Quando, da giovane, consuma le sue modeste esperienze calcistiche tra Parma e Suzzara, è chiamato Alan Ladd (attore americano di bell’aspetto, dallo sguardo duro e allo stesso tempo angelico) per l’eleganza dell’abbigliamento e il fascino che esercita sulle ragazze. Vent’anni più tardi, diventato il più grande manager italiano, inventando in pratica una nuova professione, gli saranno affibbiati i soprannomi più strani: da Re del mercato a Richelieu del calcio oppure Kissinger del pallone. La più gustosa definizione gli sarà data, un giorno, da Gianni Agnelli: «Allodi è come Santa Rita, tutto può e tutto fa».
«L’Avvocato è troppo buono – si schermisce Italo – ma io santo proprio non mi sento. Ho soltanto avuto la fortuna di imparare questo mestiere da tre grandi dirigenti come Viani, Cappelli e Valentini».
Nato ad Asiago il 13 aprile 1928, figlio di un ferroviere e di una casalinga, Allodi fin da giovane si riconosceva un talento ancora tutto da scoprire ma non da sprecare in una vita da ferroviere (i genitori gli fecero fare l’esame da capostazione ma lui scappò). «All’inizio – raccontava – avevo dinanzi tre possibilità per diventare qualcuno. A parità d’interesse, c’erano il calcio, la pittura, il giornalismo». C’è stato un periodo in cui Allodi si occupava di tutte e tre le cose insieme. «Un giorno ho dovuto fare una scelta precisa. La scelta è stata dura ma necessaria. Mi occorreva denaro per vivere. Il denaro poteva immediatamente venire soltanto dal gioco del calcio».
E il calciatore fece, ma di piccolo cabotaggio, approdando come massimo in serie C. Non doveva effettivamente essere un granché se Edmondo Fabbri, allora al Mantova, lo prese dicendogli chiaro e tondo: «Vieni, ma sta buono e occupati di altro». Diventò “segretario” della società scavalcando ben presto col suo dinamismo le tradizionali prerogative della carriera. Gestì così bene la società, portandola in serie B, che quando Angelo Moratti si trovò ad aver bisogno per l’Inter di uno sveglio e capace, se lo prese subito. In quegli anni, alla fine dei ‘50, c’era un personaggio del nostro calcio che dettava legge dall’alto della sua autorevolezza di manager: Gipo Viani, il cervello pensante e organizzativo del Milan.
A lui sicuramente si ispirò Allodi quando, giunto a Milano chiamatovi dal presidente dell’Inter, intuì che la sfida con cotanto rivale poteva soltanto finire male se lui non si fosse impegnato «intus et in cute» nel ruolo che Moratti gli aveva affidato. All’Inter, oltretutto, doveva talvolta scontrarsi con un tipo piuttosto spigoloso dal carattere fermo e grintoso, ossia Helenio Herrera, il tecnico appena arrivato ad allenare la squadra. Eppure, unendo diplomazia a risolutezza, muovendosi con disinvoltura in un ambito non sempre costituito da amici comprensivi, Allodi pervenne a stabilire un rapporto intelligente, efficiente e proficuo con il clan tecnico e con quello dirigenziale. Sull’asse Moratti-Allodi-Herrera nasceva la leggenda dell’Inter euromondiale, capace di conquistare tre scudetti dal ‘63 al ‘66 e di aggiudicarsi consecutivamente due Coppe dei campioni e altrettante intercontinentali.
A suo merito indiscutibile sono da attribuire gli ingaggi di Luisito Suarez, colonna portante dei successi nerazzurri in quel periodo, di Jair Da Costa, infine quasi quasi di Pelé, addirittura, che non vestì la maglia dell’Inter per il timore di una sollevazione dei tifosi del Santos. La fama di Allodi ingigantiva di stagione in stagione man mano che l’Inter accresceva il numero dei suoi trionfi.
Se è vero che, sul piano tecnico, a Herrera va ascritto il merito di una conduzione esemplare, se è altrettanto giusto riconoscere a Moratti la saggia e insieme incisiva partecipazione – da presidente oculato – alle sorti della squadra, va pur detto e sottolineato che Italo Allodi rappresentò per l’Inter un modello ideale in un campo che, a quell’epoca, ancora aveva il sapore di inedito.
«Merito di una grande organizzazione, all’epoca unica» spiegava Allodi, che nelle questioni tecniche era entrato soltanto una volta, per suggerire a Herrera una tattica meno spregiudicata dopo una storica sconfitta sul campo del Padova di Rocco. Nasceva anche la leggenda del manager che manovrava acquisti e cessioni, che consigliava, imponeva e vietava, muovendosi nei saloni dell’Hotel Gallia con stile impeccabile, volontà di ferro e abilità diabolica.
Eusebio, Beckenbauer e Pelè: tre colpi mancati per un niente. C’era anche chi lo accusava di ammaliare gli arbitri con regali costosi, ma lui tagliava corto: «Balle. Se bastassero un orologio d’oro o una pelliccia di visone, saremmo tutti campioni del mondo».
Mentre Angelo Moratti lasciava l’Inter, l’avvocato Agnelli voleva rifondare la Juventus che navigava nei bassifondi delle classifiche. E Allodi approdò a Torino come segretario generale rifondando la società bianconera e gettando le basi di quella futura struttura modello che la Juve può ancora vantare nei confronti di molti altri club. Fu Allodi ad acquistare giocatori giovanissimi dal luminoso avvenire: Bettega, Causio, Furino, Zoff, Cuccureddu…
Curioso l’aneddoto su quest’ultimo: «Giampiero – disse Agnelli a Boniperti chiamandolo da Cortina appena seppe di quell’acquisto – ma come può uno che si chiama Cuccureddu giocare nella Juve?». Ormai la sua personalità si imponeva sia per l’acutezza degli orientamenti, sia per la soluzione di problematiche sulla stregua di una maturata esperienza.
Però Boniperti non lo amava: c’era posto soltanto per un gallo, nel pollaio juventino. Troppi regali, e poi Allodi era un fanatico del protocollo, coltivava le pubbliche relazioni, azzeccava gli acquisti, dominava il mercato, curava i dettagli, tesseva tele importanti ma anche imbarazzanti. Godeva di una personalità forte e ambigua. Venerato in pubblico, chiacchierato in privato: una sorta di Andreotti calcistico.
Lascia la Juventus nel 1974 dopo due scudetti e viene chiamato nel clan Azzurro da Franchi per sostituire il Mandelli messicano nel ruolo di tutore di Valcareggi. Non ebbe fortuna, i laziali, da Chinaglia in giù, gliela giurarono e la spedizione sfociò in uno squallido KO.
Diventò direttore tecnico di Coverciano, un posto che in mano a chiunque altro sarebbe diventato una sinecura tranquilla dove percepire uno stipendio facendo il meno possibile. E invece Allodi reinventò il calcio moderno, l’università di Coverciano dove si studiava da allenatori e da manager. E si studiava talmente bene che Allodi fu chiamato a sua volta a tenere una conferenza alla Bocconi di Milano. Fu il primo a scovare nelle pupille allucinate di Arrigo Sacchi la luce del predestinato: «Sarà il nuovo Herrera».
Ma intanto in ambiente federale sotto la cenere covava una rivalità senza fine con Bearzot. Per la verità a tutte le domande su questo argomento, Allodi ha sempre risposto di non sapere perché Bearzot ce l’avesse con lui, di avergli scritto più volte lettere di pace, senza mai ottenere risposta. Non è difficile immaginare che due uomini così diversi, tanto integralista Bearzot quanto pragmatico e agile Allodi, non potessero in alcun modo andare d’amore e d’accordo. Certo è che dopo il trionfo spagnolo del 1982, alla vigilia del quale Allodi aveva espresso molte perplessità, Bearzot chiese la sua testa, e la ebbe.
Dopo i mondiali del 1982 accettò la direzione organizzativa della Fiorentina dei Pontello, portandovi Lele Oriali, uno dei primi giocatori strappati a parametro. Il feeling in riva all’Arno non durò a lungo. Fece una pausa allietando, con la sua eloquenza suadente, il pubblico della Domenica Sportiva, poi il Napoli. Una città non facile per un manager “asciutto” come lui. Venne assunto come consigliere del presidente Ferlaino.
Arrivano i giorni di Maradona e poi lo scudetto. Ma anche l’inizio del suo malinconico crepuscolo. Nella primavera del 1986 era stato coinvolto nella seconda, lacerante puntata dello scandalo scommesse. Ne era uscito assolto, però macchiato, segnato e sconvolto. L’accusavano di aver manipolato il risultato della partita con l’Udinese. «Sono stato accostato ad Al Capone, ho perso la serenità, passo le notti in bianco» si lamentava, attribuendo alla vicenda il trauma che il 12 gennaio 1987 gli sarebbe costato un ictus. Poche ore prima il Napoli aveva festeggiato il titolo d’inverno, prologo alla conquista del primo scudetto della sua storia. L’ultimo capolavoro di Allodi. Si riprese a fatica, e, sempre a fatica, uscì pian piano dal suo mondo.
I suoi ultimi anni trascorsero in una sconfinata amarezza. A chi gli era rimasto amico e lo raggiungeva con qualche telefonata, oppure passando per Firenze con una breve visita, Italo confidava di sentirsi così estraniato da non riconoscere più l’ambiente del calcio che andava mutando. Soprattutto, senza che lui lo ammettesse, si intuiva una sua mortificazione per essere finito in un cono d’oblio. Morì in una clinica di Firenze, stroncato da uno scompenso cardiocircolatorio il 3 giugno 1999 a 71 anni portando con sé per sempre grandiosi successi e insondabili misteri.
Per quasi trent’anni è stato nel cuore del potere del calcio italiano. E lavorando dietro le quinte, come un cardinale Richelieu, ha contribuito a traghettarlo dall’era premoderna al terziario di fine secolo. Bello come un attore anni ‘50, affascinante quanto serviva, Allodi è stato il primo a capire l’importanza delle pubbliche relazioni nel calcio. Il suo charme, i mezzi di Moratti e quelli degli Agnelli più tardi, gli hanno permesso di aprire qualsiasi porta.
Ai tempi d’oro, dominava tutte le trame del mercato e controllava bene, pare, anche le abitudini degli arbitri. Come tutti gli uomini potenti, ha avuto molti complici e qualche nemico. Anche perché si è trovato dentro a un crocevia, nella storia del nostro calcio. E molto ha fatto per strapparlo in avanti, ben capendo che il futuro sarebbe stato di allenatori e manager formati su basi scientifiche. Da qui l’idea dell’Università di Coverciano, istituita nel 1976, che è ancora un modello per il calcio mondiale.
VLADIMIRO CAMINITI
L’ansia – pure giustificata – di uscire dal provincialismo dei nonni e di archiviare la trincea, durante la trasmigrazione dei poteri federali da Franchi a Carraro, ha portato questo insigne architetto della parola con flauto e mandolini alla guida pratica del calcio italiota.
Italo di Suzzara, dal mediocre avventuroso passato di calciatore («gli prestavo le diecimila» ricorda Vycpalek), come general manager dell’Inter di Moratti addetto alle relazioni pubbliche e ai rapporti con la stampa scoprì una luciferina personalità, sorse e insorse, accattivò e realizzò.
Il foresto Brian Glanville, forse per invidia, lo accusò tardivamente di corrompere gli arbitri. I fatti hanno smentito quel bilioso compare e dato ragione a Italo, principe degli organizzatori aggiornati in tutto, anche sulle quisquilie, erede di Lorenzo il Magnifico per il gesto sontuoso in questa terra avara di amicizia.
Debbo aggiungere che l’italianità si manifesta particolarmente nella capacità d’improvvisare, di apparire più di essere. Come dirigente di calcio Italo sa perciò essere insostituibile.
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