Difficile raccontare i quattro campionati juventini di Vidal. Difficile, perché sono stati talmente tanto intensi e perché El Guerrero è entrato talmente tanto nel cuore dei supporter juventini che il rischio di cadere nella nostalgia è altissimo. Proviamo a farlo, mediante testimonianze e momenti di questa fantastica e trionfale cavalcata che comincia nell’estate del 2011, quando il campione cileno approda alla corte di Antonio Conte. Va in rete alla prima uscita in campionato con la maglia della Juve, l’11 settembre 2011, nel 4-0 contro il Parma. Partendo dalla panchina, perché diverrà titolare solo dalla quarta giornata a Catania. Il ruolo di inamovibile, Arturo, se lo guadagna allenamento dopo allenamento, partita dopo partita, tackle dopo tackle, corsa dopo corsa, goal dopo goal.La Juve è impegnata nel testa a testa scudetto con il Milan e la sicurezza dei bianconeri cresce gara dopo gara, assieme con la consapevolezza di potercela fare. La linea mediana Pirlo-Marchisio-Vidal, non sbaglia un colpo. Protegge la linea difensiva e supporta le punte, oltre a inserirsi in avanti con tempismo. Il cileno ha oramai conquistato tutti. Ha risorse atletiche infinite, una grinta che stordisce gli avversari e infiamma la curva. E un gran feeling con il goal. Si è anche conquistato la qualifica di rigorista della squadra. Alla trentesima giornata, segna una rete splendida, mostrando ancora una volta, anche tanta qualità: è il 2-0 che indirizza il match in favore dei bianconeri e seppellisce le speranze del Napoli. A fine stagione, Arturo Vidal conterà trentacinque presenze (qualcuna anche da difensore centrale) e sette reti.
Alla seconda stagione in bianconero, Vidal ottiene una consacrazione plenaria. Calciatore totale, inesausto sette polmoni: c’è molto del cileno nel secondo scudetto consecutivo della Juve, della quale è addirittura capocannoniere stagionale. La “Signora” torna anche in Champions, e il debutto è previsto a Stamford Bridge, contro i Campioni d’Europa in carica. Due lampi di Oscar portano avanti il Chelsea, la Juve vede le streghe. Che sono scacciate da una rimonta di cuore e classe della compagine bianconera. “Remuntada” che prende il via da una rete di Vidal, che segna nonostante sia palesemente zoppo. Alla fine, sarà 2-2, grazie alla rete di Quagliarella. Il Bayern eliminerà l’undici di Conte nei quarti di finale, con Arturo ultimo a mollare. “Quando il gioco si fa duro, entra in campo Re Arturo”, è il coro che comincia a infiammare lo Stadium.
2013-14: Vidal è esimio protagonista della Juve che vince il campionato a punteggio record. Un punteggio che si fonda sulla continuità di rendimento, sull’irriducibilità, doti che ad Arturo non mancano di certo. Il 27 novembre 2013, diventa il terzo juventino della storia a segnare una tripletta in Champions (a farne le spese è il Copenaghen), eguagliando Del Piero e Inzaghi. Sul finire della stagione, i guai al ginocchio destro lo costringono a uno stop. L’operazione, il recupero lampo per poter giocare i Mondiali in Brasile.
Nascono le prime polemiche. «Il finale della stagione è stato maledetto, il mio rendimento è calato molto. A livello personale è finita male con Juve e con la Nazionale cilena, adesso ho una grande occasione di riscatto. So che il popolo bianconero si aspetta molto da me, ma è sempre stato così, e non è un problema, l'operazione mi ha condizionato molto ma rifarei tutto negli stessi tempi. Purtroppo dovendo recuperare con tanta velocità, ho seriamente rischiato di farmi male in modo anche irreparabile. La mia è stata una scelta di amore nei confronti della Juve. Non potevo lasciare la squadra prima della semifinale di Europa League con il Benfica. Mi sono giocato il Mondiale e pure buona parte dell’attuale stagione, però ho deciso con il cuore, amo la Juve, sono fatto così. E devo dire grazie anche al Commissario Tecnico Sampaoli, che mi ha aspettato. Un altro non lo avrebbe fatto. Le critiche spesso sono state ingiuste, ho giocato in condizioni fisiche disastrose, solo io e i dottori lo sappiamo. Ma se c’è bisogno di me non mi tiro certo indietro, mai. Non ho nulla da rimproverarmi a livello professionale, ho sempre dato il mille per cento in campo, a prescindere da come stavo».
Nascono le prime polemiche. «Il finale della stagione è stato maledetto, il mio rendimento è calato molto. A livello personale è finita male con Juve e con la Nazionale cilena, adesso ho una grande occasione di riscatto. So che il popolo bianconero si aspetta molto da me, ma è sempre stato così, e non è un problema, l'operazione mi ha condizionato molto ma rifarei tutto negli stessi tempi. Purtroppo dovendo recuperare con tanta velocità, ho seriamente rischiato di farmi male in modo anche irreparabile. La mia è stata una scelta di amore nei confronti della Juve. Non potevo lasciare la squadra prima della semifinale di Europa League con il Benfica. Mi sono giocato il Mondiale e pure buona parte dell’attuale stagione, però ho deciso con il cuore, amo la Juve, sono fatto così. E devo dire grazie anche al Commissario Tecnico Sampaoli, che mi ha aspettato. Un altro non lo avrebbe fatto. Le critiche spesso sono state ingiuste, ho giocato in condizioni fisiche disastrose, solo io e i dottori lo sappiamo. Ma se c’è bisogno di me non mi tiro certo indietro, mai. Non ho nulla da rimproverarmi a livello professionale, ho sempre dato il mille per cento in campo, a prescindere da come stavo».
Quando ritrova la miglior forma, torna a far splendere il centrocampo della Juve, che conquista scudetto e Coppa Italia sfiorando un tris da sogno. Fondamentale, anche nel nuovo modulo, sempre utile. «Il sistema di Conte esaltava gli inserimenti dei centrocampisti, mi trovavo spesso davanti alla porta avversaria, avevo maggiore libertà in fase offensiva. Oggi là davanti c’è un trequartista alle spalle delle punte, e quindi agli interni spettano altri compiti. Il ruolo che ricopro è perfetto per le mie caratteristiche, sono nel cuore del gioco e ho più palloni da gestire. Presto, tornerò anche a segnare con continuità. Ora sto al 100%, sono al top fisicamente e mentalmente. Mi manca solo un pizzico di fortuna sotto porta, ai tifosi dico di stare tranquilli, adesso ci penso io. Con Conte ho lavorato tre anni, mi ha fatto diventare un giocatore vero, completo, mi ha cambiato la testa. Allegri è molto diverso, lo conosco da poco, però mi piace il suo amore per il bel gioco. Preferisce ritmi più lenti, punta molto sulla tecnica e dà grande spazio alle qualità dei giocatori di cui dispone».
Il cuore della “Signora”, lo definisce Massimo Bonini, uno che di mediani se ne intende. Oramai, Arturo è accomunato con i grandi universali del glorioso passato bianconero. È cronaca e storia. Segna il goal scudetto contro la Samp, vince, da miglior giocatore, la Copa America con il Cile.
Ma c’è anche il rovescio della medaglia. Il cileno è irrequieto fuori dal campo, ubriacature e risse in discoteca sono quasi all’ordine del giorno. La società difende e protegge il giocatore, com’è giusto che sia, ma intanto prende nota. E quando, durante la Copa America, causa un incidente grave distruggendo la propria Ferrari, decide che il bicchiere è colmo. Arturo Vidal, per quaranta milioni di euro è ceduto al Bayern di Monaco. Quel Bayern che già lo voleva fortemente quattro anni prima, quando Vidal approdò a Torino, proveniente dal Bayer Leverkusen. Un cerchio che, a suo modo, si chiude.
Arturo chiude con 171 gare e ben quarantotto reti realizzate in bianconero. Quattro anni in cui ha lottato, segnato, emozionato. Non ha mai mollato, Arturo (l’ha detto e l’ha fatto). Uno di quelli che al solo vederlo scendere in campo, rassicurava il tifoso a prescindere dal risultato finale.
«È un giorno molto speciale – dice Arturo – voglio mandare un saluto dal cuore a tutti i tifosi juventini nel mondo. Grazie per questi quattro stupendi anni assieme. Voglio augurarvi tutta la fortuna del mondo e vi prometto che vi porterò sempre nel mio cuore. Per sempre juventino nell’anima».
FILIPPO FIORINI, DAL “GS” DEL MARZO 2014
Jaqueline guarda la televisione e dice: «Mio figlio Arturo viene da un altro pianeta, l’ho sempre pensato». Tutto ciò che la circonda, glielo ha regalato lui. La casa nell’elegante quartiere di Santiago del Cile ai piedi della Cordigliera delle Ande, il rosario d’oro che porta al collo, l’auto parcheggiata fuori. Ha deciso che sarebbe diventato un campione vedendola tornare stanca dal lavoro: «Facevo le pulizie, stiravo in casa della gente. Quella volta ero davvero sfinita. Lui mi ha tolto le scarpe e ha detto di non preoccuparmi, che presto i soldi non sarebbero più stati un problema». All’epoca Arturo Erasmo Vidal era appena un bambino, ossessionato da una sola cosa: il pallone. «Lo chiamava il “toy”, come se fosse stato l’unico giocattolo al mondo. Quando non ce l’aveva tra i piedi, lo stava cercando». Dopo aver segnato tre goal al Copenaghen in Champions, lo scorso 27 novembre, Vidal il pallone se lo è portato addirittura a casa, mostrando che quell’ossessione non gli è ancora del tutto passata, nonostante abbia mantenuto la sua promessa.
Ne è trascorso di tempo da allora, ma Re Artù non si è dimenticato di nessuno. Leverkusen, Torino: non importa. Appena può, il migliore centrocampista dell’intera Serie A torna a Santiago, a visitare quei sobborghi polverosi della zona sud dove stanno i suoi quattro fratelli, i suoi mille cugini, i nipoti, gli zii e tutti gli altri amici. Il secondo figlio di Erasmo Vidal e Jaqueline Pardo è nato il 22 maggio 1987. Suo padre voleva si chiamasse come lui, ma poco prima del parto il nonno materno mori tragicamente. Faceva lo spazzino e restò schiacciato dentro al camion dei rifiuti. E così si decise di ricordarlo, battezzando il nipotino con il suo nome. Arturo, appunto.
All’epoca la famiglia era ancora unita e viveva nel “Barrio” di La Victoria, il quartiere più popolare tra i quartieri sovrappopolati della capitale, nato dalla prima leggendaria occupazione di terre avvenuta in America Latina. Il 30 ottobre del 1957, i Vidal erano tra le 1.200 famiglie di disperati che invasero quei lotti di sterpi, costruendoci una casa con quattro assi e un po’ di lamiera. Quando il papà di Arturo era giovane, a La Victoria la popolazione resisteva con le pietre e le molotov ai tentativi di sgombero quasi settimanali attuati dalle autorità e i famosi preti terzomondisti si mettevano in mezzo, a volte a costo della vita, per calmare la polizia. Poi venne il colpo di Stato del 1973 e uno dei generali di Pinochet propose di bombardare quel luogo proibito, in cui si perdevano immancabilmente le tracce dei sovversivi e degli agitatori, ma fu fermato in tempo.
La casa dei Vidal si trova ancora oggi in Via Stella Bianca, come quella che brilla sulla bandiera del Cile. Per arrivare al campetto, Arturo camminava un paio di isolati per Unidad Popular, passava davanti al murales di Salvador Allende e girava l’angolo subito dopo la Strada Libertà. Tempi ovviamente lontani rispetto a oggi, in cui viaggia a cifre realizzative da bomber in Serie A. Vidal tornava a casa sporco, e suo zio Ricardo lo derideva chiamandolo il “Mangiaterra”. «La nonna era il centro della famiglia, cucinava per venti bimbi in un pentolone e la casa esplodeva di allegria». Luis è cugino di Arturo e ride se ripensa a quando, adolescenti, andavano alle feste assieme. «Una volta abbiamo addirittura dovuto riportarlo a casa, perché non lo facevano entrare da nessuna parte. E dire che giocava già nel Colo-Colo». Difficile crederci adesso che la cresta è il look più in voga tra i ragazzi del posto.
El Cacique selezionò Vidal che aveva dodici anni, «prima come centrale e poi come terzino sinistro», si ricorda il papà, il quale gli insegnò i primi tocchi e i primi dribbling. «Debuttò da titolare il giorno dopo la morte di sua nonna. Venne qui al funerale e poi scese in campo contro l’Antofagasta». Qualche anno dopo, quando già giocava in quella mitica prima squadra con Alexis Sánchez, Jorge Valdivia e Humberto Suazo, l’allenatore Carlos Borghi disse che sarebbe diventato il miglior libero al mondo. El Bichi aveva visto giusto, anche se sbagliò ruolo, «perché Arturo può giocare in difesa, a centrocampo e in attacco», commenta Juan Antonio Tones, il giornalista che intervistò l’allenatore a suo tempo.
Con l’adolescenza venne il momento più brutto, il passaggio tuttavia decisivo nella formazione del carattere dello juventino. Il padre aveva problemi personali e i suoi genitori si separarono. Arturo si trasferì con la madre e i fratelli a San Joaquin, un rione non troppo lontano da La Victoria, dove, però i miti di quartiere non erano più gli eroi della rivolta, bensì quelli del calcio. Nel corso degli anni, uscirono da San Joaquin almeno quarantasette professionisti. Il primo tra loro, è oggi un brutto ricordo della Nazionale italiana: Leonel Sanchez, che ai Mondiali cileni del 1962 si mise in mostra nella cosiddetta “Battaglia di Santiago”, per aver steso con un gancio sinistro prima il centrocampista azzurro e oriundo italo-argentino Humberto Maschio e poi il difensore Mario David.
Delle stesse parti è anche Ivan Zamorano, che si trasferì in questo posto quando aveva cinque anni e che oggi ha fondato nella medesima zona una scuola calcio per allontanare i ragazzi dalla droga: la Escuela Barn Bam Zamorano. E poi ci sono Luis Jara, detto il Maradona cileno, e Jorge Toro, che negli anni Sessanta giocò nella Sampdoria, nel Modena e nel Verona, e che nella “Battaglia di Santiago” segnò da trenta metri il definitivo 2-0 cileno. O Fabián Orellana, passato per l’Udinese senza mai scendere in campo e oggi in forza al Celta Vigo. In questa suntuosa galleria del “futbol” e con un astro nascente in famiglia, Jaqueline trovò casa proprio davanti al Rodelindo Roman, la squadretta di quartiere che Arturo chiama oggi «il club del mio cuore, quello che mi ha visto nascere». Il campo fa tuttora da cortile a quell’abitazione modesta ma dignitosa in cui la donna si guadagnò l’ammirazione infinita dei suoi figli, crescendo da sola tutti e quattro.
Per andare ovunque, Arturo doveva attraversare una delle due porte del Rodelindo. «Non è un campo da calcio, ma un letto di pietre, in cui uno dei due portieri gioca in un avvallamento e basta tirare alto per segnare», dice divertito Don Hernan, vicino dei dintorni e papà di un altro residente illustre di San Joaquin: Alejandro Escalona, che fu protagonista di una breve apparizione nel Torino della retrocessione e poi passato per il River Plate, il Benfica e il Gremio.
Con Arturo in squadra, il Rodelindo smise per qualche anno di temere gli agguerriti derby contro la Juventud La Serena e il Municipal San Miguel. Pochi sanno che il legame di Arturo con la squadretta di quartiere è rimasto fortissimo nel tempo, pure una volta diventato professionista. Anche se era stato titolare in Copa Libertadores con il Colo-Colo, Vidal scappava in segreto a San Joaquin, si cambiava la maglia e tornava a correre tra i sassi con i vecchi amici. In un’intervista di sette anni fa, il futuro leader della Juventus di Conte disse: «Il mio potente colpo di testa l’ho imparato nel Rodelindo». Oggi, la sede è diventata un santuario di Re Artù: poster, foto, autografi, un maxischermo, una griglia e un tavolo da ping-pong completano l’arredamento di un club in cui la birra e la carne ai ferri accompagnano immancabilmente le dirette dei match della Juve. Squadra con cui, va qui ricordato, Arturo ha da poco prolungato il contratto sino al 2017. Totale: 4,5 milioni di euro netti a stagione. Una cifra neppure lontanamente immaginabile ai tempi in cui giocava in queste strade.
Tra Arturo e il Rodelindo l’amore è totale, non inferiore alla sua seconda, grandissima passione: l’ippica. I cavalli della sua scuderia, infatti, vestono gli stessi colori sociali di quella che fu la sua prima squadra: il bianco e il verde. Quando ancora non era l’ammirato proprietario dello Stud Alvidal e dei suoi magnifici sauri da corsa, che scendono in pista adornati con un paraocchi in cui sono ricamate le iniziali “A” e “V”, Arturo fu un semplice ragazzino che guadagnava qualche spicciolo pulendo selle e criniere. In Cile l’ippica è quasi uno sport nazionale e nel paese si corre uno dei principali derby del continente americano per importanza, El Ensayo del Hipodromo de Chile, paragonabile addirittura, per fama e seguito, all’americano Kentucky Derby. Le famiglie vanno all’ippodromo in macchine stracolme di fratellini e passano le giornate giocando, mangiando e bevendo fino a notte inoltrata. Così facevano e fanno tuttora i Vidal, i Pardo e gli altri amici. Arturo fu salvato da una carriera come maniscalco mediocre da Don Enrique Carreno, uno dei guru del Club Hipico. Al tempo era il suo datore di lavoro e un pomeriggio lo prese da parte e lo licenziò: «Questa non è roba per te, ragazzino. Tu hai un futuro nel mondo del calcio». Chissà se aveva capito che il ragazzo sarebbe arrivato a vestire la maglia della Nazionale cilena per più di cinquanta partite.
Vidal comunque diede ascolto soltanto a metà e, dopo aver vinto tre campionati con il Colo-Colo, nonché poco prima di firmare quello che nel 2007 lo avrebbe trasformato per un certo periodo nel giocatore cileno più caro della storia (undici milioni di dollari per passare al Bayer Leverkusen), tornò al Club Hipico per comprare il suo primo cavallo: la puledra Bubierca. Ora, che ha più di quaranta cavalli, si può dire che abbia «speso molto bene i suoi soldi, anche se per andare in attivo con una scuderia devi puntare a vincere i grandi classici nazionali, quelli della Triplice Corona». Marco Solis, cronista sportivo del quotidiano “La Cuarta”, lo dice guardando la pista dalla sala stampa dell’ippodromo, lo stesso luogo da cui vide morire uno dei migliori amici di Vidal.
«Nicolas Inda era uno dei fantini più promettenti in assoluto», garantisce. Correva con i cavalli di Arturo, avevano praticamente la stessa età ed entrambi erano stati cresciuti dalla madre. Poi, alle nove di sera del 27 maggio 2011, Nicolas affrontò la sua ultima corsa, la numero sedici della giornata. Era quarto quando Victor Miranda e la sua Nobile Origine caddero all’uscita della curva che dà sul rettilineo finale. Nicolas e Brightly Son stavano subito dietro e li travolsero, poi vennero altri sei cavalli. Brightly si rialzò e tagliò il traguardo “scosso”, Nicolas no. Stette in coma per cinque giorni, nella maggior parte dei quali Vidal non si mosse mai dalla sedia fuori dalla stanza dell’ospedale. «Fu l’ultima persona a vederlo vivo», precisa la mamma Jaqueline e oggi, quando segna, il fenomeno di Madama si porta le mani alle orecchie per sentire il grido del pubblico. Sappiatelo: ripete il gesto che compiva il suo amico Nicolas dopo le vittorie.
Mentre il talento di Arturo cresceva, fino ad arrivare ai vertici del calcio mondiale, le vicende dei Vidal lo tenevano continuamente legato a una realtà a volte dura, ma che lui ha sempre affrontato con coraggio. Qualche anno fa, uno dei più piccoli nella moltitudine di cugini che mangiavano dalla pentola della nonna a La Victoria, scopri di avere una grave malattia. Angelica racconta che quello di suo figlio Peter è un raro caso di cancro alle ossa. «Nel momento in cui si è sentito peggio, faceva la chemio e gli stavano per amputare un piede, ho chiamato mio nipote Arturo». Assieme hanno organizzato una festa di raccolta fondi. Vidal si è seduto a un tavolo e ha firmato autografi per tutta la notte. «Li vendevamo per qualche soldo, ma a fine serata avevamo abbastanza denaro per andare avanti». Oggi Peter sta bene ed è diventato un maestro degli origami. Si muove rapido sulle stampelle nella casa di Via Stella Bianca, dove vive con Luis, Angelica e una nutrita popolazione familiare. Non c’è più lo zio Ricardo, quello che chiamava “Mangiaterra” il piccolo Arturo imbrattato. È morto affogato nel suo ultimo bicchiere. Quello che l’ha steso su un marciapiede in una notte troppo fredda per le sue vecchie ossa. Con la scomparsa del fratello, però, Erasmo ha preso una scossa e ha deciso di provare a fare bene. Lavora tutti i giorni alla scuderia Alvidal, il pomeriggio dà una mano a tenere ordinato il Rodelindo e vuole riconquistare la fiducia di quel figlio campione che lo riempie di orgoglio fino alle lacrime.
«Aspettavamo Arturo per le feste ma Maritè, sua moglie Maria Teresa, è incinta e non può assolutamente volare, allora verranno tutti assieme dopo la fine del campionato», dice il padre Erasmo circondato dagli amici di suo figlio. Sarà la vigilia dei Mondiali e Arturo passerà per l’ultimo brindisi al Rodelindo prima di partire per il Brasile. «Certo che lo faremo tutti assieme», rispondono gli ex compagni di pallonate, quando gli si chiede se abbiano intenzione di trovarsi al club per vedere la Coppa del Mondo. Loro, tifosi oramai acquisiti della Juventus e convinti che Vidal vincerà il terzo scudetto di fila da quando è alla Juventus, assicurano che ci saranno ad assistere alle partite dell’amico. L’obiettivo è sorprendere il mondo, cosa di cui Vidal ha dimostrato di essere capace. Chiunque può star sicuro che per ogni goal di Re Artù, con la Juve o il Cile, ci sarà un boato quaggiù, nei sobborghi della Santiago Sud.
CATERINA BAFFONI, DA TUTTOJUVE.COM DEL 16 LUGLIO 2015
Lo chiamano “tuttocampista”, che è un neologismo adeguato, perché Vidal è sempre stato ovunque, sa fare tutto in ogni ruolo e sa coprire ogni parte del campo. Ritratto del giocatore che è sbocciato definitivamente nell’élite del grande calcio, nella Juventus e che tutti hanno sempre voluto avere.
Il goal che racconta meglio Arturo Vidal? Impossibile indicarne uno precisamente. Questo è sempre stato il pretesto per dargli l’uomo partita ogni volta alla fine di un match. È stato sempre in ballottaggio. È lui, diciamo. Poi ci ripensiamo: tanto ci sarà un’altra occasione. Anche se non segna, è sempre determinante. Perché Vidal è entrato definitivamente nella rosa dei migliori centrocampisti che il campionato italiano abbia mai potuto offrire. Allora, forse, la sua doppietta al primo anno in bianconero alla Roma serve a rendere merito e giustizia.
Vidal uomo partita di ogni partita e adesso di questa: dopo quattro anni emozionanti e pieni di successo con la casacca juventina, il guerriero torna in Bundesliga, questa volta alla corte di Guardiola. A rigor di perfezione morale, tecnica ed estetica, la sua rete che lo racconta meglio alla Juve fu il primo di oramai due stagioni fa, ovvero quello contro la Lazio: inserimento centrale da dietro, palla di Pogba a scavalcare i difensori, stop in leggera elevazione di destro, atterraggio e tocco di esterno, sempre destro, per superare Marchetti. Tic. Come il filo che entra morbido e preciso nella cruna di un ago. Ecco, lì c’è il “tuttocampista” cileno. Strana parola questa, che non bisognerebbe usare ma che racconta perfettamente il calciatore che il mondo bianconero ha potuto ammirare durante queste quattro stagioni. “Tuttocampista” è Vidal, non c’è niente da fare. Perché serve a evitare giochi di parole e di fatti per dire chi è stato e che è riuscito a fare questo giocatore fantastico che quando arrivò a Torino fu accolto dalla stampa e dalla critica come una riserva: «Il centrocampista di scorta si chiama Vidal», titolò un noto quotidiano sportivo subito prima della firma.
Semplicemente non lo conoscevano. Arrivava dal Bayer Leverkusen e non è che non avesse fatto nulla: tre stagioni buone e una, l’ultima, eccellente, con trentatré presenze e dieci goal. Non ha mai segnato tanto (con la Juve l’anno scorso si è eguagliato), eppure lo definirono “di scorta”. Succede. In realtà Vidal arrivò alla Juve per diventare ciò che poi è diventato: un giocatore da fantascienza. La prima volta che lo vedi dal vivo ti sembra ancora più forte, perché la telecamera che sta nei tuoi occhi e la regia che sta nel tuo cervello ti permettono di vedere ciò che la TV non riesce a mostrarti: la capacità di stare ovunque, di coprire qualunque zona del campo adattando le proprie caratteristiche alla situazione di gioco di quell’istante. Cioè: Vidal non sembra mai fuori posto, non ti dà l’impressione di essere colui che si adatta. Se non lo conoscessi e lo vedessi difendere penseresti che è un difensore. Perché in quella fase si comporta esattamente come i compagni che fanno quello per tutta la partita. Idem quando ha la palla tra i piedi e imposta l’azione, oppure quando si infila in area e fa l’attaccante.
Il 5 novembre di due stagioni fa, visto lì contro la rosa più competitiva del mondo, quella madrilena, Vidal fece impressione: solido, forte, sicuro, rapido, tecnico, intelligente, utile, ma soprattutto fondamentale. Quindici secondi prima del primo goal della Juve, Arturo era alla bandierina destra della sua metà campo a recuperare un pallone a Bale. Cosa riuscita con un tackle in scivolata perfetto. Poi subito dall’altra parte: al momento del fallo del Real su Pogba era esattamente dove un allenatore avrebbe desiderato che uno così fosse, cioè al limite dell’area avversaria pronto a raccogliere un’eventuale ribattuta della difesa o pronto a inserirsi su un cross. Poi il rigore, il che sembra un dettaglio. Ecco, appunto. Perché Vidal è rigorista nonostante in campo ci siano stati giocatori come Pirlo e Tévez. Non sono dettagli, è sostanza.
Prendendo in esame quella partita, si può subito intuire come Re Artù sia sempre stato l’indice di irrinunciabilità. E in questa Juventus come in questa Serie A, Vidal è stato imprescindibile, ma è anche un giocatore capace di arrivare in ritardo dopo una convocazione in Nazionale, com’è accaduto quella volta, o di guidare in stato di ebrezza. Cioè: ha le sue follie, le sue manie, le sue controindicazioni. Ma un fuoriclasse è questo in fondo: genio e sregolatezza.
Vidal questo è: uno che si mette a destra o a sinistra del regista e si infila negli spazi, in avanti e indietro. Un interno. Che poi assomiglia molto al ruolo che aveva lo stesso Conte con Lippi. La sua unicità sta lì, in quella posizione che oggi nessuno occupa bene come lui. Avanti e indietro, non c’è problema. È stato la sintesi tra classe e forza, tra grinta ed eleganza. I numeri spiegano scientificamente quell’imprescindibilità che si vede anche senza statistiche. Anche se, dopo il suo infortunio al ginocchio, non è stato più quel giocatore formidabile tanto apprezzato. Forse, anche questo motivo ha inciso molto nella vendita dell’oramai ex ventitré bianconero.
È la spiegazione che supera il giudizio personale, è l’oggettiva certezza che si sta parlando di un campione. Non è che uno così lo puoi trattare come quei giocatori del tipo: “mi piace”. Qui non c’entra il giudizio singolo, esiste la prova dell’esistenza di un tipo di giocatore che vale più di altri. Vidal non conta solo come investimento puro: pagato dieci milioni e mezzo, oggi è quotato quarantacinque. Vale perché produce. E vale perché se uno tifa per la squadra in cui gioca lui, sa che ammirerà uno che si batterà come un dannato assicurandoti un rendimento da fenomeno. Lo vorrebbero tutti, più di un attaccante che segna e basta.
Infine, a distanza di quattro anni le divergenze tra Juventus e Bayern Monaco nate proprio per contendersi il cileno, si sono appianate, i contatti sono ripresi e il guerriero cileno è pronto ad approdare alla corte di Pep Guardiola. Il mercato vince sempre, anche sul tempo. E così, Arturo Erasmo Vidal Pardo saluta il mondo bianconero con la bellezza di 171 presenze in bianconero, quarantotto reti siglate, quattro scudetti, due Supercoppe Italiane, una Coppa Italia e una finale di Champions League disputata.
Gracias, campeòn.
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