mercoledì 26 luglio 2023

Andrea FORTUNATO


«Speriamo che in paradiso ci sia una squadra di calcio, così che tu possa continuare a essere felice correndo dietro a un pallone. Onore a te, fratello Andrea Fortunato». Gianluca Vialli.
Sono passati tanti anni, ma fa ancora tanto male ricordare la storia di Andrea Fortunato. Nasce a Salerno il 26 luglio 1971 e intraprende presto la strada dello sport, sull’esempio del fratello maggiore Candido, cimentandosi con il nuoto e la pallanuoto. Il calcio, per adesso, è solo un divertimento dei mesi estivi. Ma galeotta sarà una di quelle estati salernitane, perché viene notato da Alberto Massa, tecnico e talent scout, che lo convince a seguirlo nella Giovane Salerno, squadra dilettantistica; Andrea accetta e, nemmeno tredicenne, insieme con altri giovanissimi talenti, va in giro per l’Italia a fare provini per squadre come Torino, Cesena, Empoli, Napoli e Como.
A Sandro Vitali, direttore sportivo del Como e al tecnico della Primavera lariana, Angelo Massola, non sfuggono le grandi potenzialità di Andrea e lo ingaggiano, convinti di farne un grande centravanti. La svolta avviene, quando il tecnico della squadra Allievi, Giorgio Rustignoli, lo trasforma dapprima in centrocampista di sinistra, poi in difensore, sempre sulla fascia mancina.
Andrea segue tutta la trafila nelle giovanili e debutta in prima squadra, in Serie B, il 22 ottobre del 1989, a Pescara. A fine stagione colleziona sedici presenze nella serie cadetta, oltre a un diploma di ragioniere che aveva sempre inseguito: «I miei genitori, che non mi hanno mai ostacolato nelle scelte, quando partii per Como, mi chiesero semplicemente di non trascurare gli studi. Promisi e, naturalmente, mantenni».
Diventa presto una colonna del Como di Bersellini, ed è un protagonista assoluto nel campionato ‘90-91, in C1, con la squadra lariana che manca la promozione, perdendo lo spareggio contro il Venezia. Roberto Boninsegna, selezionatore dell’Under 21, lo convoca immediatamente e tutta la Serie A si accorge di lui. Per quattro miliardi Aldo Spinelli se lo porta a Genova, ma la prospettiva è di una lunga coda dietro il brasiliano Branco, titolare della cattedra di terzino sinistro. Quello tra Fortunato e il Genoa non è amore a prima vista. Un litigio con Maddè, il braccio destro di Bagnoli, costa al ragazzo di Salerno l’esilio novembrino a Pisa. «Io non so se Bagnoli non credesse in me – confida un giorno Andrea – ma forse ho pagato quella nomea di arrogante, di testa calda, che qualcuno ha costruito su di me. Comunque devono mangiare sassi prima di scalzarmi».
Testardo, ambizioso ma pure generoso («In campo darei l’anima anche per mille lire»), Fortunato sa risalire la corrente al suo rientro dal “confino”. Bagnoli e Maddè del resto sono stati risucchiati dall’Inter, Giorgi diviene subito suo sponsor, a mettersi in coda per la cattedra di terzino sinistro stavolta tocca a Branco. Campionato eccellente, questo del debutto in Serie A, con 33 presenze e 3 gol, l’ultimo segnato al Milan. Lui e il collega di reparto Panucci stuzzicano gli appetiti della Juve che vorrebbe acquistarli in blocco. Si dice che Spinelli avesse deciso di privarsi del solo Panucci (che nel frattempo aveva scelto di puntare sul Milan) ma, almeno così narrano le leggende metropolitane, Fortunato riesce ad ottenere disco verde per la fuga, approfittando dello “stato di bisogno” del suo presidente. Dopo una trasferta a Pescara, con il Genoa arenato in acque pericolose, Spinelli gli sussurra: «Andrea, aiutami a salvare la squadra e ti lascerò andare».
La Juventus è nel suo futuro, lo stesso Andrea non nega: «Arriva un giornalista e mi domanda se mi piacerebbe giocare nella Juventus. Ed io cosa dovrei rispondergli, che mi fa schifo? Figuriamoci, io da ragazzino per i colori bianconeri stravedevo, e anche se sono diventato un calciatore professionista, certi amori ti restano nel cuore».
Nell’estate del 1993 firma il contratto che lo lega al sodalizio bianconero e, per tutti gli addetti ai lavori, Andrea è destinato a diventare il miglior terzino sinistro italiano, raccogliendo l’eredità di Antonio Cabrini, non solo sul campo, ma anche nel cuore delle tifose bianconere: «Mi fa arrabbiare questo paragone con Cabrini, lui è stato il più forte terzino del mondo, vi sembra una cosa logica? A me no; prima di raggiungere i suoi livelli, se mai ci riuscirò, ci vorrà tanto tempo».
La sua avventura a corte della Vecchia Signora incomincia nel migliore dei modi: precampionato ad altissimo livello, debutto in Nazionale a Tallinn, il 22 settembre contro l’Estonia. «Prometto sempre il massimo dell’impegno per la maglia. Darò sempre tutto me stesso e alla fine uscirò dal campo a testa alta, per non essermi risparmiato».
È una corsa verso la gloria apparentemente inarrestabile e invece Andrea rallenta, nella primavera del 1994. Si pensa che sia appagato: ha raggiunto la fama e il successo in poco tempo, è arrivato alla Juventus, il massimo per ogni giocatore, e ha perso il senso della modestia. Durante le ultime faticosissime partite, Andrea è accolto da fischi, da cori di scherno. Un giorno, alla fine di un allenamento, un tifoso juventino arriva a mollargli un ceffone, tanto per ricordargli la sua condizione di privilegiato e per fargli ritrovare la strada smarrita del sacrificio.
È l’inizio del calvario. Si trova presto una spiegazione a quel vuoto dentro, purtroppo, così come per quella febbre persistente che si insinua nel suo organismo, provocandogli un continuo senso di spossatezza. Andrea si fa visitare, ma tutto sembra normale, il suo rendimento, però, continua a peggiorare. Il 20 maggio del 1994 Andrea è ricoverato in isolamento, presso la Divisione Universitaria di Ematologia delle Molinette di Torino. Dopo successivi esami medici, il risultato è agghiacciante: leucemia acuta linfoide!
«Può farcela – dicono i medici – Andrea è giovane, la sua tempra robusta lo aiuterà». Ma l’ottimismo di facciata è una pietosa bugia. Gli specialisti sanno bene che solo un trapianto con un donatore compatibile potrà restituire la vita a quel ragazzo coraggioso, assistito dalla fidanzata, Lara, e da mamma Lucia e papà Giuseppe, che è cardiologo all’ospedale di Salerno e che ha l’immediata percezione del dramma. Tre settimane di terapia intensiva. Un netto miglioramento, valori verso la normalità. L’organismo combatte, i globuli bianchi in eccesso spariscono, tecnicamente si parla di remissione completa della malattia.

EMANUELE GAMBA, DAL “GUERIN SPORTIVO” DEL 29 GIUGNO – 5 LUGLIO 1994
È passato giusto un mese, un mese di tormenti, da quando Andrea Fortunato è entrato all’ospedale Molinette, ha ricevuto la notizia più terribile della sua vita, è stato rinchiuso in una camera asettica a combattere contro la malattia più perfida del mondo, quel male che ti sorprende senza avvisarti, che ti coglie alle spalle e ti frega sul tempo: la leucemia.
Andrea è ancora lì, con i capelli rapati quasi a zero, con un grembiule a coprire quel corpo che sta lottando; e non siamo neanche al primo tempo, non c’è ancora l’intervallo, non è finita. Un mese fa. Fortunato ha cominciato la chemioterapia. Un sistema molto moderno, inventato dai tedeschi e subito adottato dal professor Alessandro Pileri, primario del reparto di immunologia delle Molinette: «Al momento, non è stata scoperta una cura migliore. In questo campo, la ricerca è avanzatissima. Fortunato può disporre dell’alleato più forte che ci sia». Ma, dopo appena un mese, è ancora presto per sapere se il terzino della Juve ce la farà e quando ce la farà. Sabato 18 giugno ha smesso con la chemio: oggi nel suo sangue non ci sono più globuli bianchi, sono stati azzerati per evitare che la leucemia li trasformasse in particelle assassine. È il periodo più difficile, questo: l’isolamento è ormai rigidissimo, perché il corpo di Andrea non dispone più di difese immunitarie, è una porta spalancata a ogni malattia, un raffreddore può trasformarsi in una polmonite. Per questo i germi devono stare fuori da quella stanza, che è il nuovo campo di gioco di Fortunato. Almeno, lui lo vede così: «Sto imparando a prendere a calci questa maledetta leucemia», fu la prima frase che disse. Mai come quella volta il calcio è stato metafora di vita azzeccata, non retorica. Vera.
Da quel momento, su Fortunato è calato un ossequioso e logico silenzio, appena scalfito da qualche dichiarazione rassicurante («Aspettatemi, tornerò»), oppure dalla telefonata in diretta all’ultima convention estiva della Juventus, al Comunale di Torino: «Mi sto facendo un po’ di ferie. Non approfittate della mia assenza, mi raccomando». Ma da quel bunker è filtrata soprattutto la grande forza di reazione del paziente-calciatore, di un uomo accusato dai suoi tifosi di essere un lavativo. «In malattie come queste, la solidità di carattere e la voglia di lottare possono contribuire in maniera determinante all’evoluzione positiva della malattia» hanno spiegato i medici. Aggiungendo che Fortunato ha reagito alla grande: da atleta, da uomo.
Adesso bisogna aspettare ancora. Una decina di giorni almeno, cioè il tempo necessario perché nell’organismo di Fortunato comincino a riformarsi i globuli bianchi. La «fabbrica» è il midollo spinale, bisogna vedere la qualità di ciò che produrrà. Se i nuovi globuli non saranno ancora sani, esiste la possibilità del trapianto di midollo, esiste la possibilità che Giancarlo Marocchi e Lorenzo Minotti scendano direttamente in campo, essendo loro volontari dell’Admo, l’associazione dei donatori di midollo presieduta da Rita Levi Montalcini. «Tifo per Andrea» ha detto Marocchi, «tifo perché non ci sia bisogno del trapianto. E tifo per due vittorie: quella contro la malattia e quella contro l’indifferenza. Sono sicuro che la sofferenza del mio compagno avrà un risvolto positivo, perché convincerà tanta gente a iscriversi all’Admo. A cominciare da noi calciatori: prima, nessuno aveva mai voluto fare nulla».
Dieci giorni, dunque, da trascorrere in apnea, in attesa di notizie. Anche perché la famiglia Fortunato (il papà di Andrea è un cardiologo) ha chiesto ai medici silenzio e riservatezza sulla vicenda. Ma presto arriverà il primo bollettino. Come la comunicazione di un risultato: chissà se Andrea sta vincendo, alla fine del primo tempo?

«Voglio farcela, voglio vincere questa guerra terribile», dichiara il giocatore. Ma la battaglia è ancora lunga. I medici non riescono a reperire, in tutto il mondo, un donatore compatibile per il trapianto. Sono solo tre i potenziali donatori, ma tutti troppo lontani. Così il 9 luglio si tenta un’altra strada. Fortunato è trasferito a Perugia, al Centro Trapianti diretto dal dottor Andrea Aversa e dal professor Massimo Martelli. Sono passate sette settimane. Nel giorno del suo 23° compleanno, il 26 luglio, gli vengono infuse le cellule sane della sorella Paola, opportunamente “lavorate”. Poi seguono altri due innesti. Ci vorranno un paio di settimane per avere certezza che il midollo si sia spontaneamente rigenerato. L’11 agosto si annuncia come un’altra data importante: Fortunato è trasferito in un reparto pre-sterile. Combatte, fino a quando le forze lo sorreggono. Parla al telefono con i compagni, può leggere qualche giornale “sterilizzato”, segue la sua Juve in TV. Andrea si è ormai reso conto che la battaglia è più dura del previsto, però scova insospettabili forze.
Poi, dopo Ferragosto, il primo crollo. Il suo organismo non ha assorbito le cellule della sorella Paola. Il rigetto fa ripiombare Andrea nella disperazione. Si tenta ancora, si spera in un altro miracolo. Papà Giuseppe prova a donargli le cellule del suo midollo. Ad Andrea inizialmente non lo dicono, si parla di normali terapie. Eppure la seconda infusione sembra miracolosamente attecchire, anche se preoccupa una febbre persistente. Il fisico reagisce bene, Fortunato torna in un reparto “normale”, può perfino iniziare una riabilitazione in palestra. Il 14 ottobre lascia la camera di ospedale. I compagni (Ravanelli, Vialli e Baggio, su tutti) lo incoraggiano, lo tempestano di telefonate: «Ti aspettiamo». L’ottimismo si fa nuovamente strada.
Andrea esce dall’ospedale, si ricongiunge, addirittura, ai compagni di squadra e li segue durante la trasferta a Genova, in occasione di Samp-Juve giocata il 26 febbraio del 1995. È emozionante vederlo sulle tribune dello stadio Marassi, felice come un bambino, a tifare per la sua amata Juventus.
Quando tutti cominciano a pensare che stia vincendo la sua battaglia, arriva una maledetta influenza a spezzare il filo della speranza. Il 25 aprile, alle otto di sera, Andrea muore. I compagni di Nazionale apprendono la notizia mentre sono a Vilnius alla vigilia di una partita contro la Lituania. Prima di giocare, si osserva un minuto di silenzio in sua memoria.
Poche settimane dopo la Juventus festeggia il suo 23° scudetto; 23 come gli anni di Andrea.

MAURIZIO CROSETTI, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL MAGGIO 1995
La sua voce era ferma, tranquilla, appena increspata dalla febbre. Andrea Fortunato voleva raccontare la sua terribile esperienza, la sua fiducia nuova, la sua vita che – lui ne era certo – stava ricominciando. Era la sera del 23 marzo, parlammo al telefono. Avevamo deciso insieme di pubblicare l’intervista sola a guarigione avvenuta, su Repubblica e Hurrà Juventus. Così desiderava Andrea. Ecco il testo di quell’ultimo colloquio.
– Undici mesi di malattia: ce li racconti?
«È stata una cosa lunga, infinita. Ma di tremendo, a parte i periodi di grande crisi fisica, ci sono stati solamente i primissimi momenti; dopo ho combattuto. Invece, all’inizio è stato diverso; il giorno prima stavi fra i sani, il giorno dopo passi fra i quasi incurabili. Non si può descrivere che cosa si prova».
 Come si reagisce?
«Ti senti perduto e, nello stesso tempo, diventi curioso, è una sensazione strana. Vuoi sapere ogni cosa della tua malattia, ti interroghi sui sintomi, sulle cause, sulle possibili conseguenze. Sai che non ti diranno tutto, provi a indovinare le bugie, ma poi fingi di crederci, ti convinci che è meglio, altrimenti impazzisci. Quando un medico ti spiega quali sono i sintomi della leucemia ti senti sprofondare; e più parla, più tu capisci che tutto corrisponde, che è davvero il tuo caso. In quel momento il male ti prende in ostaggio; ma tu devi impedirgli di ammazzarti».
 Come ci si può riuscire?
«Con l’aiuto di Dio e dei medici, ma anche con un pensiero fisso: ce la devo fare. Me lo ripetevo ogni giorno e me lo ripeto ancora; neppure per un istante ho pensato che avrei perso la partita. Lo chiamano atteggiamento positivo, pare sia una mezza medicina».
 Vuoi fare ancora il calciatore?
«Questo è un pensiero che non mi ha mai abbandonato. Mi sono sentito un atleta anche nei giorni più difficili, quando ero più di là che di qua. Ho lottato con spirito sportivo, si può dire che non mi sono mai tolto la maglia di dosso. Rimetterla davvero, ma non solo; ho chiesto, mi sono informato, mi hanno spiegato che tanti atleti sono tornati all’attività dopo la leucemia. Credo, spero che ci riuscirò».
 Come cambia la vita, dopo un’avventura del genere?
«Cambia tutto. Ti costruisci una scala di valori nuova. Dai importanza alle cose che valgono davvero. Non te la prendi più per le sciocchezze. E capisci che l’amicizia è la prima cosa: io, per esempio, ho un fratello in più. Si chiama Fabrizio Ravanelli. È stato incredibile, mi ha messo a disposizione una parte della sua vita, non solo la sua famiglia e la sua casa di Perugia. Non si può dire con le parole. Ecco perché il giorno più bello, in questi mesi di malattia, l’ho vissuto quando lui ha segnato cinque gol al Cska, in Coppa: quella sera ho capito davvero che cos’è davvero la felicità. Ed è stato bellissimo vedere Fabrizio esordire in Nazionale proprio a Salerno, la mia città».
 Ti sono servite le vittorie bianconere?
«Non solo quelle, ma la costante presenza dei compagni e della società. Un’altra famiglia, davvero. Se sono vivo lo devo anche a loro, al loro affetto».
 C’è un momento, di questi mesi, che ricordi con particolare intensità?
«L’uscita dall’ospedale a Perugia, dopo il secondo trapianto. Non mi sembrava vero. Vedevo diverse tutte le cose, mi parevano straordinarie anche le più insignificanti. Non immaginavo quanto potesse essere meravigliosa anche una semplice passeggiata».
 Cosa insegna la malattia?
«Che nella vita c’è di peggio di uno stiramento che ti tiene fuori dal campo per due settimane. Che ogni giorno muoiono bambini leucemici senza che nessuno lo sappia e senza che si possa fare nulla. Che in Italia abbiamo i migliori medici del mondo: a Perugia vengono a imparare le nostre tecniche dall’America, da Israele, dalla Francia. Però, le strutture sono quelle che sono, mancano gli spazi, c’è gente in coda da mesi per un trapianto. Bisogna donare il midollo, senza paura, perché questo salva la vita agli altri e dà senso alla tua».
 Il tuo sogno?
«La leucemia mi ha insegnato a non fare progetti a lunga scadenza e neppure a media. Non per paura, per realismo. La prima volta che programmai il ritorno a Torino, mi alzai la mattina con la febbre. Nulla di grave, per fortuna, ma ci rimasi male. Vivere alla giornata non è una sconfitta, semmai un modo per apprezzare davvero la vita in ogni attimo, in ogni minima sfumatura. È quello che farò».

RICCARDO AGRICOLA
Caro Andrea, non ti nascondo che quando sei morto, pochi giorni fa, mi hai fatto molto  arrabbiare. «E perché mai?», potresti chiedere. Pensaci, Andrea: intanto hai provocato involontariamente in tutti noi un grande dolore, e poi ci hai privato del tuo quotidiano esempio di coraggio nell’affrontare un avversario che, credimi, si è rivelato insuperabile. Un coraggio, sicuramente superiore al mio che pure, se non affettivamente, non ero parte in causa. 
Vuoi degli esempi? Ti ricordi, allora, quando il professor Pileri ti comunicò, quel maledetto giorno, con tatto ma senza parafrasi, che avevi la leucemia? Ebbene, fui io ad abbassare gli occhi, mentre un brivido mi scorreva nel corpo. Tu, invece, rispondesti senza esitazioni: «Quando si cominciano le terapie?». E ti ricordi ancora quando, ad agosto, ti venni a trovare nel reparto del caro Franco Aversa? Stavi molto male. Ed io, timidamente (perché non sapevo cosa dirti), ti chiesi come ti sentivi. Tu, per incoraggiare me, mi dicesti con un sorriso che proprio bene non stavi, ma che presto sarebbe stato diverso. E poi da quel giorno, altri giorni di speranza, poi di delusione, di speranza ancora, ma tutti affrontati con il grande desiderio di vivere.
Addio Andrea, con rabbia: perché se tutti dobbiamo morire, non è comunque giusto morire così.

1 commento:

Anonimo ha detto...

...Ciao Andrea. Domani farò la mia donazione di midollo. E sarà dedicata a te, dal momento che la decisione di iscrivermi la presi da ragazzetto, il tragico giorno della tua morte.