sabato 9 gennaio 2021

Alberto ZACCHERONI

 

PAOLO ROSSI, “HURRÀ JUVENTUS” DEL MARZO 2010
Quando si parla della sua storia si ragiona sempre sul suo marchio di fabbrica, il famoso 3-4-3 ai tempi dell’Udinese. Pochi ricordano, invece, che una delle sue grandi operazioni con il Milan dello scudetto fu la rivalutazione di una vecchia guardia (Albertini, Maldini, Costacurta e altri) che sembrava ormai impossibilitata a raggiungere alti livelli, insieme a innovazioni tattiche in corso d’opera abbinate alla crescita dell’entusiasmo. Nella Juve di oggi sono altre le mete da raggiungere, ma resta l’urgenza di ritrovare un Dna vincente offuscato da un brutto inverno. Parlando con lui, però, le ragioni dell’attualità si sposano a un ritratto della sua professione che lo colloca a metà tra un detective e un giocatore di scacchi. Insomma, la figura dell’allenatore come fusione di Sherlock Holmes e Kasparov…
– Come ha trovato la Juventus da dentro dopo averla vissuta da avversario?
«In questi ultimi anni ho sempre indicato due società che reputo all’avanguardia sotto il profilo della gestione della squadra. La prima è l’Udinese, come modello di club con risorse limitate, che riesce a ovviarvi grazie a un’ottima politica basata sui giovani e sulla scoperta di talenti, in giro per il mondo e nelle categorie inferiori. A grandissimi livelli, nonostante nell’ultimo decennio si siano affacciate nuove realtà tra le big – vi ricordate quando si parlava di sette sorelle? – ho sempre considerato la Juventus l’unica società gestita davvero come un’azienda. Credo che questa sia la via maestra da percorrere, i bilanci a posto, insieme ai risultati sportivi, anche se tra i tifosi giustamente circolano parole d’ordine come passione e cuore».
– Le chiedo una definizione del suo mestiere. Che cosa significa fare l’allenatore?
«Quando uno che non mi conosce mi chiede che lavoro faccio io rispondo sempre che mi occupo di calcio, non lo considero assolutamente un lavoro. Ma se devo dare una definizione più profonda, il mio lavoro consiste innanzitutto nel riuscire a capire con chi ho a che fare nel più breve tempo possibile. La seconda fase è assegnare compiti e ruoli. Per fare bene queste due operazioni è necessario possedere le sei settimane del precampionato dove si può vivere senza lo stress dei tre punti. È in quel periodo che ci si conosce bene, non solo l’aspetto tecnico-tattico, ma anche sotto quello mentale, che ti permette di sapere che cosa puoi chiedere a un giocatore».
– Alla luce di questo ritratto, le qualità di un buon allenatore sono intuizione, competenza e studio?
«Ne aggiungo una quarta: l’esperienza. Io ho avuto una prima opportunità di approdare in Serie A a 41 anni e per una serie di circostanze ho dovuto rinviare l’appuntamento. Sulle prime ci sono rimasto male, pensavo di avere perso il treno giusto. Poi, anni dopo, quando finalmente ce l’ho fatta, mi sono reso conto che quel ritardo era stato la mia fortuna perché non avevo ancora maturato la giusta esperienza. Ho fatto la gavetta: sono partito dai Dilettanti e ho attraversato tutte le serie. E ho scoperto che ci sono diversi passaggi: se sei bravo in Interregionale puoi fare bene fino alla B. La A è un altro mondo. E i grandi club sono ancora qualcosa di più, un ulteriore gradino della tua crescita».
– Quanto è cambiata la figura dell’allenatore in questi ultimi anni?
«Non credo che ci sia stata una mutazione profonda dei nostri compiti. A cambiare davvero è la quantità d’informazioni di cui possiamo disporre. È su questa base che oggi posso lavorare nella Juventus arrivando in corso d’opera. Qui sto facendo un corso accelerato per poter incidere maggiormente sul piano nervoso. Nelle aziende si usa dire: la gestione delle risorse umane. Io ho un gruppo di uomini importanti, ognuno con una propria personalità e una specifica pressione mediatica e ambientale che grava su di lui. Le mie ore di lavoro devono riuscire a imporsi in un contesto reso complicato dai tanti messaggi che arrivano a ogni giocatore da fonti diverse».
– Nel suo primo mese di Juve ho avuto l’impressione che lei sia un allenatore che difficilmente può essere descritto con una formula: non regala facili slogan ma spiega il calcio con concetti più estesi.
«Io non sono molto mediatico, non lo sono mai stato, e questo è un mio limite. Oggi apparire conta più che essere, la soluzione migliore sarebbe una sana via di mezzo. È vero però che quando parlo amo spiegare bene le cose accadute sul campo e le motivazioni delle mie scelte: non sono uno che si nasconde o che sposta l’obiettivo altrove».
– Il primo compito che si è assunto alla Juventus è stato rimotivare i singoli. Il dialogo individuale, l’osservazione dell’allenamento, la verifica della partita: cosa serve per riuscire in quest’impresa?
«Facendo leva sulle conoscenze acquisite nel tempo cerco di toccare le corde giuste, sapendo che il tempo è poco e i margini di errore elevati. Cerco di sfruttare ogni momento che ho a disposizione: parlo con chi reputo abbia più bisogno e anche collettivamente. Poi si capiscono tante cose vivendo lo spogliatoio, dove cerco di cogliere anche solo da uno sguardo messaggi che possono essermi utili. Infine, è fondamentale la tempestività: se mi accorgo che c’è un problema lo affronto subito, non mi piace rinviare perché si rischia solo di aggravare la situazione».
– Qual è la sua idea di gestione di una squadra di calcio?
«C’è una società che ti chiama e ti affida la conduzione tecnica indicandoti un obiettivo. L’allenatore deve costruirci sopra un’idea che consenta di raggiungerlo. I rischi sono tanti: a me è capitato di rifiutare una squadra non per un mancato accordo contrattuale, ma perché ritenevo impossibile raggiungere la meta prefissata con i mezzi a disposizione. Un altro pericolo è che possa essere sbagliata l’idea. Il terreno più insidioso è comunque la quotidianità, che contiene sempre una marea di problemi e rende il viaggio accidentato. Perché tutto riesca è fondamentale che i giocatori ti seguano, che in qualche maniera non siano vittime di pregiudizi o che rimangano troppo legati a precedenti esperienze positive, in virtù delle quali possano pensare che la strada per vincere sia solo una, quella che già hanno praticato in precedenza. Detto questo, io non impongo un modello “a prescindere”: studio le caratteristiche di chi ho a disposizione e cerco di plasmare un gioco che le esalti».
– Mi sorge una domanda immediata: come elabora l’idea in un contesto come la Juve di oggi?
«Ho bisogno di due tipi d’informazione. Il primo è l’ambito tecnico e nel nostro caso sono fortunato: la Juve la conoscevo bene, anche seguendola a distanza mi ero fatto un’opinione. Il secondo è l’aspetto caratteriale, un altro elemento di valutazione molto importante che non puoi conoscere se non vivi dal di dentro. Poi, procedendo nel tempo, acquisisci altre nozioni, come la dimensione atletica e la componente psicologica».
– Resto sull’idea: è un progetto di gioco, una gestione della gara, l’insieme di varie combinazioni?
«La squadra intanto deve tenere bene il campo. Ai ragazzi ripeto un concetto base: è fondamentale stare dentro la partita. Dal primo all’ultimo secondo. Una partita è fatta di occasioni da cogliere, per le quali bisogna sapersi trovare nel posto giusto al momento giusto. Perciò dobbiamo trovare una posizione di partenza corretta per stare bene in campo: io fornisco pochissimi riferimenti ma chiari, cerco di semplificare i compiti ai miei giocatori e mai di complicarli. Stabilito questo, l’interpretazione della gara è variabile, gli avversari non li muovo io e dobbiamo essere bravi a imparare come leggere la partita».
– “A me piacciono gli allenatori che parlano poco e osservano molto: altrimenti, non puoi entrare nella psicologia dei giocatori: Zaccheroni è uno così”: è una frase di Paolo Maldini, uno che l’ha conosciuta bene...
«Paolo è stato con me tre anni. Io non sono uno che urla, non credo che per farsi rispettare dai giocatori sia necessario essere autoritari. Il rispetto lo ottieni con la chiarezza, essendo diretti, stabilendo regole certe. Quando le basi del rapporto sono ben definite non è possibile andare allo scontro, perché ognuno rispetta il proprio ruolo e tutto funziona. Maldini ne è stato l’esempio. Da capitano mi avrebbe anche fatto comodo che certe volte avesse preso la parola, magari per spronare i compagni nell’intervallo di una partita. Ma lui sapeva quali erano i nostri compiti e non l’ho mai sentito intervenire al mio posto. È così che si fa».
– Si è trovato di fronte una Juve senza serenità. Come si lavora con una crisi di questo tipo?
«Non ci voleva Einstein per analizzare i mali della Juve. La squadra è di spessore, con troppi infortuni che ne hanno condizionato il rendimento, ma è impossibile dimenticare quanto di buono è stato fatto all’inizio. Se sei riuscito nella prima parte della stagione a vincere tante partite e a stabilire una buona continuità significa che non ti manca la qualità. Non mi interessa analizzare le cause della crisi che poi ha attraversato. Si deve ripartire dalla consapevolezza dei nostri mezzi: io non devo fare altro che ripristinare alcune caratteristiche che si sono perse nel tempo».
– Le complico la diagnosi della nostra malattia. La Juve ha vissuto grandi momenti d’entusiasmo – le vittorie con Sampdoria e Inter – seguite da terrificanti rovesci immediatamente dopo con Napoli e Bayern. È un quadro “clinicamente” difficile da guarire...
«Nonostante i primi risultati positivi della mia gestione, sono conscio che non abbiamo consolidato nulla. Non si può dare niente per scontato in un lasso di tempo così breve. Per questo sono vigile 36 ore al giorno... Mi devo aspettare di tutto e devo trovare rapidamente le risposte alle difficoltà».
– È stimolante doversi occupare di far rendere al meglio Diego, in un’epoca che non vede molto di buon occhio la figura del trequartista?
«Di me si ricorda soprattutto il 3-4-3 dell’Udinese, un sistema di gioco che in Europa nessuno praticava. Ci sono arrivato dopo tante variazioni nel corso della mia carriera, ma ho sempre avuto il trequartista, magari camuffandolo. Nel 4-4-2 della Lazio, mi è esploso tra le mani Stankovic che partiva da sinistra e si accentrava, mettendosi tra le linee, assumendo i compiti che in precedenza erano di Nedved. Giocava a ridosso delle punte ed era il centrocampista più avanzato, però non era il trequartista che gioca con le spalle rivolte alla porta. Nel Venezia e nel Cosenza ho avuto trequartisti più evidenti, meno nascosti. Nella stessa Udinese, dove giocavo con 4 centrocampisti in linea, le mezze punte erano addirittura due e si alternavano: Poggi e Amoroso tornavano indietro a prendere palla a seconda delle esigenze mentre Bierhoff mi dava profondità come attaccante più avanzato. Non era quindi un tridente, come tanti scrivevano. È fondamentale che si studino bene le caratteristiche dei giocatori. Io sono soddisfatto del rendimento di Diego, ha ampi margini di miglioramento nell’interpretazione del ruolo: deve ancora adattarsi alle difficoltà altissime del campionato italiano. Noi siamo maestri nel far giocare male gli altri e i trequartisti pagano questa situazione».
– Nel calcio c’è ancora qualcosa da inventare dopo oltre un secolo di tattiche?
«Per un allenatore è un dovere avere lo stimolo di battere strade nuove. Nei primi sei anni della mia carriera sono arrivato cinque volte al primo posto senza giocare mai nello stesso modo. Due squadre uguali non potranno mai esistere, perché non esistono due giocatori uguali. L’allenatore è come il sarto: deve cucire l’abito indosso all’uomo che ha di fronte».
– Silvio Berlusconi al Milan la definì per l’appunto un sarto. Qui alla Juve le hanno subito appiccicato addosso l’etichetta di “traghettatore”. Come si trova con queste definizioni?
«Non la trovo né infernale né sminuente. Traghettatore? Va bene così. Ho avuto la fortuna di fare la professione che mi piace. E la mia gratificazione è centrare il risultato chiesto da chi mi ha chiamato. Poi voglio che venga valorizzato il patrimonio tecnico che mi è stato affidato: non sopporto che un giocatore renda di più con un altro allenatore. Infine, ci tengo a far esordire qualche giovane, lanciarlo nel grande calcio e riuscire a rimettere in carreggiata chi magari attraversa un momento di crisi o sembra entrato nella fase calante della sua carriera. Questo è il mio lavoro, al di là di ogni definizione. E non mi pesa l’idea di essere provvisorio, tanto è vero che solo al Milan ho avuto un contratto biennale, per il resto ho sempre scelto di essere messo in discussione stagione dopo stagione, anche quando mi sono fermato a lungo. Non voglio certezze, anzi, secondo me i contratti dovrebbero essere sempre costruiti così: si guadagna in rapporto al raggiungimento dell’obiettivo. Saremmo tutti più liberi, come lo sono stato io all’Inter quando ho mollato appena avuta la sensazione che una parte della dirigenza non mi volesse più. Preferisco togliere il disturbo piuttosto che restare solo perché ci vincola un accordo scritto».
– Lei fa parte di una cultura, quella romagnola, che ha prodotto allenatori divorati dalla passione. Arrigo Sacchi era famoso per lo stress e anche lei trascorre 90 minuti in piedi...
«È vero: adesso digrigno i denti, nel passato mi mordevo il labbro. La partita la vivo totalmente. Il calcio è una passione che mi è nata quando ancora ero nella pancia di mia madre. Vicino a me c’è sempre stato un pallone. Ricordo le discussioni con mio zio che mi diceva di non giocare perché sporcavo le pareti di casa o perché trascuravo lo studio. Non avrei voluto fare qualcosa di diverso, se non il calciatore, ma sono stato bloccato a 17 anni da una malattia polmonare e poi non avevo grandi mezzi tecnici. Vedendo le mie squadre non si direbbe, ma ero un difensore rognoso, di quelli che si appiccicano in marcatura e mordono. Diciamo un po’ alla Caceres, con la barba però...».
– Esiste una formula per costruire una rosa competitiva, con una quantità precisa di campioni, di giovani, di uomini d’esperienza?
«Tutto dipende dagli obiettivi che ha la società: se punta su un solo ambito o se vuole giocarsela fino in fondo su più fronti. Se l’obiettivo è uno solo, possono essere sufficienti 16 o 17 giocatori di un certo livello e un nutrito gruppo di giovani. Altrimenti si deve alzare la soglia dei titolari, ma non se devono avere 25: troppa concorrenza non fa bene. E poi, al di là di come costruisci l’organico, c’ê un dato che mi preme sottolineare nella costruzione di una squadra: poter lavorare tranquillamente a inizio stagione. Quando arrivai al Milan, ad esempio, ci chiudemmo a Milanello, lavorammo duramente, facendo solo amichevoli nel circondario. Ed è così che la squadra è uscita alla distanza, come è successo tutte le volte che ho potuto lavorare dall’inizio. Il segreto dello scudetto del Milan nel 1999 è tutto lì».
– C’è un complimento che la inorgoglisce?
«È una domanda difficile. Io sono un uomo di sostanza, non sono uno che sogna. Quel che mi preme maggiormente è la stima dei miei giocatori, quando mi riconoscono come una persona leale. I migliori rapporti li ho avuti con i campioni, con gli atleti professionali, mentre non amo quelli più “mediatici”. Se mi si dice che sono uno diretto, che parla chiaro, significa che si è capito chi sono ed è una bella soddisfazione».
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Zaccheroni approda a Torino il 29 gennaio 2010 ed eguaglia József Viola e Giovanni Trapattoni, essendo riuscito nella propria carriera a sedersi sulle panchine di tutte e tre le grandi del calcio italiano. Assunto con l’obiettivo di raggiungere la qualificazione in Coppa dei Campioni, debutta il 31 gennaio nella partita Juve-Lazio 1-1.
I tifosi bianconeri accolgono con indifferenza l’arrivo del mister romagnolo, ben consci che il campionato sarebbe finito in modo deludente. Le uniche speranze restano quelle di trovare qualcosa di buono su cui puntare l’anno successivo.
Ma sarà un disastro su tutti i fronti. La Juventus prosegue nel suo cammino altalenando poche prestazioni buone a tante disastrose, come il pareggio casalingo contro il Siena, dopo essere stati in vantaggio per 3-0. O la pessima figura rimediata a Londra, nel match col Fulham in Europa League (sconfitta per 1-4). E ancora la batosta nella “sua” Udine per 0-3. Dulcis in fundo le ultime due partite, terminate entrambe in modo indegno: battuti dal Parma all’Olimpico (2-3) e dal Milan a San Siro (0-3).
Certo, non è tutta colpa sua ma non è in grado di incidere minimamente nella crisi juventina. Inoltre, non riesce nemmeno a garantire quella “scossa” usuale dopo un cambio in panchina.
La truppa bianconera chiude il campionato al 7° posto con 55 punti qualificandosi in Europa League. A Zaccheroni non viene rinnovato il contratto e lascia così tristemente la Juventus.
«Alla Juve molti giocatori erano a fine carriera e mi tornano in mente tutti gli indisponibili che avevo ogni volta: mai sotto i 12-13. Ma io ho la mia idea. Se ci si mette lì ad analizzare nel tempo le squadre che hanno avuto parecchi infortuni stagione per stagione, si noterà che la costante è che in quelle squadre c’è tensione. I giocatori si fanno male quando, dico io, “l’aria non è pulita”. E in quella Juve l’aria non era per niente pulita. Io avevo un buonissimo rapporto con Felipe Melo. Una volta pensavano avessi bisticciato perché non gli diedi la mano dopo il cambio, ma in realtà gli dissi: “hai fatto bene ma da te voglio di più perché tu puoi fare la differenza con quella forza fisica mostruosa”. In allenamento non l’ho mai visto litigare o dare calci a nessuno... Mi riportavano che era un po’ disordinato fuori dal campo, ma l’allenatore non deve andare a marcare i giocatori nella vita privata. Bisogna cercare di farglielo capire. Se uno poi in campo mi dà tutto, se anche mi fa tardi la notte e poi fa bene in campo, allora io faccio anche finta di non saperlo».

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