DA “LA STORIA DELLA JUVENTUS” DI PERUCCA, ROMEO E COLOMBERO:
Alla Coppa dei Campioni 1972/73 la squadra bianconera si
presentò dopo aver aggiunto alla rosa che l’aveva portata al titolo il portiere
della Nazionale Dino Zoff ed il centravanti del Napoli (e del Brasile Campione
del Mondo 1958) José Altafini. Le speranze di Boniperti ed Allodi non andarono
deluse. La squadra, giovane ma non del tutto priva di esperienza, marciò a
lungo spedita sul doppio fronte del campionato e della Coppa dei Campioni.
In campo continentale la squadra bianconera si sbarazzò
agevolmente, al primo turno, dei non irresistibili francesi dell’Olympique
Marsiglia (che schieravano, fra l’altro, quel Roger Magnusson che abbiamo incontrato
come straniero di Coppa juventino nel 1968/69); soffrì non poco per venire a
capo della tenace resistenza dei tedesco orientali del Magdeburgo, piegati col
minimo scarto sia all’andata (1-0: Anastasi) che al ritorno a Magdeburgo (1-0:
Cuccureddu).
Drammatico anche il superamento dei quarti, contro gli
ungheresi dell’Újpest Dózsa. Chiusa con un pericolosissimo 0-0
la gara di andata a Torino, i bianconeri rischiarono il tracollo con 15’ di
streghe al ritorno, a Budapest, al termine dei quali si ritrovarono sotto di
due goal. Trascinata da Anastasi, Altafini e dal solito Furino la Juve reagì
con grande caparbietà ed acciuffò col brasiliano e col siciliano un 2-2 che,
grazie ai goal in trasferta, la spedì in semifinale.
In cui le toccarono i terribili inglesi di Brian Clough, il
Derby County. Con una straordinaria prestazione nella gara di andata a Torino,
la Juve si assicurò un 3-1 (firmato da una doppietta dello strepitoso Altafini
e da Helmut Haller). Nella gara di ritorno Zoff e compagni controllarono senza
mai andare in autentico affanno, con grossa personalità, il risultato. E
portarono a casa lo 0-0 che voleva dire finale (la prima nella storia della
Juve) grazie anche ad un calcio di rigore fallito dallo specialista Hector.
Ma la partita ebbe un inquietante retroscena venuto alla
luce solo dopo la disputa della finale. Prima della partita di ritorno
l’arbitro Lobo era stato avvicinato da un certo Deszo Solti (un profugo
ungherese che gravitava nel sottobosco del calcio milanese ai tempi della “Grande Inter”) che gli aveva promesso una lauta ricompensa per dare una mano
alla Juventus nella sua corsa verso la finale. Lobo denunciò tutto all’Uefa che
condusse un’inchiesta al termine della quale scagionò completamente la società
bianconera, non essendo emersa alcuna connessione fra l’operato del Solti ed il
club torinese.
E venne il giorno della finale: dall’altra parte
l’avversario più ostico che si potesse immaginare per i bianconeri, quell’Ajax
che, costruito pezzo dopo pezzo da Rinus Michels, il santone del calcio
olandese e guidato con grande maestria da Stephan Kovacs, un poliglotta rumeno
addottorato e pieno di fascino, aveva nelle sue file quel Johan Cruijff che ha
rappresentato, almeno fino all’esplosione di Michel Platini, l’espressione più
completa che il calcio europeo abbia saputo fornire.
Ed attorno a Cruijff giocatori di grandissimo talento come
Krol e Neeskens, Haan e Suurbier, Rep ed Hulshoff, e tutti gli altri. In quel
momento l’Ajax non era soltanto uno squadrone: era soprattutto l’espressione di
una scuola innovatrice, quella del “foot-ball total” destinata a rappresentare
una svolta per l’intero calcio mondiale, con l’introduzione dei valori della
potenza, della velocità, del movimento continuo non più in subordine alla
componente tecnica. Un calcio fatto anche di una modernissima impostazione
tattica e che toccava vertici organizzativi elevatissimi grazie anche alla
polivalenza dei suoi atleti. Un calcio che avrebbe vissuto da protagonista (ancorché
sfortunato) anche i Mondiali dell’anno dopo in Germania, vinti dalla squadra di
casa ma passati alla storia come i mondiali dell’Olanda.
A Belgrado l’Ajax era arrivato seminando per strada
avversari come il Cska di Sofia, Bayern e Real Madrid. Ma soprattutto, Cruijff
e soci avevano vinto le due precedenti edizioni della Coppa dei Campioni, erano
alla quarta finale in cinque anni. La partitissima, che dette vita al più
massiccio esodo di tifosi (oltre 30.000 gli italiani a Belgrado, non meno di 15.000
gli olandesi, con non meno “birra in corpo” dei loro giocatori) visse più
attese che storia. La decise un goal di testa di Rep dopo 4’. La Juve,
letteralmente “groggy”, non seppe mai autenticamente reagire. Cruijff e
compagni gelarono e controllarono il gioco più facilmente di quando potessero
legittimamente sperare. E la Juve tornò a casa inebetita, con dentro qualcosa
di più di una semplice delusione.
«Quell’Ajax era fortissimo», racconta Giampiero Boniperti, «ma noi gli facilitammo il compito con una serie di errori che ci
condizionarono soprattutto psicologicamente: il lunghissime ritiro innanzitutto,
in un luogo isolato e tetro. Il riscaldamento pre partita effettuato in un
campetto laterale, in modo che i giocatori al loro ingresso in campo, in uno
scenario struggente, furono letteralmente paralizzati dall’emozione. Per 20 minuti la
Juve non toccò palla».
«Ho giocato centinaia di partite a tutti i livelli»,
racconta Roberto Bottega, «ma quella di Belgrado è l’unica della quale io non
sappia spiegare nulla. Il che la dice lunga sullo spirito con cui l’affrontammo».
L’allenatore Stephan Kovacs racconta invece un retroscena curiosissimo,
in parte forse romanzato, ma che certamente ha un grosso fondo di verità: «In
vista dell’impostazione tattica della finale di Belgrado», ha detto Kovacs, «ho
potuto giovarmi concretamente delle note che un giovane allenatore turco aveva
preso nel corso delle due semifinali fra Juventus e Derby County. Note in cui
aveva riprodotto fedelmente gli schemi attuati dalle due squadre. Su quelle
note, su quel che vidi io nella partita di Roma che consenti alla Juve di vincere
lo scudetto, predisposi una partitella preziosissima, disponendo la squadra
allenatrice, una selezione militare di Belgrado, esattamente come la Juve, sia
nella variante a due che in quella a tre punte. Sicché in campo non si verificò
nulla che non avessimo previsto».
Al di là della forza dell’avversarlo e della consumata
esperienza del suo tecnico, la Juve pagò anche l’inesperienza globale della
squadra e certi romantici eccessi offensivistici (attacco a tre punte, rinuncia
a Cuccureddu, l’uomo più in forma dell’ultimo scorcio di stagione) che
facilitarono il compito di una squadra che non aveva certo bisogno di aiuti.
1 commento:
Nessuno ricorda il "movimiento" di Heriberto Herrera, precursore del calcio totale?
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