«Avevo diciotto anni, stavo attraversando le 52 Gallerie del Pasubio, quelle famose del 1915-18 sulle Piccole Dolomiti. Era buio. Presi una capocciata tremenda. Qualcuno mi toccò la mano: “Ti aiuto io”. Era una ragazza. L’ho sposata». Si chiama Gabriella e mezzo secolo dopo, in salotto, precisa sorridendo: «Ma non subito. L’ho sposato al suo secondo anno di Juventus, perché se fosse andato male, avrebbero dato la colpa a me. Infatti prese 50 goal, la Juventus finì quart’ultima. Peggio di così non poteva andare. Allora l’ho sposato». Il reduce dalla capocciata è Roberto Anzolin; nato a Valdagno (Vicenza) il 18 aprile 1938, inizia la carriera nel Marzotto, due anni nel Palermo, i primi, quelli della consacrazione, poi una vita intera nella Juventus.Tutta qui la storia sportiva di Roberto Anzolin, veneto di quelli buoni, poche parole e un’infinità di fatti importanti. «Mio padre era pettinatore alla Marzotto. Io iniziai a parare nel Valdagno Marzotto, in B. Sapevo che mi cercava il Milan. Invece mi dissero: “Roberto, per 5 milioni in più l’ha spuntata il Palermo”. Per un veneto di 19 anni andare in Sicilia, nel 1959, non era uno scherzo. Partii con mio padre. Piansi in treno da Padova a Roma, dove un dirigente del Palermo, venne a prenderci con un’Aprilia da corsa che ci portò a Napoli. Viaggiava come un matto, lo pregai: “Piano, ho una carriera davanti!”. Sbarcato a Palermo, mi portarono a mangiare la pasta con le melanzane a Mondello. Non l’avevo mai assaggiata, Gabriella me la fa ancora adesso. Vivevo allo stadio, nelle stanze che avevano ricavato per gli scapoli vicino alla tribuna della Favorita. Ero in stanza con Carpanesi. Toros mi faceva da fratello maggiore, mi portava al mare e a messa. All’esordio a Bari mi fregò un autogoal di Bernini. A Torino, contro la Juventus, parai tutto, anche un rigore di Cervato. Mi arresi solo a Sivori, in fuorigioco di 5 metri».
Il Palermo era stato appena promosso in Serie A: era una squadra forte, autoritaria, guidata da Totò Vilardo, sulla carta semplice segretario della società rosanero, nei fatti anima e corpo del Palermo.
«Dai, Cesto – disse all’allora allenatore Cestmír Vycpálek, altra grande anima bianco-rosanero – vieni con me a Valdagno, che c’è un portierino che ci farà subito dimenticare Pontel».
Vycpálek ricorda perfettamente musica e parole di quel Palermo: «E sì, era un fior di dirigente quel Vilardo. Magari procedeva oltre le righe, ma che fantasia, ragazzi. Fiutava i campioni come i cani fiutano i tartufi. Il Palermo aveva conquistato la A, però dovevano rifare la squadra, a cominciare dal portiere. Pontel dovette tornare all’Inter che ce l’aveva prestato: un’impresa non farlo rimpiangere. Quando Vilardo mi parlò di un ragazzino che stava spopolando in C nel Marzotto, decisi di partire subito. Quel ragazzino era Anzolin e aveva appena vent’anni! Era forte, Roberto, come giocatore e come uomo, una pasta di ragazzo, socievole, modesto, sempre disponibile. Si lavorava bene con lui, perché era sempre lì, pronto a prolungare l’allenamento, mai un lamento, mai una smorfia. Fra i pali era agile come un gatto, praticamente imbattibile, schizzava da un palo all’altro con guizzi felini. Nelle uscite basse era impeccabile, non altrettanto nelle mischie e in quelle alte, nei mucchi selvaggi che erano le aree di rigore di quegli anni di calcio giocato a viso aperto, quando un calcio in faccia non bastava per uscire dal campo: non si poteva mica restare in 10».
La seconda stagione in Sicilia, Anzolin la giocò con un altro allenatore, Fioravante Baldi.
Fu determinante tante volte e la Juventus, che lo seguiva da tempo, alla fine del campionato lo volle a tutti i costi. Vilardo, fiutò bene l’affare e volle in cambio Mattrel, Burgnich e una barca di milioni.
Alberto Malavasi, mediano di quello e di tanti altri Palermo, un vero gentleman in campo e fuori diceva: «Roberto era l’ultimo baluardo, l’uomo dei miracoli, il gatto volante. Un’agilità incredibile gli permetteva di sventare goal già fatti. Sembrava piccolo, ma era nella media, solo che schizzava rapido come un proiettile. Certo, aveva qual che difetto, come tutti. Era leggero nelle uscite e spesso nelle mischie veniva spazzato via. Ma era un difetto, questo, o piuttosto un piccolo neo? Lui prevedeva lo sviluppo dell’azione ed era già sotto l’incrocio dei pali a fermare il pallone».
Racconta Roberto: «Ricordo le mie due stagioni nel Palermo con tenerezza e gratitudine: ricordo la Topolino che mi prestava Malavasi per spostarmi in città, ricordo l’amico fraterno Giorgio Sereni, che arrivò con me nel Palermo e che, come me, fece il militare a Viterbo. Ricordo soprattutto un campione, Ghito Vernazza, un vero trascinatore, un leader come si dice oggi. Poi ricordo la città, la Curva Nord, il suo calore straordinario, quel suo spiovere quasi sul campo con la sua passione scatenata. Non dimentico, soprattutto, che senza quel Palermo non ci sarebbero stati la Juventus e i miei 10 anni bianconeri. Con allenatori strepitosi come Amaral, che era un padre per tutti noi, oppure Heriberto che, al contrario, era un generale, duro, diritto come un fusto, si spezzava ma non si piegava. Ci faceva lavorare duro, Heriberto. Ma che soddisfazioni, come riuscì a potenziarmi con i suoi allenamenti, come mi migliorò anche nelle mischie e nelle uscite! Gli debbo molto. Ho giocato con compagni grandi, grandissimi, i più forti del mondo, come Sivori e Charles fuoriclasse inarrivabili, anche oggi sarebbero i migliori, parola mia. Forse un asso solo li superava, perché era anche un genio: Schiaffino, uno che difendeva e subito dopo piazzava l’assist vincente. No, non mi lamento della mia carriera, mi ha dato tutto, la possibilità di conoscere il mondo, di vestire l’azzurro. La Nazionale, forse l’unico cruccio: 34 gettoni fra Under e Nazionale B, ma una sola presenza, contro il Messico, nella rappresentativa maggiore. Prima ero troppo giovane, poi troppo vecchio. Ma è solo un piccolo neo».
In bianconero si ferma per 9 stagioni mettendo insieme 305 gettoni di presenza (230 in campionato, 29 in Coppa Italia e 46 nelle competizioni europee).
Con la Juventus lega il suo nome alla Coppa Italia 1965 e allo scudetto 1967: «Un giorno, un dirigente palermitano mi sussurrò: “Ti abbiamo venduto alla Juventus, ma non dirlo, se no scoppia la rivoluzione”. La gente mi amava. A Torino mi sedetti in uno stanzone davanti a Boniperti e altri quattro dirigenti. Mi chiesero: “Quanti goal pensa di pendere?” Risposi: “Non so, 20/25...” Ne avrei presi il doppio: quart’ultimi. Poi parlammo di soldi. A Palermo prendevo 5 milioni, ne chiesi 14. Si alzarono in piedi tutti e cinque: “Lei è pazzo!” Poi, tra una clausola e l’altra, ne presi anche di più. Charles si affezionò subito a me. Ci cambiavamo al Comunale, poi attraversavamo la strada per allenarci al Combi. Charles mi sollevava con un braccio solo e mi portava dal Comunale al Combi così, parallelo al terreno, come fossi un tronco. “John, mettimi giù che mi spezzi tutto!”, gli dicevo. E lui: “Anzolino, tu vieni con me”. Ai quarti di Coppa dei Campioni trovai il Real Madrid. Febbraio 1962. A Torino presi goal da Di Stéfano. A Madrid vincemmo noi con Sivori. Nicolè sbagliò un goal al 90’, così ci toccò lo spareggio di Parigi, che perdemmo. Ma al Bernabéu avevo parato tutto, anche una cannonata di Puskás che mi arrivò al mento e mi stese. Nessuno, prima di noi, aveva sconfitto il Real in quella coppa. O come quando ci giocai con l’Under 21 e tutto lo stadio mi salutò con i fazzoletti bianchi perché avevo parato anche i microbi: 0-0».
Incorniciata c’è la pagina di quella partita. Titolo: «Anzolin meglio di Zamora».
In un altro quadretto: «Anzolin come Yashin».
E poi, sulla parete, tutte le formazioni di Roberto, dal Marzotto in su.
La Juventus 1966-67 è la filastrocca rimasta nella memoria di tanti juventini: Anzolin, Gori, Leoncini... la formazione del 13° scudetto. Heriberto Herrera e il movimiento.
«Sulla carta non eravamo i più forti, ma i nostri punti ce li siamo guadagnati tutti ed io presi solo 19 goal. All’ultima giornata, Sarti fece la famosa papera a Mantova, noi battemmo la Lazio e scavalcammo l’Inter. Uno dei due raccattapalle dietro la mia porta aveva la radiolina: “Signor Anzolin, l’Inter sta perdendo!”. Al fischio finale, tutti saltarono in campo. Io mi tolsi la maglia, la posai a terra con calma e m’incamminai verso lo spogliatoio, dove mi fumai una bella sigaretta».
La signora Gabriella si illumina come le Dolomiti al sole: «Nessuno parava meglio di Roberto in quel periodo. Ai Mondiali del 1966 avrebbe dovuto giocare lui. Ma Albertosi giocava vicino a Coverciano ed era molto più diplomatico di Roberto. Se mio marito avesse avuto il mio carattere».
Roberto raccoglie l’assist: «Quel diagonale del coreano io l’avrei parato. Sicuro. Ma è vero: io non mi vendevo molto bene. Per un errore di Zoff i giornali avevano sempre giustificazioni».
Vince, nel 1968, il Premio Combi, attribuito da giornalisti e addetti ai lavori, al miglior portiere italiano.
Lascia Torino nell’estate del 1970 e si accasa all’Atalanta con la quale, nella stagione 1970-71, in Serie B, stabilisce il record di imbattibilità, tenendo inviolata la propria rete per ben 792 minuti, contribuendo alla promozione in serie A della squadra orobica.
Dopo Bergamo continua l’attività fino a quarant’anni al servizio di Vicenza, Monza, Riccione e Juniorcasale.
Nell’ultimo quadretto Roberto Anzolin ha 42 anni: «Avevo smesso, però il Valdagno, in Promozione, mi pregò di sostituire il portiere malato. Presi 4 goal in 26 partite. Nel derby decisivo, contro il Malo, staccai una punizione dall’incrocio e la gente disse: “Però, il nonno!”. Poi, ho provato a fare l’allenatore, ma a Gorizia mi licenziarono mentre ero in testa con 6 punti sulla seconda. Così, ora alleno i Pulcini. Il mio fegato ci guadagna ed anche il mio cuore. Nel luglio del 1997, il giorno prima del Centenario della Juventus, eravamo in montagna. Sentii un dolore, un fastidio alle ascelle. Dissi: “Io di qui non mi muovo”. Misi a terra lo zaino con calma».
Come aveva messo a terra la maglia il giorno dello scudetto. Un infarto a occhi aperti.
La signora Gabriella ci mostra una montagna sul calendario: «L’elicottero del soccorso atterrò proprio qui».
Nell’attesa, lei gli tenne la mano. Come allora. Stesse montagne. E lo ha accompagnato fuori un’altra volta.
GIANNI GIACONE, DA “HURRÀ JUVENTUS” DELL’AGOSTO 1976
Si può essere portieri come Combi oppure come Anzolin Roberto da Valdagno. La differenza è molta o poca, secondo i punti di vista. E non c’è dissacrazione o irriverenza di sorta all’indirizzo del leggendario Giampiero della gloria quinquennale e dei trionfi azzurri.
Combi è modello di grandezza classica, di stile impeccabile. È retaggio di passato lontano e glorioso. Anzolin è concentrato di tempi moderni, di gloria poca e passeggera, di sudore domenicale molto e non sempre ricompensato da adeguate soddisfazioni sul campo. Sono anche due volti diversi dell’ottuagenaria storia juventina.
Qui vi raccontiamo il più recente e meno classico, oltre che meno celebrato. Vi raccontiamo Anzolin e ve lo raccomandiamo.
Nove stagioni con i colori bianconeri, 9 anni di servizio onorato, spesso incorniciati da prestazioni di tono araldico, quasi sempre conditi di piglio risorgimentale, come si conviene a chi è portiere di una squadra a caccia di grandezza e costretta a lungo a sopportare ruoli di comprimaria.
L’arrivo di Roberto Anzolin da Valdagno in casa juventina coincide con eventi patetici e financo tristi.
Si smonta (estate 1961) la squadra del 12° scudetto, lo scudetto del centenario nazionale, ed è come voltare di colpo una pagina dorata. Boniperti non gioca più, Cervato e Colombo non sono più il centromediano e il mediano sinistro, Sivori c’è ancora, ma da tante cose si intuisce che quell’anno non sarà più lui. Mattrel e Vavassori (e veniamo al dunque) non sono più i portieri.
Arriva Anzolin da Palermo e si piglia la maglia numero 1. Ha 23 anni, ha bruciato praticamente le tappe. Lo attendono momenti autenticamente difficili, ma la tempra c’è e la classe pure.
Purtroppo, nel marasma degli arrivi e delle partenze, non si ritrova più la Juve dell’anno prima.
Il debutto di Anzolin, 27 agosto 1961, Comunale ancora vestito da estate per l’anticipatissima prima di campionato, coincide con una partita, cocente delusione per i tifosi della Zebra.
Il Mantova, matricola assolutamente mai arrivata prima agli onori della A, impone senza troppo faticare un incredibile pareggio alla Juve. 1-1, e Anzolin non c’entra per niente, si capisce.
Ma intanto alle difficoltà del debutto si assommano quelle della precaria condizione della squadra, che sette giorni più tardi affonda all’Appiani.
Il campionato numero uno di Anzolin juventino segue gli alti (pochi) e i bassi (molti, ahimè) della squadra, che chiude inopinatamente dodicesima.
Ci sono giornate dolorosissime per il blasone: a Milano, ad esempio, 12 novembre, 5-1 per i rossoneri che ripresentano per l’occasione quel sacripante di Ghiggia a fare coppia con lo scatenato Altafini.
La difesa juventina è sotto accusa, becca un sacco di goal e non soltanto da attacchi titolati. Il Palermo va a segno 4 volte, violando il Comunale (18 febbraio 1962), e il Palermo non è il Real Madrid.
Passa, fortunatamente, la bufera dell’anno nero. E resta Anzolin, che nessuno si è sognato di mettere in croce per i risultati deludenti raccolti dalla squadra.
È una prova di fiducia che Anzolin ripaga subito. Adesso, col ritorno di Mattrel dal prestito palermitano, c’è un ballottaggio Mattrel-Anzolin per la maglia di titolare. Comincia Mattrel, ma alla fine la spunterà Anzolin.
È un’annata molto diversa, lontana anni luce dalla precedente. Amaral, allenatore “brasilero” con pochissimi capelli e alcune buone idee, escogita formule arcane che sorprendono gli stessi giocatori juventini, ma che in definitiva riportano in alto la Juve.
Anzolin si assesta su livelli di rendimento di assoluto riguardo. Para tutto ciò che è umanamente parabile, si fa apprezzare anche in uscite temerarie. Insomma, si capisce che con lui è risolto per un bel po’ di tempo il problema del portiere.
La Juve che va a un soffio dallo scudetto inciampa al momento buono più per fatalità che per demeriti. Che ci può fare Anzolin se l’Inter ha qualcosa in più dei bianconeri e vince di stretta misura lo scontro diretto? Assolutamente nulla.
Il secondo posto, con 19 presenze da titolare nonostante la rivalità di Mattrel, è successo autentico per Anzolin da Valdagno. Il primo successo.
Seguono tempi di ripensamento, di altalenanti umori, di risultati spesso illogici e comunque raramente esaltanti.
Il campionato 1963-64 vede improvvisamente alla guida della squadra un signore da ‘800 avanzato, il gentiluomo Eraldo Monzeglio, ma non servono maniere signorili per risollevare dalla pochezza del centro classifica una squadra talvolta spaesata.
Anzolin, in quella Juve né carne né pesce, è uno dei pochissimi punti fermi. Gioca 29 volte, come dire che è lui l’indiscusso titolare, e pilota una difesa che va pian piano ritrovando quadratura e dignità.
Poi viene il 1964-65, anno prima dell’era Heriberto Herrera, e la lenta marcia verso il ritmo della Juve alle posizioni di vertice prosegue regolare.
La Juve finisce quarta, l‘Inter e il Milan sono ancora su un altro pianeta, ma è intanto è juventina la difesa più solida e meno perforata, ed è juventino, naturalmente Anzolin, il portiere dal rendimento più costante.
Il pubblico raramente ha motivo di esultare per il gioco. Si pareggia spesso a reti bianche e la maggior parte delle vittorie sono striminzite, 1-0 quasi sempre, con zampate del Menichelli o del Da Costa di turno.
Anzolin non si vede molto, ha stile ma non è un esibizionista, ha classe, ma preferisce l’essenzialità al volo plastico. È quasi sempre il migliore dei suoi.
A Milano contro i nerazzurri (27 dicembre 1964), il portiere bianconero disputa una delle più belle partite della carriera juventina, contribuendo in maniera determinante al pareggio (1-1) che i bianconeri strappano all’Inter.
Anche nel derby di andata, finito nettamente a vantaggio della Juve (3-0) le sue parate sono state determinanti.
La stagione si chiude alla grande, con la conquista della Coppa Italia in una drammatica e avvincente finale con l’Inter. 1-0, goal vincente di Menichelli in apertura, strenua difesa e contropiede per il resto della gara, e decisivi interventi di Anzolin in serata normale, e cioè di vena autentica.
C’è ancora una stagione di transizione e di gioie soffocate e diluite, prima dello scudetto.
Il 1965-66 vede per la prima volta Anzolin collezionare tutti e 34 i gettoni di presenza in campionato. È la sua annata, sotto tutti i punti di vista.
Albertosi è titolare fisso e inamovibile della Nazionale che va ai mondiali, ma tra i convocati di Fabbri c’è anche lui, Roberto Anzolin da Valdagno e la convocazione azzurra, anche se non si traduce in esordio effettivo tra i moschettieri, è pur sempre soddisfazione grandissima.
E arriva, finalmente, lo scudetto a interrompere una lunga serie di piazzamenti a ridosso delle prime.
Juve punti 49, Inter 48 sul filo di lana dell’ultima giornata. Ma il sorpasso, ottenuto a una manciata di minuti dalla fine della stagione, è preparato col meticoloso impegno di settimane, di mesi, in casa juventina.
Anzolin, per la seconda volta consecutiva, assomma 34 presenze tonde. È l’unico bianconero a essere sempre presente, ed è dunque il più indicato a rappresentare l’immagine dello scudetto sofferto e fortemente cercato.
L’immagine del portiere sicurezza, che para il parabile, tutto il parabile, tra l’altro, con una giornata grandiosa, il successo sui rivali neroazzurri nello scontro diretto del 7 maggio 1967 (1-0).
Non c’è spiegazione razionale al crollo dell’Inter. Si spiega invece benissimo la tenacia della Juve, pronta ad approfittare dei passi falsi della rivale.
È la tenacia di una squadra non trascendentale all’attacco, ma quanto mai quadrata nelle retrovie, con il tandem centrale Castano-Bercellino a fare da baluardo davanti alla porta di Anzolin nostro.
Appena 19 reti subite in 34 partite rappresentano un risultato che non ha bisogno di commenti.
L’annata scudetto non è l’ultima di Anzolin ad alto livello. Qualche infortunio impedisce al portiere veneto di realizzare il terzo en plein in fatto di presenze in campionato, ma con 24 gettoni Anzolin è ancora il titolare fisso di una Juve che fa pure parecchia strada in Coppa dei Campioni, approdando alle semifinali.
E si ripeterà, puntuale, anche nel 1968-69, con alle spalle il vecchio e saggio Giuliano Sarti. Non è stagione esaltante, ma non ci sono rimproveri per il portiere che per l’ottava stagione consecutiva ha difeso con onore la rete juventina.
Arriverà a 9, giocando ancora l’anno dopo, 1969-70, nella squadra che sta tornando grande e che contrasta sino all’ultimo lo scudetto al Cagliari.
Nove stagioni, per 230 presenze in campionato. Sono cifre che impongono considerazione. È un autentico record. Un primato che soltanto due portieri sono riusciti a superare. Uno si chiama Combi.
ANDREA NOCINI, DA PIANETA-CALCIO.IT DEL DICEMBRE 2010
Tra i più grandi portieri italiani, e, soprattutto, della Juventus, un posto di rilievo lo merita Roberto Anzolin.
Nato a Valdagno, il 18 aprile 1938, “guardiano dei pali” dal fisico tutt’altro che stratosferico o ciclopico, “Ansoncin” sfoderava classe robusta e cuore autentico formatosi nel Marzotto prima e nel Palermo poi.
Nella Vecchia Signora ha collezionato 305 presenze, vincendo una Coppa Italia e uno scudetto, quello che avrebbe dovuto, nel maggio del 1967, cucirsi sul petto delle maglie dell’Inter herreriana, e che invece finì per decorare di tricolore i giocatori in casacca a bande verticali bianche e nere guidati da Heriberto Herrera.
Qualcuno, irridendo il suo fisico non potente (177 centimetri di altezza per 73 chili), ha scritto che a quarant’anni per pesare di più Anzolin si era fatto crescere il baffo.
Qualcun altro, invece, che la sua presenza tra i pali era quella di colui che completava la difesa da perfetto portiere di rendimento.
Ha collezionato una sola presenza nella Nazionale Maggiore, nel 1966, 4 in quella di Serie B, e 4 in quella giovanile, chiuso com’era da Lorenzo Buffon, Lido Vieri, Carburo Negri, Giuliano Sarti e Riccardo Albertosi.
Dopo le 9 stagioni alla Juventus, ha militato nell’Atalanta, nel Lanerossi Vicenza (1971-73), nel Monza, nel Riccione e nel Casale.
È stato anche sulla panchina del Valdagno (stagione 1996-97), ma, gli è sempre piaciuto curare le giovanili alto-vicentine, e oggi allena i Pulcini della Nuova Valdagno, la società del paese cui deve i natali e i primi tuffi da portiere.
Mister, qual è stata la parata più significativa della sua carriera? «La più significativa e forse anche la più bella è stata quando militavo nel Marzotto Valdagno e abbiamo giocato a Venezia: c’è stata un’azione da parte dei lagunari, hanno tirato alla mia destra ed io ho sfoderato una grandissima parata, respingendo la palla, ritornata al limite dell’area; al volo, l’attaccante del Venezia ha calciato nuovamente il pallone, io l’ho abbrancato in presa diretta, in direzione opposta a dove mi trovavo. È quella che ricorderò sempre».
Si ricorda un rigore importante parato? «È successo quando io giocavo nel Palermo, contro la Juventus. Ha tirato Cervato, lo stopper bianconero e della Nazionale, che aveva come tiro una bomba, e sono riuscito a pararlo con i pugni in tuffo e la palla è ritornata a centrocampo, per dire quanto potente era stata la conclusione del giocatore avversario».
Com’è stata la sua prima volta alla Juventus? E chi era l’avvocato Gianni Agnelli? «Quando giocavo nel Palermo, ho disputato due campionati ad alto livello e questi mi hanno permesso di essere acquistato dalla Juventus. Allora, il presidente era Umberto Agnelli. Dopo sono subentrati Catella e Boniperti, e poi c’è stato l’ingresso di Gianni Agnelli. Tutte persone, gli Agnelli, eccezionali, nel vero senso della parola, perché queste persone le ricorderò finché scampo, in quanto persone intelligenti, modeste, anche se avevano alle spalle quello che tutti immaginiamo».
Si ricorda un complimento particolare? «Complimenti ne ho ricevuti parecchi sia da Umberto che da Gianni Agnelli sia da Boniperti. Essendo stato a Torino quasi 10 anni, è vero, ho vinto poco, uno scudetto e una Coppa Italia, però, un giocatore che rimane tanti anni alla Juventus vuol dire che qualcosa di buono sicuramente ha fatto nella sua lunga carriera».
Chi era Roberto Anzolin tra i pali? «Era un freddo, praticamente. È sempre stato un portiere cui non è mai piaciuto sfoderare parate plastiche, ma fare interventi semplici, cercando di ragionare sulle caratteristiche di questo o quest’altro giocatore avversario. Mi spiego: se l’atleta era in una data posizione, io mi mettevo nella sua traiettoria e per il novanta per cento ero sicuro che la palla mi sarebbe arrivata lì. Questo era Anzolin tra i pali. Ma, anche quando giocavo nel Marzotto Valdagno ero uno che usciva fino anche al limite dell’area, mentre oggi sono pochi i portieri che escono dai pali».
Chi erano i suoi più fedeli “angeli custodi” della difesa bianconera? «Io ho cominciato che avevo Castano, Leoncini, Salvadore, Bercellino, Gori anche. Al primo anno, invece, avevo Garzena, Montico, Sarti: erano tutti giocatori che stavano raggiungendo la fine della loro carriera e devo dire che il mio primo anno alla Juventus non è stato molto brillante, in quanto siamo arrivati quint’ultimi. Eravamo una squadra “vecchia”. Di giovani, in linea di massima, c’eravamo io, Salvadore, Castano, Bercellino, Leoncini, Mazzia, mentre tutti gli altri, vedi Emoli, Montico, Charles, Sivori e Stivanello erano ormai in fase calante».
Anche Gino Stacchini, la punta romagnola che flirtò con Raffaella Carrà? «Sì, c’era anche Gino Stacchini: era un’ala sinistra strepitosa. Io non ho mai visto uno andar via in quel modo lì».
Qual è stato il portiere più forte del suo periodo? «In quel mio periodo alla Juventus, tra gli avversari mi avevano impressionato Ghezzi, Buffon, Sarti, Panetti, Cudicini. C’è n’erano parecchi di bravi portieri quando io ero giovane. Io assieme a Lido Vieri eravamo degli emergenti, all’inizio della loro carriera».
Perché poche presenze in Nazionale? «Perché dicevo quello che pensavo, e, purtroppo, pagavo puntualmente la mia esclusione in azzurro. L’unico neo della mia carriera è stato il non essere titolare della Nazionale, qualifica che sicuramente avrei meritato. Ho giocato 25 partite in tutto. Sono stato convocato anche per i Mondiali del 1966 in Inghilterra, però, non ho mai avuto la fortuna di giocare. L’anno dopo, stagione 1966-67, avendo vinto il campionato con la Juventus, sono risultato uno dei portieri meno battuti e più in forma. Però, anche lì sono stato convocato per tappare un buco: c’era Negri del Bologna che aveva un forte risentimento a un ginocchio».
Qual è stato il giocatore che le faceva sempre gol: la sua “bestia nera”? «La mia “bestia nera” era Kurt Hamrin, che aveva giocato alla Juventus al primo anno, per poi passare alla Fiorentina. In quella Fiorentina giganteggiavano grossi nomi, quali Cervato, Hamrin, Segato, in porta c’era Sarti, poi è arrivato Albertosi. Hamrin era uno piccolino, che giocava ala destra, chiamato come ben ricorda lei Uccellino, ed anche quando dalla Fiorentina è passato al Padova, questo qua, quando lo incontravo mi faceva sempre gol. Era proprio la mia “bestia nera”».
Ha mai calciato un rigore? «Sì, ma non in Serie A. Mi è capitato diverse volte quando giocavo a Casale Monferrato, ma sempre in Coppa Italia, mai in campionato. Negli spareggi ai calci di rigore sia con la maglia del Monza che con quella del Casale Monferrato ho sempre battuto l’ultimo calcio di rigore e ho sempre fatto goal».
Di che cosa non dobbiamo dimenticarci nella vita di tutti i giorni? «Non bisogna mai dimenticarci la tranquillità, la serenità, che io ritengo siano le doti migliori, di cui una persona possa godere».
La sofferenza di un’altra persona che cosa le trasmette? «Mi trasmette avvilimento e tristezza, perché stare male non è una cosa che fa piacere. In quest’ultimo periodo ho provato anch’io ad avere dei problemi di salute e so cosa si può provare. Perciò, io auguro a tutti di stare sempre in allegria e fare il possibile per non ammalarsi e per non avere problemi seri».
Lei crede in Dio? «Sì».
Lei cosa si immagina di trovare nell’Aldilà? «Mi auguro di trovare anche lì un po’ di tranquillità, di serenità, perché io penso che quando una persona lascia questa terra, avremo i nostri figli, i nostri nipoti che ci ricorderanno, anche se per loro sarà un dolore immenso. Ma, mi creda, sono cose che quando non ci sarò più, non posso sapere. No, no, no, non me lo immagino proprio».
La morte? «Penso che sia un avvenimento, una cosa brutta, perché uno finché vive su questa terra, io mi auguro di stare bene, di avere degli amici e di avere la possibilità (come sto facendo adesso) di aiutare certa gente, ma, non più di tanto».
Cos’è che le dà più fastidio e maggior rabbia in questo mondo? «Mi commuovo quando vedo per televisione tanti poveri bambini e tanta povera gente che soffre la fame, che soffre un po’ di tutto. Ecco, questa cosa qua mi fa veramente venire le lacrime agli occhi».
E cos’è che non sopporta? «La gente che fa male ad altre persone».
In lei ha vinto più il cuore o la ragione? «Beh, io penso che ha vinto più il cuore, perché io ero un ragazzo, un giocatore che sia in allenamento che nelle gare ufficiali (e sono state tantissime) ho sempre giocato, prima di tutto, per divertirmi. Poi, ho sempre profuso serietà e buona volontà per ottenere quello che potevo ottenere. E, di fatti, ho ottenuto tante soddisfazioni».
Se lei non avesse fatto il portiere professionista, cosa le sarebbe piaciuto fare? «Eh, eh: io guardi ho studiato da tessile, e, se non avessi avuto la fortuna di giocare a pallone, andavo in fabbrica anch’io come mio padre e mia madre».
La sua infanzia, com’è stata? «È stata anche un po’ di sacrificio, visto che da piccolino ho avuto il babbo Bruno che giocava a calcio anche lui ma è stato prigioniero in Germania, mi trovavo solo con altri due fratelli, un maschio (più vecchio) e una femmina (più piccola), Margherita, che oggi abita a Manerbio, nel bresciano. Mia mamma Lina lavorava come operaia nello stabilimento Marzotto. Noi veniamo da una famiglia di operai ed io sono stato il figlio più fortunato perché ho intrapreso la carriera di calciatore».
Ha nipoti? «Sì, ho tre nipoti e sono uno più bello dell’altro. Il più piccolino è Riccardo, dopo c’è Chiara, una bellissima signorina quindicenne, e Giulio, un ragazzo di 17 anni, che è veramente un giovane formidabile».
Giocava in porta anche suo padre Bruno? «No, mio padre giocava mediano. Mio fratello Bruno giocava mediano anche lui, e il io, il più matto di tutti, giocavo in porta».
Come mai si è interrotta la tradizione degli Anzolin mediani? «È stato un dono di natura: sono nato portiere e ho sempre giocato da piccolino da portiere e ho chiuso la mia carriera giocando in porta».
Si tuffava, allora, nei campi dell’operosa Valdagno? «No, nei campi, ma nei sassi, perché, in quel periodo in cui era appena finita la guerra e l’unico pallone era fatto di pezzi di carta di giornale arrotolati. Non avevamo le possibilità che hanno i giovani di oggi. Si giocava in cortile, in mezzo a dei sassi che se ci cadevi sopra, rischiavi veramente di farti del male. Una pallottola, la palla, di stracci di carta, legati tra di loro dallo spago».
Quand’è stata l’ultima volta che ha pianto? «Quando è morto il mio maestro delle giovanili, che si chiamava Gianbattista Servidati, e giocava qua nel Valdagno come portiere. Mi ha seguito fin dalle prime armi, mi ha insegnato tutti i trucchi del mestiere e quando è morto, una decina di anni fa, veramente ho pianto molto, mi sono commosso tanto».
Lei sta ancora insegnando alle giovanissime leve ad Arzignano vicentino: qual è il trucco su cui insiste maggiormente? «Io ho sempre insegnato la tranquillità, la posizione, imparare a tenere la palla, non respingerla sempre come stiamo vedendo oggi in televisione (sono pochi quelli che tengono il pallone), la posizione a seconda di come si sviluppa l’azione (o da sinistra o dalla parte centrale o dalla parte destra) e di non avere coraggio e di non avere paura. Anche perché quando ti tirano in porta da 4-5 metri di quelle botte che non finiscono più, ecco, in quel momento bisogna avere la forza di mettere la mano lo stesso. E insegnavo come dovevano distendere la mano: invece di prendere la palla, diciamo, quasi sulle dita, dovevano mettere il polso, in linea di massima, la giuntura della mano in modo che la palla schizzasse via. Altrimenti, tenere sempre la palla più che era possibile».
È stato un coraggioso in campo: nella vita, invece? «Beh, anche nella vita un po’, direi. Perché? Perché facevo certe cose senza pensarci sopra».
Tipo? «Quando andavo in macchina e da Torino dovevo arrivare a Valdagno, andavo via come un pazzo, correvo come un disgraziato. Comunque, quando passano gli anni, si diventa più tranquilli, più sereni, si ragiona di più. Mentre quando eri giovane, certe cose le facevi senza avere la possibilità di pensarci sopra».
La ringraziamo, mister. «Grazie a lei e arrivederci!».
In collaborazione col sito "Storie di calcio"
Combi è modello di grandezza classica, di stile impeccabile. È retaggio di passato lontano e glorioso. Anzolin è concentrato di tempi moderni, di gloria poca e passeggera, di sudore domenicale molto e non sempre ricompensato da adeguate soddisfazioni sul campo. Sono anche due volti diversi dell’ottuagenaria storia juventina.
Qui vi raccontiamo il più recente e meno classico, oltre che meno celebrato. Vi raccontiamo Anzolin e ve lo raccomandiamo.
Nove stagioni con i colori bianconeri, 9 anni di servizio onorato, spesso incorniciati da prestazioni di tono araldico, quasi sempre conditi di piglio risorgimentale, come si conviene a chi è portiere di una squadra a caccia di grandezza e costretta a lungo a sopportare ruoli di comprimaria.
L’arrivo di Roberto Anzolin da Valdagno in casa juventina coincide con eventi patetici e financo tristi.
Si smonta (estate 1961) la squadra del 12° scudetto, lo scudetto del centenario nazionale, ed è come voltare di colpo una pagina dorata. Boniperti non gioca più, Cervato e Colombo non sono più il centromediano e il mediano sinistro, Sivori c’è ancora, ma da tante cose si intuisce che quell’anno non sarà più lui. Mattrel e Vavassori (e veniamo al dunque) non sono più i portieri.
Arriva Anzolin da Palermo e si piglia la maglia numero 1. Ha 23 anni, ha bruciato praticamente le tappe. Lo attendono momenti autenticamente difficili, ma la tempra c’è e la classe pure.
Purtroppo, nel marasma degli arrivi e delle partenze, non si ritrova più la Juve dell’anno prima.
Il debutto di Anzolin, 27 agosto 1961, Comunale ancora vestito da estate per l’anticipatissima prima di campionato, coincide con una partita, cocente delusione per i tifosi della Zebra.
Il Mantova, matricola assolutamente mai arrivata prima agli onori della A, impone senza troppo faticare un incredibile pareggio alla Juve. 1-1, e Anzolin non c’entra per niente, si capisce.
Ma intanto alle difficoltà del debutto si assommano quelle della precaria condizione della squadra, che sette giorni più tardi affonda all’Appiani.
Il campionato numero uno di Anzolin juventino segue gli alti (pochi) e i bassi (molti, ahimè) della squadra, che chiude inopinatamente dodicesima.
Ci sono giornate dolorosissime per il blasone: a Milano, ad esempio, 12 novembre, 5-1 per i rossoneri che ripresentano per l’occasione quel sacripante di Ghiggia a fare coppia con lo scatenato Altafini.
La difesa juventina è sotto accusa, becca un sacco di goal e non soltanto da attacchi titolati. Il Palermo va a segno 4 volte, violando il Comunale (18 febbraio 1962), e il Palermo non è il Real Madrid.
Passa, fortunatamente, la bufera dell’anno nero. E resta Anzolin, che nessuno si è sognato di mettere in croce per i risultati deludenti raccolti dalla squadra.
È una prova di fiducia che Anzolin ripaga subito. Adesso, col ritorno di Mattrel dal prestito palermitano, c’è un ballottaggio Mattrel-Anzolin per la maglia di titolare. Comincia Mattrel, ma alla fine la spunterà Anzolin.
È un’annata molto diversa, lontana anni luce dalla precedente. Amaral, allenatore “brasilero” con pochissimi capelli e alcune buone idee, escogita formule arcane che sorprendono gli stessi giocatori juventini, ma che in definitiva riportano in alto la Juve.
Anzolin si assesta su livelli di rendimento di assoluto riguardo. Para tutto ciò che è umanamente parabile, si fa apprezzare anche in uscite temerarie. Insomma, si capisce che con lui è risolto per un bel po’ di tempo il problema del portiere.
La Juve che va a un soffio dallo scudetto inciampa al momento buono più per fatalità che per demeriti. Che ci può fare Anzolin se l’Inter ha qualcosa in più dei bianconeri e vince di stretta misura lo scontro diretto? Assolutamente nulla.
Il secondo posto, con 19 presenze da titolare nonostante la rivalità di Mattrel, è successo autentico per Anzolin da Valdagno. Il primo successo.
Seguono tempi di ripensamento, di altalenanti umori, di risultati spesso illogici e comunque raramente esaltanti.
Il campionato 1963-64 vede improvvisamente alla guida della squadra un signore da ‘800 avanzato, il gentiluomo Eraldo Monzeglio, ma non servono maniere signorili per risollevare dalla pochezza del centro classifica una squadra talvolta spaesata.
Anzolin, in quella Juve né carne né pesce, è uno dei pochissimi punti fermi. Gioca 29 volte, come dire che è lui l’indiscusso titolare, e pilota una difesa che va pian piano ritrovando quadratura e dignità.
Poi viene il 1964-65, anno prima dell’era Heriberto Herrera, e la lenta marcia verso il ritmo della Juve alle posizioni di vertice prosegue regolare.
La Juve finisce quarta, l‘Inter e il Milan sono ancora su un altro pianeta, ma è intanto è juventina la difesa più solida e meno perforata, ed è juventino, naturalmente Anzolin, il portiere dal rendimento più costante.
Il pubblico raramente ha motivo di esultare per il gioco. Si pareggia spesso a reti bianche e la maggior parte delle vittorie sono striminzite, 1-0 quasi sempre, con zampate del Menichelli o del Da Costa di turno.
Anzolin non si vede molto, ha stile ma non è un esibizionista, ha classe, ma preferisce l’essenzialità al volo plastico. È quasi sempre il migliore dei suoi.
A Milano contro i nerazzurri (27 dicembre 1964), il portiere bianconero disputa una delle più belle partite della carriera juventina, contribuendo in maniera determinante al pareggio (1-1) che i bianconeri strappano all’Inter.
Anche nel derby di andata, finito nettamente a vantaggio della Juve (3-0) le sue parate sono state determinanti.
La stagione si chiude alla grande, con la conquista della Coppa Italia in una drammatica e avvincente finale con l’Inter. 1-0, goal vincente di Menichelli in apertura, strenua difesa e contropiede per il resto della gara, e decisivi interventi di Anzolin in serata normale, e cioè di vena autentica.
C’è ancora una stagione di transizione e di gioie soffocate e diluite, prima dello scudetto.
Il 1965-66 vede per la prima volta Anzolin collezionare tutti e 34 i gettoni di presenza in campionato. È la sua annata, sotto tutti i punti di vista.
Albertosi è titolare fisso e inamovibile della Nazionale che va ai mondiali, ma tra i convocati di Fabbri c’è anche lui, Roberto Anzolin da Valdagno e la convocazione azzurra, anche se non si traduce in esordio effettivo tra i moschettieri, è pur sempre soddisfazione grandissima.
E arriva, finalmente, lo scudetto a interrompere una lunga serie di piazzamenti a ridosso delle prime.
Juve punti 49, Inter 48 sul filo di lana dell’ultima giornata. Ma il sorpasso, ottenuto a una manciata di minuti dalla fine della stagione, è preparato col meticoloso impegno di settimane, di mesi, in casa juventina.
Anzolin, per la seconda volta consecutiva, assomma 34 presenze tonde. È l’unico bianconero a essere sempre presente, ed è dunque il più indicato a rappresentare l’immagine dello scudetto sofferto e fortemente cercato.
L’immagine del portiere sicurezza, che para il parabile, tutto il parabile, tra l’altro, con una giornata grandiosa, il successo sui rivali neroazzurri nello scontro diretto del 7 maggio 1967 (1-0).
Non c’è spiegazione razionale al crollo dell’Inter. Si spiega invece benissimo la tenacia della Juve, pronta ad approfittare dei passi falsi della rivale.
È la tenacia di una squadra non trascendentale all’attacco, ma quanto mai quadrata nelle retrovie, con il tandem centrale Castano-Bercellino a fare da baluardo davanti alla porta di Anzolin nostro.
Appena 19 reti subite in 34 partite rappresentano un risultato che non ha bisogno di commenti.
L’annata scudetto non è l’ultima di Anzolin ad alto livello. Qualche infortunio impedisce al portiere veneto di realizzare il terzo en plein in fatto di presenze in campionato, ma con 24 gettoni Anzolin è ancora il titolare fisso di una Juve che fa pure parecchia strada in Coppa dei Campioni, approdando alle semifinali.
E si ripeterà, puntuale, anche nel 1968-69, con alle spalle il vecchio e saggio Giuliano Sarti. Non è stagione esaltante, ma non ci sono rimproveri per il portiere che per l’ottava stagione consecutiva ha difeso con onore la rete juventina.
Arriverà a 9, giocando ancora l’anno dopo, 1969-70, nella squadra che sta tornando grande e che contrasta sino all’ultimo lo scudetto al Cagliari.
Nove stagioni, per 230 presenze in campionato. Sono cifre che impongono considerazione. È un autentico record. Un primato che soltanto due portieri sono riusciti a superare. Uno si chiama Combi.
ANDREA NOCINI, DA PIANETA-CALCIO.IT DEL DICEMBRE 2010
Tra i più grandi portieri italiani, e, soprattutto, della Juventus, un posto di rilievo lo merita Roberto Anzolin.
Nato a Valdagno, il 18 aprile 1938, “guardiano dei pali” dal fisico tutt’altro che stratosferico o ciclopico, “Ansoncin” sfoderava classe robusta e cuore autentico formatosi nel Marzotto prima e nel Palermo poi.
Nella Vecchia Signora ha collezionato 305 presenze, vincendo una Coppa Italia e uno scudetto, quello che avrebbe dovuto, nel maggio del 1967, cucirsi sul petto delle maglie dell’Inter herreriana, e che invece finì per decorare di tricolore i giocatori in casacca a bande verticali bianche e nere guidati da Heriberto Herrera.
Qualcuno, irridendo il suo fisico non potente (177 centimetri di altezza per 73 chili), ha scritto che a quarant’anni per pesare di più Anzolin si era fatto crescere il baffo.
Qualcun altro, invece, che la sua presenza tra i pali era quella di colui che completava la difesa da perfetto portiere di rendimento.
Ha collezionato una sola presenza nella Nazionale Maggiore, nel 1966, 4 in quella di Serie B, e 4 in quella giovanile, chiuso com’era da Lorenzo Buffon, Lido Vieri, Carburo Negri, Giuliano Sarti e Riccardo Albertosi.
Dopo le 9 stagioni alla Juventus, ha militato nell’Atalanta, nel Lanerossi Vicenza (1971-73), nel Monza, nel Riccione e nel Casale.
È stato anche sulla panchina del Valdagno (stagione 1996-97), ma, gli è sempre piaciuto curare le giovanili alto-vicentine, e oggi allena i Pulcini della Nuova Valdagno, la società del paese cui deve i natali e i primi tuffi da portiere.
Mister, qual è stata la parata più significativa della sua carriera? «La più significativa e forse anche la più bella è stata quando militavo nel Marzotto Valdagno e abbiamo giocato a Venezia: c’è stata un’azione da parte dei lagunari, hanno tirato alla mia destra ed io ho sfoderato una grandissima parata, respingendo la palla, ritornata al limite dell’area; al volo, l’attaccante del Venezia ha calciato nuovamente il pallone, io l’ho abbrancato in presa diretta, in direzione opposta a dove mi trovavo. È quella che ricorderò sempre».
Si ricorda un rigore importante parato? «È successo quando io giocavo nel Palermo, contro la Juventus. Ha tirato Cervato, lo stopper bianconero e della Nazionale, che aveva come tiro una bomba, e sono riuscito a pararlo con i pugni in tuffo e la palla è ritornata a centrocampo, per dire quanto potente era stata la conclusione del giocatore avversario».
Com’è stata la sua prima volta alla Juventus? E chi era l’avvocato Gianni Agnelli? «Quando giocavo nel Palermo, ho disputato due campionati ad alto livello e questi mi hanno permesso di essere acquistato dalla Juventus. Allora, il presidente era Umberto Agnelli. Dopo sono subentrati Catella e Boniperti, e poi c’è stato l’ingresso di Gianni Agnelli. Tutte persone, gli Agnelli, eccezionali, nel vero senso della parola, perché queste persone le ricorderò finché scampo, in quanto persone intelligenti, modeste, anche se avevano alle spalle quello che tutti immaginiamo».
Si ricorda un complimento particolare? «Complimenti ne ho ricevuti parecchi sia da Umberto che da Gianni Agnelli sia da Boniperti. Essendo stato a Torino quasi 10 anni, è vero, ho vinto poco, uno scudetto e una Coppa Italia, però, un giocatore che rimane tanti anni alla Juventus vuol dire che qualcosa di buono sicuramente ha fatto nella sua lunga carriera».
Chi era Roberto Anzolin tra i pali? «Era un freddo, praticamente. È sempre stato un portiere cui non è mai piaciuto sfoderare parate plastiche, ma fare interventi semplici, cercando di ragionare sulle caratteristiche di questo o quest’altro giocatore avversario. Mi spiego: se l’atleta era in una data posizione, io mi mettevo nella sua traiettoria e per il novanta per cento ero sicuro che la palla mi sarebbe arrivata lì. Questo era Anzolin tra i pali. Ma, anche quando giocavo nel Marzotto Valdagno ero uno che usciva fino anche al limite dell’area, mentre oggi sono pochi i portieri che escono dai pali».
Chi erano i suoi più fedeli “angeli custodi” della difesa bianconera? «Io ho cominciato che avevo Castano, Leoncini, Salvadore, Bercellino, Gori anche. Al primo anno, invece, avevo Garzena, Montico, Sarti: erano tutti giocatori che stavano raggiungendo la fine della loro carriera e devo dire che il mio primo anno alla Juventus non è stato molto brillante, in quanto siamo arrivati quint’ultimi. Eravamo una squadra “vecchia”. Di giovani, in linea di massima, c’eravamo io, Salvadore, Castano, Bercellino, Leoncini, Mazzia, mentre tutti gli altri, vedi Emoli, Montico, Charles, Sivori e Stivanello erano ormai in fase calante».
Anche Gino Stacchini, la punta romagnola che flirtò con Raffaella Carrà? «Sì, c’era anche Gino Stacchini: era un’ala sinistra strepitosa. Io non ho mai visto uno andar via in quel modo lì».
Qual è stato il portiere più forte del suo periodo? «In quel mio periodo alla Juventus, tra gli avversari mi avevano impressionato Ghezzi, Buffon, Sarti, Panetti, Cudicini. C’è n’erano parecchi di bravi portieri quando io ero giovane. Io assieme a Lido Vieri eravamo degli emergenti, all’inizio della loro carriera».
Perché poche presenze in Nazionale? «Perché dicevo quello che pensavo, e, purtroppo, pagavo puntualmente la mia esclusione in azzurro. L’unico neo della mia carriera è stato il non essere titolare della Nazionale, qualifica che sicuramente avrei meritato. Ho giocato 25 partite in tutto. Sono stato convocato anche per i Mondiali del 1966 in Inghilterra, però, non ho mai avuto la fortuna di giocare. L’anno dopo, stagione 1966-67, avendo vinto il campionato con la Juventus, sono risultato uno dei portieri meno battuti e più in forma. Però, anche lì sono stato convocato per tappare un buco: c’era Negri del Bologna che aveva un forte risentimento a un ginocchio».
Qual è stato il giocatore che le faceva sempre gol: la sua “bestia nera”? «La mia “bestia nera” era Kurt Hamrin, che aveva giocato alla Juventus al primo anno, per poi passare alla Fiorentina. In quella Fiorentina giganteggiavano grossi nomi, quali Cervato, Hamrin, Segato, in porta c’era Sarti, poi è arrivato Albertosi. Hamrin era uno piccolino, che giocava ala destra, chiamato come ben ricorda lei Uccellino, ed anche quando dalla Fiorentina è passato al Padova, questo qua, quando lo incontravo mi faceva sempre gol. Era proprio la mia “bestia nera”».
Ha mai calciato un rigore? «Sì, ma non in Serie A. Mi è capitato diverse volte quando giocavo a Casale Monferrato, ma sempre in Coppa Italia, mai in campionato. Negli spareggi ai calci di rigore sia con la maglia del Monza che con quella del Casale Monferrato ho sempre battuto l’ultimo calcio di rigore e ho sempre fatto goal».
Di che cosa non dobbiamo dimenticarci nella vita di tutti i giorni? «Non bisogna mai dimenticarci la tranquillità, la serenità, che io ritengo siano le doti migliori, di cui una persona possa godere».
La sofferenza di un’altra persona che cosa le trasmette? «Mi trasmette avvilimento e tristezza, perché stare male non è una cosa che fa piacere. In quest’ultimo periodo ho provato anch’io ad avere dei problemi di salute e so cosa si può provare. Perciò, io auguro a tutti di stare sempre in allegria e fare il possibile per non ammalarsi e per non avere problemi seri».
Lei crede in Dio? «Sì».
Lei cosa si immagina di trovare nell’Aldilà? «Mi auguro di trovare anche lì un po’ di tranquillità, di serenità, perché io penso che quando una persona lascia questa terra, avremo i nostri figli, i nostri nipoti che ci ricorderanno, anche se per loro sarà un dolore immenso. Ma, mi creda, sono cose che quando non ci sarò più, non posso sapere. No, no, no, non me lo immagino proprio».
La morte? «Penso che sia un avvenimento, una cosa brutta, perché uno finché vive su questa terra, io mi auguro di stare bene, di avere degli amici e di avere la possibilità (come sto facendo adesso) di aiutare certa gente, ma, non più di tanto».
Cos’è che le dà più fastidio e maggior rabbia in questo mondo? «Mi commuovo quando vedo per televisione tanti poveri bambini e tanta povera gente che soffre la fame, che soffre un po’ di tutto. Ecco, questa cosa qua mi fa veramente venire le lacrime agli occhi».
E cos’è che non sopporta? «La gente che fa male ad altre persone».
In lei ha vinto più il cuore o la ragione? «Beh, io penso che ha vinto più il cuore, perché io ero un ragazzo, un giocatore che sia in allenamento che nelle gare ufficiali (e sono state tantissime) ho sempre giocato, prima di tutto, per divertirmi. Poi, ho sempre profuso serietà e buona volontà per ottenere quello che potevo ottenere. E, di fatti, ho ottenuto tante soddisfazioni».
Se lei non avesse fatto il portiere professionista, cosa le sarebbe piaciuto fare? «Eh, eh: io guardi ho studiato da tessile, e, se non avessi avuto la fortuna di giocare a pallone, andavo in fabbrica anch’io come mio padre e mia madre».
La sua infanzia, com’è stata? «È stata anche un po’ di sacrificio, visto che da piccolino ho avuto il babbo Bruno che giocava a calcio anche lui ma è stato prigioniero in Germania, mi trovavo solo con altri due fratelli, un maschio (più vecchio) e una femmina (più piccola), Margherita, che oggi abita a Manerbio, nel bresciano. Mia mamma Lina lavorava come operaia nello stabilimento Marzotto. Noi veniamo da una famiglia di operai ed io sono stato il figlio più fortunato perché ho intrapreso la carriera di calciatore».
Ha nipoti? «Sì, ho tre nipoti e sono uno più bello dell’altro. Il più piccolino è Riccardo, dopo c’è Chiara, una bellissima signorina quindicenne, e Giulio, un ragazzo di 17 anni, che è veramente un giovane formidabile».
Giocava in porta anche suo padre Bruno? «No, mio padre giocava mediano. Mio fratello Bruno giocava mediano anche lui, e il io, il più matto di tutti, giocavo in porta».
Come mai si è interrotta la tradizione degli Anzolin mediani? «È stato un dono di natura: sono nato portiere e ho sempre giocato da piccolino da portiere e ho chiuso la mia carriera giocando in porta».
Si tuffava, allora, nei campi dell’operosa Valdagno? «No, nei campi, ma nei sassi, perché, in quel periodo in cui era appena finita la guerra e l’unico pallone era fatto di pezzi di carta di giornale arrotolati. Non avevamo le possibilità che hanno i giovani di oggi. Si giocava in cortile, in mezzo a dei sassi che se ci cadevi sopra, rischiavi veramente di farti del male. Una pallottola, la palla, di stracci di carta, legati tra di loro dallo spago».
Quand’è stata l’ultima volta che ha pianto? «Quando è morto il mio maestro delle giovanili, che si chiamava Gianbattista Servidati, e giocava qua nel Valdagno come portiere. Mi ha seguito fin dalle prime armi, mi ha insegnato tutti i trucchi del mestiere e quando è morto, una decina di anni fa, veramente ho pianto molto, mi sono commosso tanto».
Lei sta ancora insegnando alle giovanissime leve ad Arzignano vicentino: qual è il trucco su cui insiste maggiormente? «Io ho sempre insegnato la tranquillità, la posizione, imparare a tenere la palla, non respingerla sempre come stiamo vedendo oggi in televisione (sono pochi quelli che tengono il pallone), la posizione a seconda di come si sviluppa l’azione (o da sinistra o dalla parte centrale o dalla parte destra) e di non avere coraggio e di non avere paura. Anche perché quando ti tirano in porta da 4-5 metri di quelle botte che non finiscono più, ecco, in quel momento bisogna avere la forza di mettere la mano lo stesso. E insegnavo come dovevano distendere la mano: invece di prendere la palla, diciamo, quasi sulle dita, dovevano mettere il polso, in linea di massima, la giuntura della mano in modo che la palla schizzasse via. Altrimenti, tenere sempre la palla più che era possibile».
È stato un coraggioso in campo: nella vita, invece? «Beh, anche nella vita un po’, direi. Perché? Perché facevo certe cose senza pensarci sopra».
Tipo? «Quando andavo in macchina e da Torino dovevo arrivare a Valdagno, andavo via come un pazzo, correvo come un disgraziato. Comunque, quando passano gli anni, si diventa più tranquilli, più sereni, si ragiona di più. Mentre quando eri giovane, certe cose le facevi senza avere la possibilità di pensarci sopra».
La ringraziamo, mister. «Grazie a lei e arrivederci!».
In collaborazione col sito "Storie di calcio"
6 commenti:
Un Caro Saluto al grande Roberto, grande portiere del 13° scudetto. Con Lui non ci sarebbe stata Corea. Ricordo le sue grandissime partite di quel Campionato ed in particolare un Fiorentina-Juve vinto dalla "Juve operaia" dove lui parò praticamente tutto e compì un ennesimo miracolo al novantesimo sul quale l'arbitro fischiò la fine. "Il pallone termina meritatamente fra le mani di Anzolin" , così il cronista RAI concluse la telecrona del 2° tempo come si usava a quei tempi. Ciao Roberto grande di un calcio che non c'è più.
Ciao Roberto,sei stato un grande professionista,un grande portiere....Nel 1966/67 avevo 11 anni ed ero allo stadio nella partita contro la Lazio che vi portò il 13 scudetto battendo sul filo di lana l'Inter.
Mi piacerebbe incontrarti perchè credo che nel calcio di oggi professionisti come te non ce ne siano molti......
F.C.JUVENTUS :: 1 Anzolin 2Gori 3Leoncini 4Bercellino 5Castano 6Salvadore 7Favalli 8Del Sol 9De Paoli 10Cinesinho 11Menichelli 12Colombo 13Zigoni 14Sarti 15Stacchini 16Causio 17Sacco 18 Rinero 19Coramini 20Roveta 21Fioravanti.......all.Herrera Heriberto (ragazzi movimiento...)
Ciao Roberto un grande del calcio Italiano e mondiale.....
Grandissima figura, e non solo perchè ero un ragazzino...un vero signore, un vero sportivo...era molto raro vederlo o ascoltarlo in una intervista; ricordo però una trasmissione radiofonica d'intrattenimento di quegli anni, in cui lui ed altri calciatori della juve erano invitati. Dovevano indicare ciascuno una canzone o un motivo preferito, e per la prima volta sentii la voce di Roberto che scelse (con mia delusione, essendo un ragazzino9) un brano di lirica...chissà se ne è ancora appassionato..tanti auguri, Roberto!
Caro Roberto,se sono diventato tifoso della Juve lo devo a te......eri il mio idolo!!dopo aver letto la tua intevista mi sono commosso,e posso assicurarti che nel mio Cuore ci sara'sempre
un posto di privilegio.
Il 20 Mggio2015, ho visitato le famose 52 Gallerie del Pasubio, (che consiglio a tutti una visita)veramente emozionante,qui la storia si accomuna alla tua,con esito divarso!!! un zuccata pazzesca ,e molto dolorosa,ma..senza il conforto di nessuna anima femminile! Un Abbraccio a te e Fam.
la formazione che ricordo io partiva e memoria con Anzolin, Gori, Sarti, Leoncini e chiudeva Bercellini I° Bercellino II° e Stacchini e Menichelli, Roberto mi ha sognare e forse ora da lassù' sorridi a questo sessantatreenne che da bambino hai fatto sognare Ruggero Rucci
Ciao grande Anzolin, un ricordo su tutti, la sera di fine agosto del 1965 quando con le tue parate difendemmo il gol di Menichelli segnato dopo pochi minuti e con la nostra vittoria in Coppa Italia (era la quinta volta) facemmo saltare il triplete alla grande Inter di Helenio Herrera, ero un bambino di sette anni e sento ancora la voce del radiocronista: "grandissima parata di Anzolin!" (finale a Roma, partita secca in campo neutro, sulla carta non c'era confronto, pubblico romano che tifava per i più deboli, che allora eravamo noi), sei stato il portiere della Juventus della mia infanzia e fanciullezza, con te fra i pali non ci sarebbe stato né il gol di Cislenko, né quello di Pak Do Ik, ciao grande Roberto resterai sempre nel mio cuore e nei miei pensieri.
Posta un commento