domenica 19 maggio 2013

AJAX - JUVENTUS


DA “LA STORIA DELLA JUVENTUS” DI PERUCCA, ROMEO E COLOMBERO:

Alla Coppa dei Campioni 1972/73 la squadra bianconera si presentò dopo aver aggiunto alla rosa che l’aveva portata al titolo il portiere della Nazionale Dino Zoff ed il centravanti del Napoli (e del Brasile Campione del Mondo 1958) José Altafini. Le speranze di Boniperti ed Allodi non andarono deluse. La squadra, giovane ma non del tutto priva di esperienza, marciò a lungo spedita sul doppio fronte del campionato e della Coppa dei Campioni.


In campo continentale la squadra bianconera si sbarazzò agevolmente, al primo turno, dei non irresistibili francesi dell’Olympique Marsiglia (che schieravano, fra l’altro, quel Roger Magnusson che abbiamo incontrato come straniero di Coppa juventino nel 1968/69); soffrì non poco per venire a capo della tenace resistenza dei tedesco orientali del Magdeburgo, piegati col minimo scarto sia all’andata (1-0: Anastasi) che al ritorno a Magdeburgo (1-0: Cuccureddu).

Drammatico anche il superamento dei quarti, contro gli ungheresi dell’Újpest Dózsa. Chiusa con un pericolosissimo 0-0 la gara di andata a Torino, i bianconeri rischiarono il tracollo con 15’ di streghe al ritorno, a Budapest, al termine dei quali si ritrovarono sotto di due goal. Trascinata da Anastasi, Altafini e dal solito Furino la Juve reagì con grande caparbietà ed acciuffò col brasiliano e col siciliano un 2-2 che, grazie ai goal in trasferta, la spedì in semifinale.

In cui le toccarono i terribili inglesi di Brian Clough, il Derby County. Con una straordinaria prestazione nella gara di andata a Torino, la Juve si assicurò un 3-1 (firmato da una doppietta dello strepitoso Altafini e da Helmut Haller). Nella gara di ritorno Zoff e compagni controllarono senza mai andare in autentico affanno, con grossa personalità, il risultato. E portarono a casa lo 0-0 che voleva dire finale (la prima nella storia della Juve) grazie anche ad un calcio di rigore fallito dallo specialista Hector.

Ma la partita ebbe un inquietante retroscena venuto alla luce solo dopo la disputa della finale. Prima della partita di ritorno l’arbitro Lobo era stato avvicinato da un certo Deszo Solti (un profugo ungherese che gravitava nel sottobosco del calcio milanese ai tempi della “Grande Inter”) che gli aveva promesso una lauta ricompensa per dare una mano alla Juventus nella sua corsa verso la finale. Lobo denunciò tutto all’Uefa che condusse un’inchiesta al termine della quale scagionò completamente la società bianconera, non essendo emersa alcuna connessione fra l’operato del Solti ed il club torinese.

E venne il giorno della finale: dall’altra parte l’avversario più ostico che si potesse immaginare per i bianconeri, quell’Ajax che, costruito pezzo dopo pezzo da Rinus Michels, il santone del calcio olandese e guidato con grande maestria da Stephan Kovacs, un poliglotta rumeno addottorato e pieno di fascino, aveva nelle sue file quel Johan Cruijff che ha rappresentato, almeno fino all’esplosione di Michel Platini, l’espressione più completa che il calcio europeo abbia saputo fornire.

Ed attorno a Cruijff giocatori di grandissimo talento come Krol e Neeskens, Haan e Suurbier, Rep ed Hulshoff, e tutti gli altri. In quel momento l’Ajax non era soltanto uno squadrone: era soprattutto l’espressione di una scuola innovatrice, quella del “foot-ball total” destinata a rappresentare una svolta per l’intero calcio mondiale, con l’introduzione dei valori della potenza, della velocità, del movimento continuo non più in subordine alla componente tecnica. Un calcio fatto anche di una modernissima impostazione tattica e che toccava vertici organizzativi elevatissimi grazie anche alla polivalenza dei suoi atleti. Un calcio che avrebbe vissuto da protagonista (ancorché sfortunato) anche i Mondiali dell’anno dopo in Germania, vinti dalla squadra di casa ma passati alla storia come i mondiali dell’Olanda.

A Belgrado l’Ajax era arrivato seminando per strada avversari come il Cska di Sofia, Bayern e Real Madrid. Ma soprattutto, Cruijff e soci avevano vinto le due precedenti edizioni della Coppa dei Campioni, erano alla quarta finale in cinque anni. La partitissima, che dette vita al più massiccio esodo di tifosi (oltre 30.000 gli italiani a Belgrado, non meno di 15.000 gli olandesi, con non meno “birra in corpo” dei loro giocatori) visse più attese che storia. La decise un goal di testa di Rep dopo 4’. La Juve, letteralmente “groggy”, non seppe mai autenticamente reagire. Cruijff e compagni gelarono e controllarono il gioco più facilmente di quando potessero legittimamente sperare. E la Juve tornò a casa inebetita, con dentro qualcosa di più di una semplice delusione.

«Quell’Ajax era fortissimo», racconta Giampiero Boniperti, «ma noi gli facilitammo il compito con una serie di errori che ci condizionarono soprattutto psicologicamente: il lunghissime ritiro innanzitutto, in un luogo isolato e tetro. Il riscaldamento pre partita effettuato in un campetto laterale, in modo che i giocatori al loro ingresso in campo, in uno scenario struggente, furono letteralmente paralizzati dall’emozione. Per 20 minuti la Juve non toccò palla».

«Ho giocato centinaia di partite a tutti i livelli», racconta Roberto Bottega, «ma quella di Belgrado è l’unica della quale io non sappia spiegare nulla. Il che la dice lunga sullo spirito con cui l’affrontammo».

L’allenatore Stephan Kovacs racconta invece un retroscena curiosissimo, in parte forse romanzato, ma che certamente ha un grosso fondo di verità: «In vista dell’impostazione tattica della finale di Belgrado», ha detto Kovacs, «ho potuto giovarmi concretamente delle note che un giovane allenatore turco aveva preso nel corso delle due semifinali fra Juventus e Derby County. Note in cui aveva riprodotto fedelmente gli schemi attuati dalle due squadre. Su quelle note, su quel che vidi io nella partita di Roma che consenti alla Juve di vincere lo scudetto, predisposi una partitella preziosissima, disponendo la squadra allenatrice, una selezione militare di Belgrado, esattamente come la Juve, sia nella variante a due che in quella a tre punte. Sicché in campo non si verificò nulla che non avessimo previsto».

Al di là della forza dell’avversarlo e della consumata esperienza del suo tecnico, la Juve pagò anche l’inesperienza globale della squadra e certi romantici eccessi offensivistici (attacco a tre punte, rinuncia a Cuccureddu, l’uomo più in forma dell’ultimo scorcio di stagione) che facilitarono il compito di una squadra che non aveva certo bisogno di aiuti.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Nessuno ricorda il "movimiento" di Heriberto Herrera, precursore del calcio totale?