e l’erba cresce sotto i loro piedi, ma non tutti crescono con la stessa intensità. Vogliamo dire che il Nagc li forma ma è la natura che li attrezza nel fisico e nel temperamento. Non tutti quini, pur maturando nell’età, possono raggiungere il traguardo agognato. Molti si disperdono. Pedrale lo sa e non si disamora. Roveta è un compenso alla sua opera paziente.
Herrera lo aveva notato, Cattozzo che è il «secondo», poteva assicurarlo del costante impegno del giocatore sia in De Martino sia in amichevole. Non gli è mancata l’occasione per dimostrarlo.
Gianluigi Roveta è anche critico di se stesso: sa valutare le sue forze. E per la sua natura critica non è facile agli entusiasmi. Quando al termine della partita gli dicono bravo, risponde con un mezzo sorriso. È quindi di carattere schivo e riservato. Perciò è stimato dai giovani compagni, così come dai titolari. Già dallo scorso campionato frequentava la rosa nei viaggi e la sua presenza passava quasi inavvertita. Mai un gesto di impazienza, mai un giudizio sfottente sui compagni. La disciplina è il suo abito mentale. Perciò, oltre che per le sue doti tecniche, farà strada. Con Heriberto o con Cattozzo, o con qualsiasi allenatore. Pedrale ha seminato bene.
Bene impostato tecnicamente e atleticamente, è un atleta serio, disciplinato e tutt’altro che privo di temperamento agonistico. «Non sono timido – racconta – sono molto riservato nei miei sentimenti, nonché molto geloso della mia intimità; chi mi sta vicino sa, però, che quando c’è da reagire, da combattere a viso aperto, non mi tiro certamente indietro. Sono juventino dalla nascita, sono stato tre anni sotto le cure di Pedrale; è stato il mio padre calcistico, mi ha insegnato cosa fare, come giocare. Se sono quello che sono, lo devo in gran parte a lui».
Chiuso da Salvadore, lascia la Juventus nell’estate del 1972 e raggiunge il Mantova, dopo aver totalizzato 77 presenze e aver contribuito allo scudetto della stagione precedente. Dopo solo una stagione, si separa dalla squadra virgiliana per ritornare in Piemonte, più precisamente al Novara, ma a 27 anni appende gli scarpini al chiodo, quasi a testimoniare che per lui il calcio era sinonimo di Juventus.
VLADIMIRO CAMINITI
«Fisico da tardo erede di Rava, ebbe il momento d’oro con Heriberto che lo oppose anche alla torre portoghese Torres, compare di Eusébio nel glorioso Benfica. Più forte che agile, più umile che caparbio, troppo innocente nella giungla del calcio miliardario, fu sconfitto dalla concorrenza di difensori non sempre dotati. Il destino di un giovane è scritto sull’acqua».
2 commenti:
"Per lui il calcio era sinonimo di juventus" poesia! Smise di giocare a soli 27 anni.
Uno sportsman, non un "pedatore di ventura". Si è divertito tra i grandi.
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