Paolo Viganò di Seregno sarebbe il tipo perfetto dell’imprenditore nord-italiano in versione brianzola – afferma Andrea Aloi sul “Guerin Sportivo” del 23-29 aprile 2002 –: cinquantadue anni, lingua furba, rispetto per i dané, che mica si vincono alla Sisal. Una volta giocava. Tra i ‘60 e i ‘70 era un terzino di fatica, in squadre che non avevano ancora purgato talenti e mattane perché circolava ovunque, all’epoca, una bell’aria incasinata. Juve e Roma da pulcinone cresciuto, poi Palermo in A e B, Brescia, Novara in C1, Monza.
Del presidente monzese Giovanni Cappelletti ha sposato la figlia Renata, smesso col calcio ha lavorato per lui e dopo si è messo in proprio. A Nord di Milano, dritti verso i laghi, è terra di nobile pallone e di mobilieri. Cuoio e legno, i lilla di Legnano e i maestri della pialla, un vivaio di buoni piedi e divani, cucine, infissi. Capannoni e villini, stretti, fitte formichine. Gadda nel “pieno” ci lesse un deserto. «Ho cominciato a giocare all’oratorio di Seregno e da lì mi ha preso il Cusano Milanino. La casa vecchia di Trapattoni è proprio attaccata al campo e quando lui si affacciava alla finestra come il Papa noi giovincelli andavamo a salutarlo. Mio papà era artigiano, sempre campo del mobile. I piccoli si sono spostati in Veneto, qui in Brianza e a Pesaro adesso ci sono le ditte grosse. Produco colla vinilica per incollare porte, finestre, parquet».
E, detta onestamente, non gliene potrebbe fregare di meno. La spontanea allegria di ex biondo vitaiolo galleggia sugli aneddoti del calciatore che era, ci parli mezz’ora e la chiacchiera di “futball” va sul fondo di qualche rimpianto a spigolo vivo, la sua cognizione del dolore. Viganò conosce Oriali, Braida, Trapattoni, è uno del giro. Ds, dt e compagnia dirigente gli hanno fatto promesse: «Ma tra il dire e il fare... A me piacerebbe visionare i giocatori, andare per partite, al Torneo di Viareggio ad esempio. Stare in ufficio non mi diverte. Mi avessero detto: “Paolo, vai in Sudamerica e fa ballare l’occhio”, un’offerta precisa, un incarico. Mai venuti al sodo. “Ci sentiamo, ci vediamo” e zero. L’allenatore? No, per l’amor di Dio. Quando ci vediamo a cena con Cagni, che è un amico di famiglia, gli dico sempre: “Io non ho fatto l’allenatore ma ho tutti i capelli e tutte le unghie. Cambia mestiere, va bene che guadagni, però se devi star male lascia perdere”. Gigi è un nevrotico. Bisogna essere portati come Capello o il Trap, Giovanni è una macchinetta, parla, parla, ti strega e ti fa rivenire la voglia di giocare».
Paolo ha smesso a Monza, stagione ‘80-81 di B, ultimi e retrocessi: «Ci avevo giocato già nel ‘71-72 e non eravamo finiti in C per un pelo. Ci sono tornato anche se ero sulla trentina per dare una mano, non navigavano in acque tranquille. In squadra avevamo Monelli e Massaro giovanissimi. Mio suocero non era più presidente effettivo, era arrivato Valentino Giambelli che per l’81-82 chiamò Braida come direttore sportivo e l’Ariedo mi chiese: “Vuoi continuare?”. Risposta: “Mi sono stufato”. Volevo darla su e no, spunta mio suocero: “Mi ha telefonato il presidente del Forlì, prova ad andare a sentirlo”. Pensavo fosse un primo contatto, così, per tastare il terreno. Macché, si erano messi d’accordo, tanto che a Forlì Giovanni Bianchi era deciso: “Paolo, tuo suocero ha detto che giochi nel Forlì". Ciao, sono tornato a casa e ho messo in chiaro: “Io a calcio non ci gioco più”».
Forza, aereo e Stati Uniti. Il cavalier Cappelletti produceva macchinari per il legname e aveva aperto laggiù due stabilimenti. «Sono partito con due operai italiani, almeno potevo parlare in brianzolo. Se ero da solo tornavo dopo un mese. Ero già sposato, con una figlia, Veronica, e stava nascendo il secondo, Alessandro. Ha vent’anni, col calcio l’ho disilluso subito: “Sei mica adatto, neanche per la C, non perdiamo tempo”. A me danno fastidio tutti ‘sti padri che si lamentano: “Guardi che mio figlio è bravo, non gli danno una possibilità”. Balle, ci sono tre milioni di osservatori che battono l’Italia e ti pescano anche nel paesino. Io e Oriali abbiamo iniziato nel Cusano eppure ci hanno visto».
Viganò dice del Trap, però anche lui è un discreto juke-box. Calma. Negli Usa a fare che di preciso? «Roba di trance e tranciato. Spiego: se porti in Italia i tronchi non tagliati, ti occupano un sacco di spazio, se li tagli in loco con le trance, le sfogliatrici, e li trasformi in tranciato occupi meno posto. In un container di tranciato ci metti l’equivalente di dieci container di tronchi, abbatti le spese di trasporto e ti ritrovi il legno pronto per impiallacciare mobili e finestre. Perché c’è l’impiallacciato e il massello. Dunque...».
Dunque succede che Paolo sale i primi gradini nel Seregno e nel ‘64 la Juve gli fa un fischio. Trambusto in casa Viganò. «I miei erano all’antica, dovevo viaggiare dallo studio alla chiesa e viceversa: “Oh, tu a Torino da solo? Ma sei matto?”. Sono venuti a vedere il collegio, non si fidavano. Avevo quattordici anni, ne ho fatti cinque di collegio, c’era anche Causio. Il primo mese da piangere, in un clima un po’ da caserma. Piloni, che era più vecchio, mi dava gli ordini: “Comprami le sigarette, rifammi il letto”. Andavo al cinema con Pulici, che stava nel collegio del Toro, il mio era in via Susa. Tre tram per arrivare all’allenamento e in mensa non sceglievi, quello che ti davano dovevi mangiare. Come che sia, in Primavera guadagnavo già di più che a lavorare».
Nel 68-69 Viganò e uno junior bianconero e frequenta la prima squadra di Heriberto Herrera il giusto per capire che le preoccupazioni di mamma e papa erano un pelo fondate: «Bob Vieri e Zigoni, una cosa folle. A quei tempi in una squadra c’erano dieci pazzi e quattro buoni, ora no. Bob era matto come un cavallo, una volta è finito al Sestriere con la Porsche e per una settimana è sparito. E Del Sol...».
No, il probo Luisito no, per favore. «Sì, invece. Diceva tranquillo alla moglie: “Stasera vado al night”. E si presentava la mattina dopo all’allenamento in giacca e cravatta. Correva come una bestia e fumava Gauloise. Pure Vieri fumava e beveva. Il più matto di tutti però era Giuliano Fiorini, il centravanti, mio compagno al Brescia nel ‘76-77: una mattina è arrivato al campo in tuta da rally, aveva corso la notte intera. Una faccia tosta: “Allora, ci alleniamo?”. “Va là, è meglio che dormi”, gli ho detto e lui si è sdraiato su una panchina».
Un altro passo. Vigano nel ‘69-70 si aggrega alla De Martino. Rabitti, subentrato a Carniglia, lo fa esordire in aprile contro la Roma. Quindici minuti di A e, la domenica seguente, un match intero contro il Bari sul neutro di Napoli, al posto di Salvadore, uno che avrebbe giocato con le stampelle. «Sandro era attaccato al lavoro e ai soldi. Si andava in ritiro e tirava su le merendine, gli asciugamani, le saponette e portava a casa. Un giorno Zigoni gli ha rovesciato la valigia e tutti gli abiti si sono macchiati di marmellata».
Due presenze alla Juve «e nell’estate del ‘70 sono passato alla Roma di Helenio Herrera con Del Sol, Zigoni e Bob Vieri, in cambio di Capello, Spinosi e Fausto Landini. Io ero l’aggiunta, il buon peso. È stato l’anno del militare, mi hanno fatto giocare una partita, contro il Toro. Non si tratta di fortuna o sfortuna, i più bravi vanno avanti. Bettega nel ‘69 l’avevano mandato a Varese per maturare fisicamente, di modo che aumentasse la potenza muscolare: di testa non la prendeva mai, neanche se gliela tiravano addosso. A diciotto anni io ero già maturo, gli davo dieci metri nello scatto, ma tecnicamente Roberto era eccezionale, palleggiava di destro e sinistro con una naturalezza incredibile».
Per l’anno romano, non servono dolcificanti: «Un disastro. Mi avevano proposto l’Atalanta in B e la Roma in A. Helenio mi convinse, era un incantatore di serpenti: “Lei è meglio di Spinosi”. E sì, non giocavo mai Credevo di sfangarmi bene il militare alla Cecchignola, vicino alla squadra, ma con quindici giorni di fila in caserma come ti alleni? Ho ricominciato da capo col Monza in B. Puntava a salvarsi, ci siamo riusciti a fatica».
Nuovo bivio nel ‘72: Sampdoria in B o Palermo in A? «Nessuno voleva andare in Sicilia e per questo invogliavano pagando bene. Aggiungiamo che volevo stare in A». E giocando s’impara: «Ero un corridore, un combattente generoso, destro non male, mancino manco a parlarne, però l’ho allenato, a Roma e al Brescia con Angelillo nel ‘76, e alla fine colpivo bene. A forza di esercizi ha imparato a crossare anche uno come Gentile. Di testa saltavo poco da fermo, nello slancio andavo in alto: pure qui è un difetto che l’allenatore deve cogliere e correggere, se vuoi alzarti da fermo serve una preparazione muscolare speciale. La Rosa nel Palermo era uno e sessanta e li anticipava tutti».
Aeroporto di Punta Raisi. Il lombardo apre lo sportello, gli viene male: «Un caldo tremendo, africano. Si immagini i dubbi che mi sono venuti. Ma là il tifo è il più bello del mondo, mi hanno sistemato all’hotel Palace di Mondello e ci ho vissuto quattro anni, fino al ‘76, ottimamente. In un’isola hai la sensazione del chiuso da principio, poi ti abitui. Tornavo a casa in febbraio e, fra nebbia e freddo, non vedevo l’ora di riprendere l’aereo per Palermo».
Albergo al mare, soldini. Si può ipotizzare anche un discreto “movimiento”. «Poco ma sicuro. C’erano pro e contro. Sul campo d’allenamento mancava l’erba e l’acqua l’avevamo un giorno sì e l’altro no. Però a fine mese quello che guadagnavo a Palermo non l’avrei preso da nessuna parte».
Paolo è in squadra con Arcoleo, Reja, l’ex juventino Favalli e il centrattacco storico Tano Troja. «Quello era il mio livello di A, come un Verona, un Lecce di oggi, lì potevo giocare, non di più».
Venticinque partite e retrocessione. «Avevo marcato bene Anastasi e girava voce che la Juve potesse richiamarmi. Ma Viciani, il nuovo allenatore, ha voluto assolutamente tenermi e con stipendio aumentato. A Palermo avevo tutto, mi mancava solo la serie A».
L’esperienza («bellissima») continua, nel ‘74-75 arriva il centravanti Braida dal Cesena, l’anno seguente è l’ultimo: «Mi ero sposato, i dirigenti credevano che avrei tirato i remi in barca e mi hanno venduto al Brescia, lì ho conosciuto Altobelli, Beccalossi e Cagni. Si viveva tranquilli: un’oretta ed ero a casa. Due anni e nel ‘78 sono andato al Novara, per la serie “i casotti di mio suocero”, che era amico del presidente Tarantola. Allenava Bolchi, capiva la mia svogliatezza e mi lasciava fare avanti e indietro con Monza. Ci si allenava una volta al giorno».
Un’altra stagione e dirittura d’arrivo al Monza. «Undici anni fa ho ripreso col calcio per sei mesi. Mio suocero era morto e Giambelli, il nuovo presidente, per riconoscenza verso di lui, mi ha chiamato nel Monza. Seguivo un po’ gli allenamenti, accompagnavo la squadra in trasferta. Non era un compito ben definito, ho lasciato perdere. Il resto sono promesse, Oriali che mi diceva “vieni a Bologna con me”. Così, genericamente. Un posticino per me non si è trovato e all’Inter avranno tremila osservatori. Mi scoccia».
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