Ci sono ruoli che sembrano fatti apposta per persone strambe – afferma Gianni Giacone su “Hurrà Juventus” del settembre 1974 –. Strambo non significa incosciente, per carità: ma certo il portiere non è, non può essere proprio come gli altri. Combi, per esempio, era diversissimo: in campo come nella vita. Lo stile del portierissimo del quinquennio non era lo stile di Orsi, di Monti, neppure degli amiconi Rosetta e Caligaris. Era eleganza unita a imperturbabilità, con un pizzico di irrazionalità. Non parliamo, poi, del primo grande portiere del dopoguerra, Sentimenti quarto detto Cochi: qui il ricordo è più recente, soccorre una ricca aneddotica, anche il supporter ricorda certi particolari illuminanti in proposito. Ecco, Sentimenti era forse l’esempio più classico del portiere come “tipo” a parte: carattere specialissimo, agilità felina, riflessi prontissimi, con il pizzico di stramberia rappresentato nella fattispecie dalla vocazione rigoristica e dalle divagazioni all’ala.
A questo punto, se il lettore non si sarà ancora stufato, introduciamo finalmente il discorso-Alessandrelli. E lo introduciamo per contestare la regola di cui sopra: Giancarlo, infatti, che torna alla Juve dopo due anni di prestito, è incredibilmente, straordinariamente, eccezionalmente un calciatore normale, pur essendo incontestabilmente un portiere. E un ottimo portiere, anche. La scoperta è piacevole, non c’è che dire: e prelude forse a epoche nuove, di razionalità assoluta nel gioco del pallone. Alessandrelli, detto Alex, ha ventidue anni. Alla Juve, dove ha fatto ritorno dopo due ottime stagioni alla Ternana e all’Arezzo, ha davanti a sé un certo Dino Zoff, che notoriamente concede assai poco ai suoi “secondi”. Ma di questo, Alex non si preoccupa minimamente. «Sono contento – dice – perché Dino è uno dei più grandi portieri del mondo, e da lui posso imparare molto».
Ecco, abbiamo anche trovato il modo di iniziare la chiacchierata con il giovanotto.
Alessandrelli è nato a Senigallia, provincia di Ancona, il 4 marzo 1952, ma è praticamente romano, essendosi trasferito nella capitale alla tenera età di un anno. E allora, come viene fuori questa storia della Juve? Fatalità, predestinazione o cos’altro? «Una fortunata coincidenza: a dodici anni giocavo già portiere, e nell’Ostiense mi feci le ossa. Presidente di quella società era a quei tempi Anzalone, attuale presidente della Roma e già allora consigliere della società giallorossa. Fu lui, nel 1967-68, a lasciarmi andare alla Juve, che con altre società si era fatta avanti per acquistarmi. Perciò, gli devo riconoscenza».
Da allora, Alex ha compiuto la lunga trafila delle minori con gli Allievi, poi Juniores, e nel 1971-72 campione d’Italia con la squadra “Primavera” e contemporaneamente terzo portiere della prima squadra. È un anno importante, questo, per Alessandrelli. Tra l’altro, due splendide partite di finale Primavera con la Roma lo additano ai tifosi come portiere d’avvenire. Veramente, anche la stagione 1970-71 era stata nel finale prodiga di soddisfazioni, per il giovanotto. Il Trofeo Picchi, alle porte dell’estate, con l’apparizione in prima squadra: ma lasciamo l’interessato a ricordare. «Fu una cosa magnifica: nel giugno 1971, a diciannove anni, mi trovai di colpo proiettato in prima squadra! E come se non bastasse, di fronte al pubblico romano, all’Olimpico gremito di folla. Ricordo che fui molto incitato, in quella partita che vincemmo contro il Cagliari per 2-1. Un ricordo magnifico, una delle soddisfazioni più grandi della mia vita. Certo, anche l’anno dopo le cose andarono piuttosto bene: tra l’altro, ancora a Roma, feci un’ottima partita con la Primavera. E poi, entrai più direttamente a contatto con l’ambiente della prima squadra, in un campionato prodigo di soddisfazioni».
Le avventure di Alex cambiano per un po’ sfondo e contorni: il 1972-73 è l’anno del primo prestito, delle prime grosse opportunità. A Terni, città inedita per la serie A, dove Viciani predica il gioco corto che ha portato la promozione, Alessandrelli viene buttato nella mischia. «È stato un anno piuttosto importante per me, quello di Terni: l’anno del salto in serie A, senza particolare esperienza mia. Un salto, forse, un po’ troppo brusco. Tante cose, alla lunga, mi impedirono di rendere al meglio. Tra l’altro, ero militare Ma anche il pubblico non mi aiutò molto, criticandomi parecchio a ogni errore. Fu l’inizio di stagione a riservarmi le massime soddisfazioni: a Cagliari, in Coppa Italia, giocai assai bene, e alla fine Fabbri e Maraschi vennero negli spogliatoi a congratularsi con me».
Sono attimi di gioia, la realtà non è sempre allegra; anche Geromel e Tancredi, gli altri portieri, soffrono un ambiente parecchio esigente, che non si rassegna a una squadra partita bene e finita nei meandri della retrocessione. Comunque, a Terni, Alessandrelli stabilisce un piccolo record, esordendo in serie A a venti anni. Chi in tempi recenti è stato capace di fare altrettanto? Nessuno, probabilmente. La leggenda di Combi tremendo già da ragazzino è lontana, e proprio perché leggenda non fa testo. Nel malumore di una stagione forse non come era nelle aspettative, Alex trova in questo un sufficiente motivo di conforto.
Dai malumori di Terni al campionato-rilancio in quel di Arezzo, il passo è breve. Il 1973-74 di Alessandrelli è anno da 32 presenze in campionato, e c’è pure una manciata di gettoni in Coppa Italia: un anno, dunque, di grosse opportunità. «L’inizio, per la verità, è stato un po’ incerto, titubante direi quasi. Il momento più bello per me è venuto dopo le prime partite: a parte qualche infortunio che mi ha tenuto lontano dal campo nel finale, non ho più praticamente abbandonato il posto di titolare».
Un anno da titolare in serie B impone dovute considerazioni di ordine tecnico: Alex accumula prestazioni di ottimo livello, e i giudizi sul suo conto sono largamente positivi. ì questo spilungone ha quanto si domanda a un portiere per essere grande: l’inesperienza che a Terni era costata svarioni facilmente eliminabili e la scarsa considerazione del pubblico più intransigente lascia pian piano il campo; la salvezza dell’Arezzo passa anche attraverso i voli domenicali di questo portiere giovinetto. «La mia gioia è stata doppia: per le mie prestazioni positive nell’arco di un intero campionato, e per l’ambiente in cui mi sono trovato immerso. Una città simpatica, Arezzo, con tifosi cordiali. Non avrei potuto desiderare un’esperienza migliore».
Un anno di A in sordina, ricordi di gioventù o quasi; e poi, un campionato di grande lancio in B. È raro poter vantare un’esperienza così varia ad appena ventidue anni. Quali le differenze? La serie A è davvero un altro pianeta, o è questione di gusti, di adattamento? «Ci sono differenze profonde tra la A e la B, cose che anche un portiere può facilmente toccare con mano. In B è più facile, anche se ti rendono comunque la vita dura, specie su certi campi esterni col pubblico che urla e schiamazza senza tregua. Però, c’è più spontaneità, il gioco è più istintivo, la botta arriva più o meno dove te l’aspetti, magari c’è più lavoro ma è anche più agevole svolgerlo bene. In A la musica è diversa, anche se mi rendo conto che il mio giudizio si rifà a un’esperienza relativamente lontana, cui mi ero presentato praticamente senza un adeguato collaudo dal vivo. In serie A, voglio dire, ci si trova davanti ad autentici marpioni, che magari ti fanno arrivare pochi palloni a partita, ma quei pochi precisi, talvolta diabolici, carichi di effetto».
E siamo al dunque: Alessandrelli è al via del 1974-75 di nuovo nei ranghi juventini. Un ritorno sperato, con la speranza di rimanerci. Si può chiudere con i ricordi, e affrontare al presente il personaggio. Come ti definiresti, rispetto ai colleghi di ruolo? «Non so, non mi sono mai posto il problema. Credo di non somigliare a nessuno in particolare, questo sì. Forse dipende anche dal fatto che a dieci-undici anni, quando i ragazzini col calcio nel sangue già sognano di diventare Rivera o Riva o chissò io, il sottoscritto non cercava di emulare nessun portiere, visto che il mio ruolo preferito era inizialmente di ala destra o centravanti. Come capii che avevo attitudini per stare tra i pali, essendo juventino, mi misi a studiare l’allora portiere bianconero, Roberto Anzolin, di cui ho ammirato (e ammiro, visto che mi risulta giochi ancora) lo stile perfetto».
E Zoff? «Dino è il più forte di tutti, l’ho già detto. Naturale che adesso mi ispiri soprattutto a lui».
Parliamo del tuo carattere. «Mi definirei un tranquillo ottimista, ecco. Non sono per niente superstizioso, ora, ma confesso che all’inizio della carriera avevo anch’io qualche “pallino” in materia di scaramanzia. In particolare, ero convinto che soltanto portando i calzettoni bianchi avrei potuto rendere al meglio. Adesso mi è passata anche questa piccola mania. Sono anche e soprattutto un romantico, e nella musica, specie nei brani lenti, trovo una grande occasione di relax».
Scontata, a questo punto, la domanda sugli hobbies. «Niente di particolare; accennavo prima alla musica: prediligo un po’ tutto il genere moderno, dal pop al folk. In particolare mi piacciono il “sound of Philadelphia” e il “Country” inglese, tipo John Mayall. Vado al cinema come tutti, con una preferenza per i film polizieschi. Piuttosto, d’estate adoro la pesca subacquea, cui mi dedico dalle mie parti, in tanti posti vicino a Roma. Al Circeo, per esempio, scendo sovente in apnea col fucile: è una sensazione favolosa. Ultimo hobby, le automobili potenti: un hobby veramente un po’ in declino, per via dell’austerity. Diciamo che prima mi attraevano di più».
Hai gusti difficili? «Non direi; forse, però, con un’eccezione. Amo moltissimo la buona cucina, e siccome mio padre è un ottimo cuoco, mi definisco una buona forchetta. È però sottinteso che posso concedermi i piaceri della tavola per ben poco tempo, durante l’estate, visto che d’inverno siamo tutti sottoposti ai rigidi menù da calciatori».
Boniperti ha fiducia in lui. «È un giovane fondamentale e qui farà tantissima strada. Ci penserà Zoff a dargli anche tanti e preziosi consigli», dichiara il presidente. Le opportunità che si presentano a Giancarlo non sono molte, qualche partita di Coppa Italia con i giovani della Primavera, quando Dino Zoff e compagni sono impegnati con la Nazionale per la tournée del Bicentenario dell’Indipendenza americana a fine maggio 1976 oppure in Argentina per i Mondiali.
L’esordio in bianconero, con la maglietta grigia e il numero dodici sulle spalle, gli si presenta all’ultima giornata del campionato 1978-79: Juventus-Avellino. Il primo tempo finisce a reti inviolate, grazie anche al giovane portiere irpino Piotti, che salva il risultato in più di un’occasione. Passano dieci minuti dall’inizio della ripresa e Bettega sblocca la partita; passa un minuto e, su un’azione di contropiede, Verza realizza il raddoppio con un preciso tiro a fil di palo. Il Trap, a questo punto, pensa di mandare in campo Alex; durante l’arco del campionato ha fatto esordire ragazzi fondamentali e che percorreranno molta strada nella Serie A: Fanna, Brio e lo stesso Verza, quindi pensa di dare un po’ di gloria anche ad Alessandrelli.
Dopo tantissime giornate, passate in panchina in compagnia dei radiocronisti Roberto Bortoluzzi, Enrico Ameri e Sandro Ciotti e l’inseparabile tuta blu, Alex ha la sua grande occasione.
«Al Comunale si è consumato anche un piccolo dramma per Giancarlo Alessandrelli – scrive Bruno Bernardi su “Stampasera” – al quale Trapattoni, d’accordo con Zoff, aveva concesso, quando il risultato sembrava acquisito, di effettuare un parziale debutto nella Juventus in campionato dopo quattro anni di panchina, intervallati da qualche esibizione in Coppa Italia o in amichevole. La Juventus, dopo il cambio, ha siglato il terzo gol e per Alessandrelli sembrava un pomeriggio tranquillo senza emozioni. Viceversa De Ponti, sfruttando due difettose respinte di Alessandrelli su insidiose punizioni di Tosetto, ha castigato il ventisettenne portiere che, sul terzo punto di Massa (in sospetto fuorigioco), è apparso frastornato. Infierire su Alessandrelli, dopo questi sfortunati ventisei minuti, sarebbe ingiusto: l’essere rimasto così a lungo all’ombra di Zoff ha indubbiamente appannato i suoi riflessi. Al suo vice, l’indistruttibile Dino lascia poco spazio e, di conseguenza, non è facile tenersi pronti e in forma alla chiamata».
«Avevo paura come un ragazzino della Primavera – racconta a caldo negli spogliatoi con le lacrime agli occhi – dopo il primo gol non ragionavo più, ero confuso, io che avevo sempre sognato quel momento».
Non avrà più nessuna occasione, quella stessa estate sarà ceduto all’Atalanta, in cambio di Luciano Bodini.
NICOLA CALZARETTA, DAL “GUERIN SPORTIVO” DELL’11-17 FEBBRAIO 2003
Pensi a Giancarlo Alessandrelli, oggi cinquantuno anni, affermato imprenditore e proprietario di locali in Sardegna e Toscana, e la mente vola subito al 13 maggio del 1979, ultima di Campionato. La Juventus gioca con l’Avellino e sta vincendo per 2-0. Dopo quattro anni da dodicesimo (il numero uno è Zoff) tutti trascorsi in panchina in compagnia di Ameri e Ciotti, Alex viene buttato nella mischia. «Fu De Maria, il massaggiatore, che a un certo punto disse al Trap di farmi entrare. Era la mia ultima partita visto che alla fine della stagione sarei andato via comunque. In mezz’ora presi tre gol. Incredibile, in tutto il primo tempo l’Avellino non aveva mai superato la metà campo. Alla fine della partita ero devastato. Non solo per me, ma anche per mio padre, una persona dolce e sensibile, sapevo che se ne stava a casa sua incollato alla radio a seguire le partite e che aspettava forse più di me quel momento».
Al rientro negli spogliatoi ovvia maretta. «Pietro Giuliano (il braccio destro di Boniperti, ndr), di solito calmo e razionale, si infuriò con la squadra per la figura che mi aveva fatto fare. Lo stesso fece Zoff, che se la prese soprattutto con la difesa. Volarono parole grosse e qualche cazzotto sugli armadietti».
Ma la vita, talvolta, restituisce con gli interessi quello che ha tolto: «Tutti si ricordano di me per quella partita. Mi hanno voluto perfino la Carrà e Maurizio Costanzo per raccontare dei tre gol presi in trenta minuti».
E sì, da quella triste mezz’ora l’unico vincitore è risultato lui, che è poi riuscito a costruirsi fuori dal calcio una strada lastricata di successi. «Sono una persona serena alla quale piace vivere la parte “bella” della gente, quella che emerge nei momenti di relax o di ferie».
La svolta dopo la rottura del crociato al ginocchio destro nel 1984: «Fu una scelta indolore. Chiusi con il calcio e decisi che da allora mi sarei dedicato a far star bene le persone».
Alex adesso si divide tra Sardegna e Toscana, «da ottobre a maggio gravito ad Arezzo dove nel 2000 ho aperto il “Grace”, un ristorante con musica dal vivo in pieno centro, mentre mia moglie Daniela cura il suo negozio di abbigliamento. L’estate, invece, si vive in Sardegna. Daniela segue le sue attività nel campo della moda, mentre io lo scorso luglio ho inaugurato un nuovo locale a Porto Cervo. È il terzo dopo il “Peperov”, che ho lanciato nel 1988 insieme a due soci, e al “Billionaire” che presi da solo rischiando molto. Briatore, mio amico da una vita, entrò dopo il primo anno, oggi gli ho ceduto l’intera proprietà. Il presente si chiama “Next Door”, sempre con Briatore nel team, la scelta del nome non è stata casuale».
Una nuova porta per Alessandrelli, una nuova sfida, con la consapevolezza che non sarà l’ultima. «Dici bene, non posso fare a meno di guardare al futuro».
Si rituffa volentieri pure nei ricordi il nostro Alex. «Arrivai a Torino a quindici anni. La mia famiglia aveva bisogno di qualche soldino ed io non mi risparmiavo: ho fatto le bobine per i flipper, lavavo le auto, mi occupavo delle rese dei quotidiani, il carrozziere. Ho lavorato anche come cameriere nel pensionato dove vivevo con i miei compagni, tutto questo mentre giocavo».
Cinquecento lire, questa la paga per ognuno dei lavoretti che riusciva a inventarsi. «A diciassette anni la Juve mi dava quindicimila lire al mese, compreso il vitto e l’alloggio, ma arrotondavo facendo l’assicuratore: vendevo polizze a tutti i compagni».
Lo spirito d’iniziativa, insomma, non gli è mai mancato, neppure durante gli anni da prof nel calcio. «Nel 1976 a Torino in società con Zoff e Tardelli avevo aperto un negozio di abbigliamento. Quattro anni dopo con mia moglie iniziai a produrre capi in pelle ad Arezzo e nello stesso periodo, mentre eravamo in vacanza in Sardegna, rilevammo un’attività commerciale nel settore del vestiario con punto vendita a Baia Sardinia».
E il pallone? «C’era anche quello, anzi soprattutto quello. Nel ‘67 mi aveva portato dall’Ostiense alla Juve un certo Moggi. Ero fortissimo, calciavo con tutti e due i piedi e agli inizi addirittura mi alternavo tra il ruolo di portiere e quello di ala sinistra».
L’anno magico è il 1972: «Intanto perché avevo vent’anni e potrebbe bastare questo. In più ero in pianta stabile nella rosa della prima squadra tra Piloni e Carmignani, il titolare, che sotto sotto mi temeva. Con la Primavera perla prima volta nella storia della Juve vincemmo lo scudetto di categoria, ero il capitano e con me c’erano Luciano Marangon, Vincenzo Chiarenza, Alberto Marchetti. In estate andai in prestito alla Ternana. Ero il più giovane titolare della Serie A e non ti dico l’emozione nel vedere il mio nome accostato a quelli di Zoff, Albertosi, Pulici. Era una Ternana che difendeva a zona e applicava il famoso gioco corto, per cui spesso e volentieri giocavo al limite dell’area. Ma non tutti capivano: dagli spalti mi urlavano di tornare indietro».
Alex, comunque, convince. Para bene, anche i rigori, arrivando a interrompere la serie positiva di Chinaglia nel 1973. «Ma a proposito di penalty il ricordo più bello è legato ai quarti di finale di Coppa Campioni contro l’Ajax nel 1978».
Dopo i supplementari, ecco i tiri dagli undici metri: «Io sono dietro la porta e Zoff, prima di sistemarsi tra i pali, si consulta con me. Risultato: due rigori parati e il terzo fuori».
Mai pensato allora di rimanere nel calcio come istruttore dei portieri? «L’ho fatto, tanti anni fa alla Rondinella. Mi chiesero di sgrezzare un tipo alto e un po’ debole di carattere. Sebastiano Rossi».
Esperienza una tantum, anche perché Alex e un team manager nato. «Lo sono sempre stato, fin dai primi anni bianconeri. Ero il portavoce della squadra, con Boniperti, ma anche con l’Avvocato Agnelli».
Lo sguardo vola a una foto appesa alle pareti del suo ufficio. In primo piano un giovane Alessandrelli se la ride con l’Avvocato. Cosa gli stavi dicendo? «Che i finestrini della 131 non si aprivano mica bene!».
http://www.youtube.com/watch?v=eHQZ7cxwmQ8
http://www.youtube.com/watch?v=RQwpHUOAm7Q
4 commenti:
Ricordo le maledizioni che gli mandai quando la radio annunciò il 3-3 !
Col senno di poi, mi fa tenerezza perchè quell'esperienza lo distrusse psicologicamente e la Juve lo spedì all'Atalanta
C'è un piccolo errore! Nella stagione in cui Alessandrelli giocò a Terni,1972-73,i suoi colleghi portieri erano l’ex Juventus Roberto Tancredi e Gianfranco Geromel. E non,come è scritto sull’articolo,Aldo Nardin. Che fu il portiere della Ternana in A nel 1974-75
Correzione effettuata. Grazie mille per la tua collaborazione.
Si è rifatto con gli interessi una volta appesi gli scarpini al chiodo.
https://www.ondazzurra.com/sport/calcio/alessandrelli-leterno-secondo-di-zoff/
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