Una vita da predestinato – scrive Gabriele Marcotti sul “GS” dell’aprile 2019 – e non potrebbe essere altrimenti, dal momento che di lui si parla da quando era bambino. Siamo nel Galles meridionale, a Caerphilly, cittadina nota per il formaggio dallo stesso nome. Un posto fuori dal comune. Qui, già nel secondo secolo, gli antichi romani avevano costruito un fortino, ai piedi del monte Caerphilly. Qui, quasi mille anni dopo, il leggendario guerriero Ifor Bach respinse l’avanzata dei Normanni che conquistarono la vicina Inghilterra ma dovettero fermarsi di fronte alla furia gallese. Qui, nel 1976, il comune – nonostante le vivaci proteste dei cittadini – diede l’OK a un concerto dei Sex Pistols quando il gruppo punk era bandito in quasi tutto il paese.
Qui nacque Aaron James Ramsey il giorno di Santo Stefano del 1990. Che fosse una specie di bambin prodigio lo si capì quasi da subito. Studente modello alla Ysgol Gyfun Cwm Rhymni (dove le lezioni sono rigorosamente in gallese e l’inglese si studia da seconda lingua) il giovane Aaron si mise in luce in vari sport, dall’atletica, al calcio, al rugby che da queste parti è una specie di religione. Aaron accontentava tutti ma a un certo punto dovette scegliere. Arrivarono offerte sia dal calcio (Cardiff City) che da entrambi i codici di rugby: il rugby union, quello che si pratica anche da noi (giocava da ala nelle giovanili del Caerphilly) e il rugby league (la versione a tredici, dove il St.Helens tentò in ogni modo di convincerlo).
Aaron però optò per il calcio e firmò per il Cardiff City a soli otto anni. Il cammino era già tracciato. Otto anni più tardi, ne aveva sedici e 124 giorni, arrivò il debutto in prima squadra. Era il 28 aprile 2007 - il giorno prima il club lo aveva fatto chiamare a scuola, chiedendogli di recarsi subito al centro sportivo per partecipare alla rifinitura. Quel sabato entrò a un minuto dal termine contro l’Hull City. «Ho la sensazione, anzi, la certezza, che questo ragazzino lo rivedremo presto», disse il commentatore della radio locale. Ci azzeccò in pieno. E così fu. Pochi mesi dopo esordì in Under 21 e a gennaio della stagione successiva divenne titolare, a soli diciassette anni. L’estate successiva arrivò la chiamata di un certo Arsene Wenger.
Anzi, non solo la chiamata, ma la vera e propria “seduzione”. Wenger mandò un aereo privato a prelevare Ramsey, papà Kevin, mamma Marlene e il fratellino Josh, portandoli in Svizzera dove i Gunners svolgevano il ritiro pre-campionato. Per due giorni Wenger li marcò stretto, raccontando per filo e per segno il piano che aveva in mente per Ramsey.
L’Arsenal era in transizione, il progetto del francese prevedeva costruire un nucleo di giovani e talentuosi britannici. Due anni prima era arrivato a suon di milioni Theo Walcott, che Sven Goran Eriksson aveva portato ai Mondiali sudafricani alla tenera età di sedici anni. Quell’estate arrivò pure il fantasista Samir Nasri, ventunenne francese. Con lui Cesc Fabregas, ventuno anni appena compiuti. E nelle giovanili scalpitava già – e avrebbe esordito in prima squadra da lì a poco – Jack Wilshere, già battezzato il “nuovo Liam Brady” dal popolo dei Gunners. Wenger spiegò a Ramsey che sarebbe stato parte integrante di questo progetto, che questo nucleo di giovani talenti sarebbe stato l’asse portante dell’Arsenal per il prossimo decennio... un po’ come la famosa “Quinta del Buitre” al Real Madrid o la “Class of 92” al Manchester United.
Ramsey si sentì pronto per il passaggio a Londra e, per giunta, in una big. Passò all’Arsenal per circa 5,5 milioni di euro, non poco per uno non ancora maggiorenne. Wenger, che non ha mai posto limiti alla fantasia e ai sogni, parlò apertamente del suo progetto-giovani e lo paragonò addirittura a Steven Gerrard, che aveva appena capitanato il Liverpool a due finali Champions League.
Si sa come andò a finire il progetto. Fabregas rimase per altre tre stagioni, prima di rientrare al “suo” Barcellona con Pep Guardiola, per poi – ironia della sorte – tornare a Londra, ma in sponda Chelsea. Nasri durò due stagioni, prima di puntare i piedi per farsi cedere al Manchester City dei nuovi ricchi. E poi la sua carriera si sfaldò, tra squalifiche per doping e problemi disciplinari e coniugali. Attualmente è di nuovo a Londra, cercando il riscatto tramite un contratto a gettone con il West Ham. Lì ha ritrovato Wilshere, che dopo un inizio carriera tra alti e bassi è stato martoriato dagli infortuni prima di finire agli Hammers la scorsa estate da svincolato. E l’altro baby d’oro, Theo Walcott? L’Arsenal lo ha mollato un anno fa, mandandolo all’Everton. Pure per lui, un decennio di aspettative disattese e infortuni. Ed è significativo che di tutti questi ragazzini di Wenger, quello che è durato più di tutti è Ramsey. Che, tra l’altro, è forse stato anche il più amato dai tifosi. Un po’ per l’umiltà, un po’ perché attorno a lui vi sono sempre state personalità più appariscenti, un po’ – forse – perché non essendo inglese la stampa non pretendeva dal ragazzo la luna.
Eppure anche Ramsey ha dovuto patire momenti difficili. Dopo una prima stagione di ambientamento (segnata da un bellissimo gol in Champions League contro il Fenerbahçe), al secondo anno si impose da punto fisso, salvo poi subire un bruttissimo infortunio in una partita contro lo Stoke City. Un giorno orrendo, da dimenticare, con il difensore Ryan Shawcross che lo centrò in pieno, procurandogli una doppia frattura scomposta alla tibia e alla fibula. Ramsey rimase lontano dai campi da gioco per ben nove mesi. L’impatto fisico era stato terribile, quello psicologico pure. Al punto che Wenger decise di mandarlo in prestito, convinto che per recuperare appieno doveva lasciare temporaneamente l’Arsenal e liberarsi la testa. Andò al Nottingham Forest per qualche partita, prima del ritorno a casa a Cardiff, terminando la stagione 2010-11 di nuovo ai Gunners, dove il primo maggio, contro nientemeno che il Manchester United, segnò l’unica rete delle partita. Rambo (lo chiamano tutti così da quando aveva undici anni e in campo si faceva già... sentire) era tornato.
E da quel momento è stato per molti versi il cuore battente dei Gunners. Ma, pure, con qualche rimpianto per il solito problema: gli infortuni. Nel 2013-14 vinse il premio di giocatore dell’anno segnando dieci gol in Premier League (più altri cinque in Champions) ma un brutto infortunio contro il West Ham – a Santo Stefano, proprio il giorno del suo compleanno – lo costrinse a uno stop di tre mesi e mezzo. La sua assenza costò cara all’Arsenal e a Wenger. Al momento dell’infortunio i Gunners erano primi in classifica, con un punto di vantaggio sul Manchester City. Quando tornò, ad aprile, erano quarti, staccati di ben dieci punti. E, nel frattempo, erano stati eliminati dal Bayern in Champions. Ramsey si rifece segnando il gol vincente nella finale di FA Cup, ma il rammarico rimane. Non lo sapremo mai, ma forse la storia del club avrebbe preso una piega ben diversa se non avesse perso il suo uomo-chiave a metà cammino.
Le ultime stagioni di Ramsey all’Emirates sono coincise con il lento declino di Arsene Wenger e poi, la scorsa estate l’avvicendamento con Unai Emery. Gli infortuni – più frequenti ma meno seri – lo hanno sicuramente limitato. Da titolare ha disputato poco più della metà delle gare di campionato dal 2014 a oggi. Un po’ per infortuni, un po’ il subbuglio intorno al club, ma mai per mancanza di applicazione o professionalità. Già, perché in questo sono tutti d’accordo: Ramsey è un modello (in tutti i sensi, anche quello letterale, dal momento che nel 2011 firmò pure un contratto da modello con l’agenzia Elite). La decisione del club di offrirgli il rinnovo lo scorso settembre, salvo poi cambiare idea pochi giorni dopo, è dovuta a questioni di bilancio (i mega-stipendi dei vari Ozil, Aubameyang e Mkhitaryan) non da perplessità nei confronti del giocatore.
Ma lui è pronto per la nuova avventura assieme alla moglie Colleen (sua fidanzatina d’infanzia) e al piccolo figlio. E, senza dubbio, la famiglia verrà spesso a trovarlo a Torino. Perché dopo un decennio all’Arsenal, Rambo ha bisogno di una sfida nuova.
FABIANA DELLA VALLE, DA GAZZETTA.IT DEL PRIMO FEBBRAIO 2022
Si dice che il buongiorno si vede dal mattino e se ripensiamo a come è cominciata la storia tra Aaron Ramsey e la Signora un fondo di verità c’è. Rewind: agosto 2019, la stagione della Juventus targata Maurizio Sarri inizia senza il tecnico in panchina (bloccato da un problema di salute) e anche senza il colpo a parametro zero di Fabio Paratici. Il centrocampista gallese preso a scadenza dall’Arsenal firma a febbraio ma arriva a Torino cinque mesi dopo e il suo inserimento in bianconero inizia dal J Medical, perché non ancora al top dopo la lesione al bicipite femorale del ginocchio sinistro che lo costrinse a 130 giorni di stop.
Lo storico raccontava già di un giocatore fragile, che nei cinque anni con i Gunners non aveva mai saltato meno di dieci partite a stagione. Paratici però si fece ingolosire dall’opportunità di prenderlo senza dover pagare il cartellino, offrendogli un ingaggio da sette milioni netti fino al 2023. D’altronde la Juventus nel passato recente aveva fatto affaroni con i parametri zero, da Pirlo a Pogba da Dani Alves a Khedira giusto per citarne alcuni. Stavolta invece no. Tre anni dopo è difficile sostenere che nell’operazione Ramsey i benefici siano stati maggiori dei costi, tanto che ieri il suo trasferimento ai Rangers Glasgow (prestito con diritto di riscatto fissato a sei milioni, con la Juventus che contribuirà a pagare parte dell’ingaggio) è stato festeggiato dai tifosi quasi quanto l’acquisto di Vlahovic.
Dopo aver rifiutato tutte le opzioni, alla fine Aaron ha accettato l’ultima offerta a un soffio dal gong. Lascia Torino dopo settanta presenze e sei gol: 3043 minuti in totale, di cui 112 (poco più di una gara intera) in questa stagione. L’ultima apparizione è del 20 ottobre, sei minuti nel finale di Zenit-Juve di Champions. Per il resto, trentotto match saltati per infortunio e 212 giorni out, con la ciliegina finale del Covid: troppo condizionanti i problemi fisici. La sua stella si è accesa pochissimo, il momento più alto la gara con l’Inter nel primo anno italiano, quando segnò un gol pesante in chiave scudetto e poi fece l’assist per il 2-0 di Dybala.
Troppo poco, considerando quello che è costato alla dirigenza bianconera: Ramsey, che con i bonus è arrivato a guadagnare oltre otto milioni a stagione, per la Juventus al lordo è stato un investimento complessivo da 26,4 milioni (due anni con stipendio da 10,4 più gli ultimi sette mesi della stagione in corso a sei). A conti fatti, la Juventus ha speso per lui in media 8.800 euro lordi al minuto durante la sua permanenza torinese. Se poi consideriamo solo il 2020-21, che è il periodo in cui ha giocato meno, si arriva al costo di 53.571 euro lordi al minuto. Morale: non tutti i parametri zero escono con il buco. E ora alla Juventus tutti sperano che l’arrivederci a giugno si trasformerà in addio, per liberarsi con un anno d’anticipo di uno stipendio troppo pesante.
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