venerdì 15 gennaio 2021

Jeno KAROLY


Fu a cavallo degli anni «venti» – scrive Umberto Maggioli su “Hurrà Juventus” del settembre 1965 – che i primi allenatori stranieri cominciarono ad arrivare in Italia. Furono di varie nazionalità: inglesi, come Ging che fu al Pisa; Smith, famoso fondatore della scuola alessandrina; Burgess del Padova. Per non parlare del grande William Garbutt, maestro del football genovese, che Vittorio Pozzo, quale Commissario Unico della «nazionale» chiamò più volte al proprio fianco quale allenatore degli «azzurri».
Ma era il periodo in cui le tendenze dei dirigenti il calcio italiano erano decisamente orientate verso il tipo di gioco che a quel tempo era definito di «scuola danubiana»: basato sulla perfezione della tecnica personale, svolto con preordinati schemi che risultavano sovente di rara efficacia. Gioco non fantasioso, ma altamente redditizio. Operarono così da noi boemi, come Nehaddoma, anche ottimo giocatore, che operò a lungo nella Pistoiese; l’ungherese Koeszegy, della Lazio; per non parlare poi dei bravissimi istruttori viennesi come Fellsner, «mago» avanti lettera, che fece le fortune del Bologna; Stürmer del Torino e poi anche della Juventus.
Quella bianconera fu la prima società che si fece costruire un proprio campo di gioco – il conosciutissimo di corso Marsiglia, inaugurato nel 1923 – ma non a richiedere i servigi di titolati tecnici d’oltre frontiera. In tal senso aveva sino allora seguito criteri, diremo così, «artigianali» e casalinghi. Prima del grande conflitto mondiale 1915-18 e subito dopo, la squadra era stata tecnicamente e disciplinatamente diretta da soci volenterosi che nell’incombenza si avvalevano principalmente il più delle volte dell’esperienza acquisita giocando in prima squadra. Allora erano chiamati semplicemente «accompagnatori», e il primo che la Juventus ebbe fu il signor Portigliatti, che aveva militato nelle formazioni sociali con un certo profitto; poi fu ugualmente giocatore anche suo figlio. «Accompagnatore» juventino fu anche il buon Freilich, proveniente dal Casale, che finì poi per svolgere principalmente mansioni di bravo massaggiatore. Un quasi autentico allenatore la Juventus lo ebbe con l’ing. Guido Debernardi, che giocò anche in «nazionale» e proveniva dall’ambiente granata. Da Debernardi, che era anche ufficiale del Genio militare in servizio permanente effettivo, pensò presto di dedicare le sue ampie cognizioni tecnico-sportive alla costruzione specializzata di impianti destinati ai più svariati sports e numerose sono ancora oggi in Italia – e anche all’estero – le sue apprezzate realizzazioni; specie quelle eseguite per conto del CONI.
Cosicché il primo autentico allenatore che la Juventus ha avuto al proprio servizio deve essere considerato l’ungherese Karoly, del quale il calcio italiano aveva avuto modo di accorgersi in occasione delle molte partite internazionali che l’undici «azzurro» ebbe modo di giocare contro i «rossi» d’Ungheria, anche avanti lo scoppio della prima guerra mondiale poiché questo eccezionale atleta fu l’inamovibile medio-centro e capitano della poderosa rappresentativa danubiana. Contro l’Italia questo autentico fuori classe disputò una partita occupando il ruolo di mezzo destro e nel complesso delle sue prestazioni contro i nostri «azzurri» questo ungherese imponente e solido come un armadio ci rifilò almeno un paio di segnature.
Lasciò la carriera agonistica allo scoppio del grande conflitto e dopo l’armistizio del 1918 iniziò un fortunato periodo di allenatore presso la società nella quale aveva sempre fornito opera di giocatore, ossia quel «M.T.K.» di fama mondiale. Da noi meglio e più sbrigativamente conosciuto sotto la generica denominazione di «emmetikappa». Ma il significato vero della sigla era «Magyar Toerevecks Klub», cioè «Club Polisportivo Ungherese». Anche sotto la guida di Karoly 1’M.T.K. seguitò a distinguersi nei tornei nazionali e internazionali; così, assieme a quella del Club, anche la fama del suo massimo tecnico sempre più si diffuse in tutto il continente europeo e anche oltre oceano.
Fu allora che la Direzione juventina, che in quel tempo comprendeva persone di larghe vedute – era il tempo degli Edoardo Agnelli, del barone Giovanni Mazzonis, del geometra Piero Monateri, dell’avvocato Enrico Craveri e di tutti gli altri della cosiddetta «Belle Epoque» bianconera – entrò nell’ordine di idee tendente ad assicurarsi quel valente tecnico e preparatore. Il compito fu molto facile in quanto altri autorevoli componenti il consiglio direttivo – primi fra tutti i fratelli Ajmone Marsan – avevano larga cerchia di affari commerciali con tutti i paesi dell’ex-impero Austro Ungarico.
Così, nel 1923, Karoly si trasferì a Torino quale «trainer», come si diceva allora, della squadra. Ma i suoi compiti non furono quelli di un semplice allenatore bensì addirittura di un personaggio che più tardi negli ambienti del calcio fu chiamato – prendendo di peso la definizione dal football inglese – «General Manager».
Karoly venne alla Juventus che già contava 38 anni: ma possedeva poderoso fisico di atleta, scatto, velocità, scioltezza – per non parlare della somma abilità nel gioco – da renderlo addirittura migliore di parecchi fra gli elementi che la società gli aveva affidato.
Era nato a Sopron – importante città dell’Ungheria – il 1° marzo 1885. Si chiamava Jeno, ossia Eugenio: nome che fra i magiari, da oltre due secoli, è sempre stato molto diffuso: per la semplicissima ragione che fu quello del Principe Eugenio Francesco di Savoia, duca di Soisson che, benché nato a Parigi, era piemontese puro sangue. Così Eugenio Karoly ebbe il destino di venire dalle piane danubiane proprio nella città originaria di quel valoroso condottiero vincitore dei turchi a Zenta e dei francesi, nel 1706, a Rivoli. E, probabilmente, fu proprio per tale chiaro accostamento storico che Eugenio Karoly scelse proprio Rivoli per abitarvi nella veste di «trainer» della Juventus.
Moltissimi, e non solo fra i più anziani, bianconeri hanno conosciuto Karoly, lo hanno stimato e avuto quale amico. Uscito da ottima famiglia questo tecnico ungherese era di modi distinti ed elevata educazione; possedeva carattere rigido, vagamente autoritario, giusto nei rapporti con i giocatori, cordiale con tutti; anche se doveva esprimere qualche critica o distribuire un meritato rabbuffo. Sapeva incutere rispetto e obbedienza e dopo poco tempo ebbe la squadra ben in pugno. Negli allenamenti era di tendenze che più tardi furono definite quali «stakanoviste»: dell’opinione che gli sportivi si allenino molto. Sovente portava i giocatori a compiere lunghe passeggiate fra Torino e Rivoli, alternando il passo alla corsa.
Con i più giovani allievi da lui formati giocavano allora in prima squadra anziani quali Carlo Bigatto, nato, cresciuto e... invecchiato in casa. Dallo Spezia Karoly fece acquistare Munerati e il terzino Gianfardoni, nonché quel Joseph Viola, mediocentro, suo connazionale, nato nel 1896 a Komaron, molte volte «nazionale» d’Ungheria; poi, dall’Hungaria, fece assumere alla Juventus Ferencz Hirzer, nato nel 1902 a Budapest.
Jeno Karoly plasmò la sua squadra con tocco magistrale e la accompagnò verso i successi che non potevano mancare: ottenne prima onorevoli classifiche nel torneo nazionale e poi, in quello del 1925-’26 il primato assoluto. A quel tempo il campionato si giocava, con organico di 24 squadre, divise in due gironi. L’undici bianconero ottenne il primato del suo girone realizzando i risultati seguenti: con il Parma 6-0 e 3-0; col Padova 3-2 e 2-2; con la Sampierdarenese 1-2 e 5-1; col Milan 6-0 e 2-l; con la Pro Vercelli .1-0 e 3-2; Alessandria 4-0 e 3-1; Livorno 3-0 e 2-2; Cremonese 4-0 e 0-0; Mantova 7-1 e 5-0; Reggiana 4-1 e 0-2; Genoa 2-0 e 3-1: come dire che primeggiò nel suo girone con tutte vittorie meno tre pareggi e due sole sconfitte.
Il Bologna si classificò al primo posto nell’altro girone e così le due rivali si dovettero affrontare nelle finali. Si gioco prima a Bologna l’11 luglio del 1926 e si finì in pareggio per 2-2 quindici giorni dopo replica a Torino, il 25 luglio, e fu uno 0-0. La finalissima tu disputata a Milano 1’1 agosto: diresse l’arbitro Achille Gama, il migliore di quei tempi, segnarono prima i bolognesi, ma la Juventus pareggiò le sorti con un bolide di Piero Pastore, poi i bianconeri suggellarono la loro superiorità con una segnatura dell’ala sinistra Giuseppe Torriani, un tarchiato brunetto che sapeva muoversi e spesso piazzare tiri proibiti.
Ma al coronamento della sua opera, all’apoteosi bianconera del campionato di quell’anno Jeno Karoly non poté assistere: ebbe infatti la nera sfortuna di mancare improvvisamente d’un attacco cardiaco il 27 luglio nella sua casa di Rivoli lasciando la famiglia e la Juventus nel più acuto cordoglio. La società onorò la memoria del suo tecnico non facendo mancare ampia assistenza ai familiari e provvedendo a sistemare una degna sepoltura nel cimitero torinese: sulla tomba venne posto il simulacro di un pallone da gioco in bronzo, riprodotto alla perfezione con i suoi pannelli e la legatura, come allora usava.
Il ricordo del suo bravissimo tecnico è rimasto sempre alimentato nell’ambiente bianconero e mai mancarono al tumulo visite e omaggi floreali, che erano ripetuti anche quando a Torino giungevano squadre ungheresi o sportivi magiari isolati. Scaduto il trentennio regolamentare il figlio di Jeno Karoly, diventato medico, è venuto a Torino per raccogliere pietosamente i resti del genitore. Sandro Zambelli, che ha assistito all’esumazione, racconta che il cranio di Karoly appariva ben conservato e staremmo per dire somigliantissimo, specie per il fatto che lui stesso, in vita, provvedeva – specie prima d’ogni partita – a passarvi sopra diligentemente il rasoio, tirandolo a lucido: e non si è mai saputo se lo facesse per igiene o magari per scaramanzia.
Jeno Karoly è ricordato alla Juventus con rispetto e quasi venerazione, come per un uomo giusto, bene educato, atleta di classe e insegnante di calcio quali pochi ce ne furono in Italia. Conosceva tutte le sfumature del gioco, e sapeva insegnarle. Una volta Mario Meneghetti, che nella squadra a quel tempo era il più anziano, perché nato nel 1893, ebbe modo di confessare a un intimo: «Credevo di sapere giocare bene di testa fino a quando il signor Karoly non mi ha spiegato i miei difetti anche in questo particolare e non mi ha corretto».
E se si considera che il novarese Mario Meneghetti è stato il mediocentro che nel calcio italiano meglio primeggiava nel gioco di testa ci sembra che tale confessione sia il migliore elogio e riconoscimento alla sua bravura di tecnico e di istruttore; che del resto nessuno ha mai messo in dubbio.

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