«Nel ‘53 mi chiama l’avvocato Gianni Agnelli nel suo studio. Mi fa: “Quanto vuole per allenare la Juventus?”. Io ci penso un attimo e gli rispondo: “Sa, avvocato, adesso guadagno 60.000 lire, avrei piacere di guadagnarne 80.000”. Lui obietta, arrota la erre e mi risponde: “Veda, Olivieri, io con 30.000 lire trovo un ingegnere che mi fa un’auto nuova”. Allora, gli dico: “Avvocato prenda un ingegnere e lo metta sulla panchina della Juve”. Prese me».
VLADIMIRO CAMINITI
Di questa Juve grande piena di sogno e di realtà che sfracella gli avversari a suon di gol, con i danesi, ex dilettanti, professional con birra e voglia di non castigarsi troppo, che ha soggiogato la fortuna anche con l’arte oratoria dei suoi signorili dirigenti – Monateri e Cerruti, gli ex fuoriclasse Combi e Rosetta – nel 1953 diventa allenatore succedendo a Sarosi («Il Toscanini del calcio» lo definiva la moglie), l’allenatore del giorno, vale a dire Olivieri.
Non si era ancora visto un portiere così allenato a volare come un saltimbanco e coraggioso come un guerriero greco. Veronese era costui, con certi occhiacci randagi in perenne ricerca, quasi nevrotico. Si era preso a Verona nel 1933 una botta in testa quasi mortale per una uscita tra i piedi del centrattacco Grega del Padova, lanciato sul gol. Erbstein, ungaro umano e colto, lo aveva ricostruito fisicamente e psicologicamente. Era nato così il portiere 24 volte azzurro d’Italia (l’Italia vera seppur retorica di Pozzo), campione del mondo a Parigi.
Ma come allenatore, ci si poteva chiedere, che allenatore era? Sotto la sua guida l’Udinese stava in A, vi era approdata navigando dalla C. E Olivieri aveva preso dal maestro umanista che avrebbe forgiato il grande Torino e con i suoi allievi sarebbe bruciato a Superga, le suggestioni e l’imperio del comando, credendo nel calcio preparato sul campo e sulla lavagna ma anche e specialmente dentro il cuore. Coi capelli precocemente imbiancati il quarantunenne ex portiere dal profilo grifagno venne a Torino per cancellare, era il suo proposito, il ricordo di ogni allenatore che Madama avesse avuto. Fu un duro impatto con la realtà di una società e di un ambiente dove all’allenatore si dava ben poco spazio, a partire dai giocatori importanti che ne maldicevano in sede e proseguendo con gli stessi dirigenti che avevano l’aria di beatificare innanzitutto la loro generosità che consentiva a quegli stravaganti di poter mettersi in mostra alla guida di quei fenomeni. E inoltre l’avvocato Agnelli ascoltava soltanto Rosetta e Combi.
Tante cose erano mutate e ancor mutavano in Italia con la ricerca del benessere a tutti i costi che il presentatore Mike Bongiorno, juventino, con il suo quiz a premi «Lascia o raddoppia?» avrebbe presto garantito a quei cittadini nozionisticamente di grossa tempra e un po’ mattocchi. La pretesa di arricchimento fulminante era soddisfatta dal Totocalcio a quelli nati con la camicia. Non c’era da meravigliarsi se gli stessi protagonisti del pallone assimilassero smanie o manie, Olivieri era alquanto superstizioso, la sua Juve comunque partì bene, ma al primo confronto con l’Inter non andò oltre il pareggio: 2-2. E al ritorno andò anche peggio, i rodomonte bianconeri incapparono in una domenica di luna storta e ne beccarono sei, a zero, ma Oppezzo non era Piccinini, Bertuccelli e Manente si logoravano, Ferrario non ebbe molta assistenza da Gimona, Muccinelli non ce la fece contro Giacomazzi e Giovannini bloccò Boniperti. Pretendere che Ricagni e John Hansen facessero spola era troppo anche da un grifagno condottiero come Olivieri. Pure, l’Inter non superava tecnicamente la Juve, ma tatticamente e agonisticamente sì, per la continuità e la volitività dell’impegno. Praest e Hansen non ammettevano le tragedie per una sconfitta e si divertivano anche senza vincere.
Per il campionato ‘54-’55 la preparazione condotta da Olivieri fu erbsteiniana, al massimo ispirata. Fu preso a cachet Bronèe, ma il sogno era svanito, succedevano cose chiarissime per l’avvocato Agnelli grande amatore del calcio spettacolo. Il Milan era meglio, era più forte in fuoriclasse. Ne parlava a Giordanetti e agli altri amici del consiglio: «Noi siamo pieni di brocchi, abbiamo soltanto Praest logoro e Boniperti. Vogliono lor signori tener conto che il Milan dispone di Liedholm, Nordhal e di quell’asso strabiliante di Schiaffino?»
Avrà avuto ragione quanto a fuoriclasse, ma una società non è difesa soltanto da loro. E gli scudetti si difendono col costume e la serietà dell’organizzazione di base. Che venne messa in discussione da uno sciopero minacciato dai giocatori prima di una partita con l’Inter per un premio non pagato, sciopero che fu scongiurato molta forza dialettica. Si era spezzata l’armonia antica della società e ne erano responsabili tutti i dirigenti.
Olivieri aveva fallito il suo compito. Le tentò tutte. Accettò di collaborare con il tecnico inglese Raynor e poi di lasciarsi consigliare da Viri Rosetta. Ma dovette dimettersi.
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