giovedì 31 gennaio 2013

Francesco LA NEVE


Il 22 febbraio 1986, ben prima dell’alba – scrive Franco Badolato su “La storia della Juventus” di Perucca, Romeo e Colombero – la Juventus ha perso uno dei suoi uomini più importanti e più fedeli. Dopo ventun anni trascorsi con i bianconeri (aveva preso in cura i giocatori nel 1965, il tempo di Heriberto Herrera), moriva alle 4.30’ per infarto il dottor Francesco La Neve, 53 anni non ancora compiuti, attento non solo ai calciatori ma a tutti gli atleti della Sisport (Centro Sportivo Fiat), laureatosi nel 1959 con successiva specializzazione in fisiochinesiterapia, direttore dell’«Italian Journal of Sport Traumathology», sul quale riportava le sue esperienze, animava dibattiti.
Un uomo dolce e buono, un medico che badava molto alla salute altrui e molto poco alla propria. La sera prima, venerdì 21 febbraio, sino alle 20.30’ aveva discusso con Boniperti, Trapattoni, Giuliano e Morini delle condizioni fisiche della squadra in partenza per Bari. Nella notte, il k.o. improvviso. Vane le cure della moglie Graziella, medico anch’essa, inutile la corsa dell’ambulanza all’ospedale delle Molinette. A casa, il figlio Carlo Alberto restava solo, disperato.
Moriva così, in pochi minuti, un personaggio saliente di vent’anni di Juventus. Solo una settimana prima ci aveva concesso una intervista per questa «storia bianconera». Era interessato, si era appassionato all’idea. Ma più che raccontare di se stesso, aveva voluto parlare della professione in generale, di problemi non solo suoi, aveva espresso preoccupazioni per gli altri, secondo la sua regola di vita. Riportiamo per intero le sue parole. Il modo meno retorico, e più affettuoso, per ricordarlo.
Dottor La Neve, che cosa vuoi dire svolgere la delicata funzione di medico in una società di calcio?
«È una grossa responsabilità perché va bene che la nostra è una missione e che tutti i pazienti sono uguali, ma avere contatti con professionisti che valgono miliardi diventa un’impresa ardua. Se il medico, con tutte le incertezze di questo mestiere, non deve ‘mai sbagliare’, qui si è esposti prima di tutto al giudizio del pubblico. So che molti colleghi invidiano la mia posizione all’interno di club gloriosi come la Juventus. Ma questa è una vita di sacrifici. In vent’anni non ho mai avuto, dico mai, un sabato e una domenica liberi. In estate sono riuscito a fare, al massimo, un periodo di ferie di quindici giorni. Soprattutto, mai quando volevo.
Perché, allora, si accetta un incarico come quello che lei svolge da tanti anni alla Juventus?
«Si accetta perché uno si innamora dell’ambiente che è come una famiglia, con grandi problemi e solo apparentemente serena. Voglio dire che, come la prima famiglia, anche questa diventa parte integrante della propria vita. Non nascondo che molti problemi scompaiono però entrando ogni giorno nello spogliatoio, la seconda casa.»
Si ritiene un medico prudente o spregiudicato?
«Mi ritengo prudente ma credo di sapermi assumere certe responsabilità. Voglio dire che è più facile dire nell’intervallo di una partita che un giocatore non è in grado di continuare, ma a volte bisogna invece considerare che quel calciatore è indispensabile alla squadra e, se non c’è pericolo di lesioni, occorre convincere lui e l’allenatore che può continuare.»
Per il dottor La Neve, in una società di calcio come la Juventus e in genere nell’ambiente sportivo, il medico era un collaboratore dell’atleta e dell’allenatore e doveva rimanere il più possibile in disparte. Lui era stato così. Appena poteva raggiungeva il suo buen ritiro, una valvola di sfogo della sua stressante attività, nella tenuta di Montegrosso d’Asti. Una cascina (La Vernetta), un vigneto, la Barbera, tipico prodotto di una terra che, sottolineava «... ha uguali forse soltanto in alcuni scorci dell’Umbria.»
Un suo cruccio era la prevenzione antinfortunio negli stadi: «In questo campo» affermava «siamo ai livelli di un paese sottosviluppato, perché se in una struttura dove si aggregano centomila persone si verifica un malore manca l’assistenza minima, non c’è pronto soccorso, centro di rianimazione con infermieri professionali, anestesisti, non possiamo che assistere impotenti alla morte del malcapitato. Senza contare che nessuno stadio in Italia ha corsie libere, adatte a un pronto intervento.»
Nel suo caso, purtroppo, neppure il rapido e appassionato soccorso della moglie è valso a salvargli la vita.


MARIO BRUNO, “HURRÀ JUVENTUS” MARZO 1986
In questo spazio Francesco La Neve ha risposto per anni ai lettori con la mia minima collaborazione. La rubrica era nata con l’intento di farne una cosa seria, nel senso più professionale della parola, ma giorno dopo giorno il commentare gli scritti degli appassionati era diventato una sorta di piacevole colloquio, un salotto garbato, una bella ed attenta disamina dei problemi a sfondo bianconero, che partiva spinta dall’habitus dottorale, ma che si stemperava subito in un caldo discorso.
Era sinceramente bello, umanamente interessante, «rubare» la mezz’ora a Francesco la sera a casa, od il mattino prima che il medico, ancora nella veste del padre, accompagnasse il figlio a scuola, oppure al pomeriggio alla Sisport Fiat. Era bello e divertente, perché Francesco aveva il gran dono della semplicità.
Interrogandolo, c’era la certezza di ricevere un qualcosa di impercettibilmente importante. Era quel senso di vitalità che lui intravedeva in ogni cosa e che lo rendeva credente ad ogni costo.
Nel ricordarlo oggi, con autentica difficoltà per l’affetto che nutrivo nei suoi confronti, spero di riuscire ad evidenziare almeno in parte questa sua splendida dedizione alla vita ed agli uomini.
C’era una cosa che mi piaceva più di tutte: la sua correttezza, la sua moralità, il suo impegno quasi cieco verso valori assoluti, che gli impedivano di accettare le mezze misure e i falsi, i compromessi. E questa interpretazione della vita aveva finito con il trasmigrarla nella sua attività di medico sociale bianconero, unendone i valori, per cui la Juve era diventata il simbolo di una precisa scelta dove tutto diventava «primo».
Proprio su Cabrini gli avevamo rivolto di recente una domanda. Com’era mai possibile cioè che il terzino fosse stato in grado di scendere in campo, nel girone d’andata, a Udine, con cinque punti di sutura di freschissimo conio sulla testa? «Perché Antonio è fatto così. È un uomo vero, un leader, un combattente. Non possono essere cinque punticini a tenerlo lontano dal proprio campo di battaglia».
Di Scirea apprezzava invece l’equilibrio: «Un ragazzo che sarà sempre felice nella vita perché ha dentro di sé valori morali di rara bellezza».
Affascinato dai condottieri, anche se in possesso di armi diverse e di personalità contrastanti, aveva invece un metro di valutazione più universale per parlare di Platini: «Noi della Juve qui non abbiamo fatto scuola, non abbiamo costruito il campione, non abbiamo scolpito l’uomo. È arrivato con i suoi valori personalissimi e li ha affermati perché ha incredibile bravura».
Profondo conoscitore degli uomini, Francesco non era – lo avrete capito a questo punto – soltanto un medico, ma una sorte di pater familias. Questa capacità di individuare, interpretare e analizzare la matrice umana si era tradotta nel tempo in un vero e proprio pozzo di suggerimenti per la società stessa. Legato da un’amicizia profonda con il presidente Boniperti e con l’allenatore Giovanni Trapattoni, La Neve era in sintesi l’uomo in più, un consigliere atipico e insostituibile.
Gli piacevano di conseguenza i simboli vincenti, quegli uomini che con l’esempio e l’abnegazione avevano scritto pagine di storia genuina. Era un tifoso morale di Dino Zoff: «Dino è unico, Dino è grande, Dino è l’esempio che l’uomo può raggiungere traguardi più lontani di quanto non dica la medicina stessa. Soltanto Dino, per assurdo, sa dove può arrivare, perché i suoi valori hanno ribaltato i valori convenzionali. Già, ma Dino non è un uomo convenzionale…».
Ma era anche sulle barricate con Beppe Furino: «La bandiera, la sofferenza, l’umiltà… mescolate tutti questi ingredienti e verrà fuori Beppe, un eterno. Perché sarà così anche quando smetterà di giocare».
E tra gli ultimissimi bianconeri, Brio, Cabrini e Scirea gli dicevano qualcosa di più degli altri.
Brio rappresentava il divenire della «sua» medicina: «Se questo sfortunato ragazzo si fosse infortunato in quel modo – quattro lesioni nello stesso istante, giocando un’amichevole a Vado, si chiama, clinicamente parlando, sindrome della sfortuna – anni addietro, sarebbe stato praticamente impossibile ricostruirlo. Ma la medicina cammina, anche se ha costantemente bisogno della fiducia del paziente. E Sergio è stato grande nel soffrire in silenzio per mesi e mesi e nel riuscire a trovare in quei frangenti la forza di credere. È stato premiato, giustamente. Per questa incredibile vittoria meriterebbe in un domani la convocazione in nazionale…».
Cabrini lo considerava invece l’ultimo baluardo di un certo tipo di genie bianconera, quella della penultima generazione, quella del mundial.
Aveva terapie particolarissime, aveva persino inserito il famigerato bicchiere di vino sulla tavola del giocatore «perché nel vino c’è il ferro e un goccio non fa assolutamente male». Era famosa, inoltre, la dieta dell’uovo che propinava ai più cicciottelli quando la squadra riprendeva le ostilità stagionali a Villar Perosa. Pur fumando la pipa era un gran nemico del fumo «che negli atleti riduce la capacità aerobica»…
Aveva in sintesi dieci, cento, mille consigli per tutti. Un uomo così non potrà mai essere dimenticato.

2 commenti:

Emiac ha detto...

Avevo intervistato il Dr. La Neve all'aeroporto Charles De Gaulle di Parigi in attesa di imbarcarci per Tokio dove l'8 maggio di 30 anni fa la Juve conquistò la Coppa Intercontinentale. Soltanto due mesi dopo, prima di partire per Bari dove effettuai la radiocronaca dallo stadio della Vittoria della gara Bari Juventus, appresi la notizia della sua morte. Rimasi sgomento per una fine così tragica e repentina. Lo ricordammo con un minuto di raccoglimento ed io gli dedicai tutto il mio pezzo introduttivo alla gara. Una persona estremamente cordiale di una disponibilità unica. Era diventato il simbolo, assieme a Boniperti, Scirea e Platini, di una Juventus forse irripetibile. Gianfranco Accio radiocronista dei bianconeri dal 1980 al 2000

Emiac ha detto...

Mi scuso ma rileggendo il mio commento ho sbagliato la data della finale. Era l'8 Dicembre 1985 non l'8 Maggio.