venerdì 17 maggio 2013

Carlo CARCANO


Il 23 giugno si è spento a Sanremo – racconta Umberto Maggioli su “Hurrà Juventus” del luglio 1965 – dove si era ritirato da parecchi anni, Carlo Carcano. È un lutto per il calcio italiano e juventino. Lo sport e la vita provocano delle curiose antitesi, molto amare: Carlo Carcano, che era stato poderoso esempio di forza e vigore atletico, oltre che di chiara valentia calcistica, è stato fermato da una paralisi progressiva.
Nella storia del calcio italiano Carcano ha avuto e sempre avrà un posto non infimo. Erroneamente tutti lo hanno sempre creduto alessandrino, in quanto proprio nella squadra grigia svolse buona parte della sua carriera di calciatore militante, invece era lombardo, nato il 26 febbraio del 1891 a Masnago, nel Varesotto; e aveva iniziato a giocare nell’undici famoso del «Nazionale Lombardia», dove si creò una solida fama di centromediano, di quelli tanto per ripetere un luogo comune che… usavano una volta.
Nelle file alessandrine ebbe modo di perfezionare e potenziare il suo gioco, alla scuola del famoso inglese Smith, cui vanno molti meriti nella creazione della cosiddetta scuola calcistica alessandrina o «mandrogna», o «grigia», come normalmente la definiscono gli anziani sportivi.
Il gioco di Carlo Carcano era talmente efficace nella sua Alessandria che presto le Commissioni Tecniche del tempo, che avevano l’incarico di scegliere gli elementi per la «nazionale», si accorsero di lui. Il suo debutto in «azzurro» avvenne il 31 gennaio del 1915, a Torino, contro la Svizzera, che risultò battuta per 3-1. Carcano era di una classe di leva cosiddetta disgraziata: infatti per i calciatori della sua età ebbe inizio, e durò molto a lungo come tutti sanno, un campionato molto più duro e pericoloso: quello della… grande guerra. In quegli anni molti giocatori che vestivano il grigio-verde formarono delle squadre famose come quelle degli aviatori di Cameri e di Cascina Costa, degli automobilisti.
Terminato il grande conflitto, l’attività calcistica riprese, sia nel campionato che nelle prove internazionali e Carlo Carcano ebbe modo di essere selezionato per la squadra azzurra cinque volte, giocando l’ultima partita quale «nazionale» sul terreno di viale Lombardia a Milano dove, il 6 marzo 1921, la nostra rappresentativa si concesse una bella rivincita sugli svizzeri, battuti per 2-1.
Carlo Carcano aveva ormai trent’anni e pensò bene di togliersi le scarpe a bulloni del calciatore per dedicarsi alla carriera di tecnico del calcio. Ed anche in tale nuova veste le soddisfazioni non dovevano mancargli. Dapprima venne assunto dall’Ambrosiana, poi passò al Napoli e più tardi non seppe resistere al richiamo alessandrino e, nella città dove si era affermato quale centromediano di classe, tornò quale tecnico di rara maestria. Nel frattempo aveva plasmato e affinato alla sua scuola giocatori che sono stati a lungo in testa alle cronache del calcio internazionale, in special modo Giovanni Ferrari, che considerava quasi come un figliolo, e Gino Bertolini.
Dalla società grigia fu la Juventus che con fiuto finissimo seppe prelevare in blocco il terzetto per portarlo a Torino e inserirlo in quel meccanismo di gioco che, tra altri successi, ebbe anche quello di vincere i famosi cinque «scudetti» consecutivi. L’abilità di Carcano quale allenatore non aveva nulla di eccezionale, di sopraffino: era fatta soprattutto di pratica e… di buon senso. E magari anche, diciamolo pure, di qualche briciolo di malizia. Di malizia, intendiamoci bene, del tutto… regolamentare.
Dal 1930 al 1934, e anche per quasi tutto il torneo del 1934-35 Carlo Carcano fu la Juventus e la Juventus fu Carlo Carcano. Anche Vittorio Pozzo, nella sua qualità di Commissario Unico per la «nazionale», si avvalse della sua opera di allenatore per la comitiva «azzurra»; e la vittoria dell’Italia nel Campionato mondiale del 1934 fu, non soltanto merito di Vittorio Pozzo e dei suoi «azzurri», ma parecchio anche di questo tecnico calcistico abile, avveduto, consumatissimo: un autentico mago «avanti lettera». Carcano non era soltanto un tecnico del calcio, ma anche un acuto psicologo che conosceva a fondo i caratteri dei suoi uomini ai quali sapeva chiedere, ottenendolo, il massimo rendimento.
E non era soltanto un mago del calcio ma di qualsiasi gioco, sia sportivo che delle carte. Chi lo ha conosciuto a fondo e gli è stato amico ricorda come Carlo era imbattibile in qualsiasi gioco delle carte. Tutti noi che gli giocammo insieme avemmo sempre il convincimento che ci imbrogliasse ma, se lo faceva, vi riusciva tanto bene che nessuno avrebbe potuto muovergli il benché minimo rimprovero.
Nella Juventus, specie negli ultimi tempi del suo… «consolato», aveva disposto le cose tanto bene che tutto funzionava a dovere con il minimo della sua sorveglianza. Negli allenamenti mattutini si preoccupava principalmente che… Cesarini giungesse in orario e che Bertolini seguisse le sue istruzioni in quanto, dato che lo aveva portato lui nella società, desiderava che il suo pupillo fosse sempre in forma e in condizioni fisiche perfette; di tutti gli altri quasi non si curava, tanto era sicuro che seguivano i suoi ordini e istruzioni. Aveva saputo far funzionare la macchina juventina con tale perfezione che tutto procedeva con facilità, quasi automaticamente: i giocatori stimavano e apprezzavano il loro tecnico e questi si fidava di loro: sia pure con qualche riserva mentale.
Difficilmente Carcano puniva un suo giocatore. Essendo stato giocatore prima degli altri usava sempre la persuasione, sapendo che era, comunque, il migliore sistema.
Da tempo era sparito dalla scena calcistica. Ritiratosi a Sanremo, dove aveva acquistato con i suoi risparmi una ridente villetta, dedicava talvolta le sue cure ai vivai giovanili della Sanremese e dava anche vita alla conosciutissima contesa giovanile del torneo «Carlin Boys»; e «Carlin» non era altri che lui stesso.
Non lo rivedremo più. Tutti certamente lo ricorderanno così come avevano avuto modo di notarlo sui campi di gioco negli ultimi anni della sua attività, indossante quel suo elegantissimo giubbotto in pelle di daino. Che ha una sua storia particolare: una storia che illustra anche il carattere bonario e cordiale dello scomparso.
Una storia che vale la pena di essere raccontata. Quando nel torneo mondiale del 1934 si dovette disputare la partita con la Spagna, Carcano fu sollecitato a far giocare l’interista Castellazzi in luogo di Varglien I, e ciò lui fece, forse per dimostrare a tutti come nella sua qualità di allenatore azzurro e collaboratore di Vittorio Pozzo egli non avesse alcuna debolezza in favore degli elementi della sua squadra di società. Inutile dire che Mario Varglien ci rimase un po’ male. Poi, nell’incontro ridisputato, Castellazzi venne sostituito da Ferraris IV.
Poco tempo appresso, in occasione d’una partita juventina col Genoa, a Marassi, la direzione rossoblu ebbe l’idea di acquistare dodici scatole dei famosi «canditi» genovesi Capurro per farne dono agli undici bianconeri ospiti e al loro allenatore. Quel giorno Mario Varglien era infortunato e quindi figurava soltanto quale riserva: perciò escluso dal dono. Carcano acquistò allora a sue spese una scatola identica alle altre e la donò a Varglien, il quale, logicamente, rimase colpito dalla finezza del suo allenatore e pensò bene di ripagarlo con altro gesto egualmente fine. Da qualche giorno aveva ricevuto a sua volta in dono dal cognato – marittimo che navigava allora col «Saturnia» sulla rotta di New York – quella famosa giacca di daino: oggetto che a quell’epoca rappresentava autentica rarità.
Ci piace, oggi che Carlo Carcano non è più, ricordare questo simpaticissimo episodio che lumeggia ampiamente le doti del suo carattere generoso.
Ed anche quello del carattere di Mario Varglien.

VLADIMIRO CAMINITI DAL SUO LIBRO JUVENTUS JUVENTUS
Cinque volte azzurro, valente centr’half dell’Alessandria e poi valente allenatore psicologo ad Alessandria, riscosse la fiducia del dirigente factotum Mazzonis e nel 1930 passò armi e bagagli a Torino.
Borel Farfallino rifiutò sempre di farsi massaggiare da lui né mai si fece sorprendere senza la mitanda. Amava i ragazzini e li assoldava anche per poter sorvegliare i giocatori più riottosi alla disciplina, gli Orsi e Cesarini. Amava sconfinatamente il mestiere ed ogni risvolto del vivere, si piegava alle situazioni ma sapeva uscirne vincitore. Ai Mondiali del 1934 fu convocato allenatore della squadra azzurra. Luigi Cavallero, capo della pagina sportiva de «La Stampa» di Torino, in un articolo abbastanza datato ne riferì queste parole che documentano i suoi sistemi di lavoro:
«Cura di spiriti, la mia. Non c’è giocatore che nel corso di un campionato non attraversi periodi più o meno lunghi di minorate condizioni fisiche aggravate spesso da una conseguente sfiducia nei propri mezzi. Basta che un uccello di malaugurio gridi il “giù di forma” perché si crei attorno al giuocatore un’atmosfera di diffidenza e, talvolta, anche di derisione. La folla dimentica spesso che l’uomo al quale grida il suo disappunto è quello stesso che poco tempo prima ha portato in trionfo. E parla, allora, senza nulla sapere di preciso, di vita sregolata, di scarso impegno, di progettata emigrazione in altro club e di cento altre stramberie del genere!
«Succede allora che il giuocatore, il quale avrebbe magari bisogno di riposo, di incoraggiamento, di fiducia, se non altro, nella sua lealtà, si stizzisce, fa peggio ancora e non si risolleva per molto tempo.
«Chi non ricorda quanto è successo a Combi allorquando riportò, in un duro scontro, una ferita al capo che lo costrinse per molti giorni in un letto di ospedale e che fece temere non poco per lui?
«Gli sportivi, prendendo lo spunto dalle voci messe in circolazione dai soliti bene informati, furono i primi a dire che sicuramente Combi non avrebbe giuocato più. Si parlava del povero infortunato come di un uomo rovinato per tutta la vita.
«“Non avrà più coraggio” diceva uno.
«“Non oserà più uscire di porta” soggiungeva un altro.
«“Mancherà di prontezza...”. “Avrà perso la sicurezza negli interventi...”.
«Conclusione: Combi era un giuocatore da abbandonare al suo destino. Tanti grazie per quanto aveva fatto durante lunghi anni, molta ammirazione per la sua carriera, ma, per il resto, basta, si doveva pensare a sostituirlo. Come campione era finito. Come il tenore sfiatato, il violinista cui trema l’archetto in mano, l’asso del volante che ha paura in curva. Così la pensavano anche quelli che erano stati fra i suoi più fervidi ammiratori. 
«Combi avvertì questa sfiducia e pur lottando per tornare rapidamente nel pieno possesso dei suoi mezzi, non vi riuscì subito. Subì, in più di una partita, punti che prima avrebbe sicuramente evitato, ed i più pensarono di avere avuto ragione nel considerarlo definitivamente al tramonto. La verità, invece, era un’altra. La squadra tutta, stanca ancora per le fatiche della Coppa Europa, non era in forma. Gli stessi terzini non costituivano una barriera insormontabile. Nella massa vi fu chi ebbe fede. Io fui tra questi. Lo lasciai in squadra, incurante delle critiche. Ebbene, occorsero vari mesi prima che Combi tornasse ad essere il grande atleta che era stato per il passato e nessuno può immaginare la gioia di Gian Piero allorché Pozzo tornò a chiamarlo in Nazionale».
Carcano fu psicologo alquanto capace. Aveva un cuore sentimentale. Aveva i suoi pupilli. In tempi televisivi e di giornalismo oltranzista, gli sarebbe riuscito più difficile confermare il Combi nonostante la grama vena. Ma non si può dubitare nemmeno della classe di Combi, uomo vero.
Tutto considerato, una storia senza novità. Allenatori migliori nel genere di Carcano in Italia se ne avranno. Ad esempio Rocco. Né la figura dell’allenatore, nel frattempo, aveva assunto una sua dignità. Come nei tempi in cui il barbiere surrogava il medico, negli anni trenta ancora l’allenatore cercava una sua dimensione tecnica. Lo respingevano gelosi del loro ruolo, gli stessi calciatori; e soltanto a pochi stranieri aureolati di autentica gloria calcistica era consentito di interferire. Pur che fossero rispettosi delle usanze. Non come Giorgio Aitken che pretendeva di far correre i primi divi della Juve.

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