L’incontro fra la Juve e il Trap avviene in sordina. Il tecnico milanese, conclusa una brillante carriera di calciatore, aveva ereditato dal Cesare Maldini la panchina del Milan nelle ultime sei giornate del campionato 1973-74, era stato poi il secondo di Giagnoni l’anno successivo e aveva infine guidato la squadra rossonera al 9° posto del 1975-76. Decide di chiudere, al Milan pensano a Marchioro e non insistono più di tanto.
Si fanno avanti Atalanta e Pescara, Giovanni è lusingato ma qualcuno lo ferma. È Piercesare Baretti, vicedirettore di Tuttosport: «Aspetta a dire sì, la Juve sta pensando a te». La Juve? Sì, dopo il sorpasso subito dal Torino campione, Parola ha il futuro segnato, tornerà alle giovanili. Agnelli e Boniperti hanno scelto. Il futuro è Trapattoni.
È presentato con un comunicato rimasto storico per l’involontaria ilarità suscitata. Recita, in poche parole che, «andando in pensione per raggiunti limiti di età il responsabile del settore giovanile Ugo Locatelli, questi veniva rimpiazzato da Cestmír Vycpálek, Parola passava al settore osservatori e quindi la prima squadra era affidata a Giovanni Trapattoni». Non suscita ilarità, soprattutto negli avversari, la Juve del Trap, che ha voluto, in cambio di Capello e Anastasi, due elementi di cui si fida ciecamente: quel Romeo Benetti che anni prima la Juve aveva follemente ceduto alla Samp con l’aggiunta di 270 milioni per Bob Vieri e quel Boninsegna da anni considerato alla frutta ma che continua a non trovare eredi altrettanto caparbi. Dai cambi la Juve incassa, a conguaglio, oltre un miliardo.
«È la condizione fisica che conta non i numeri scritti sulla carta di identità, e da questo punto di vista Boninsegna promette altre due o tre stagioni ad alto livello. Quanto al resto, si sapeva benissimo che erano cose riparabili. Boninsegna è un uomo intelligente. Da noi ha ritrovato stimoli, buon senso, slancio. Abbiamo avuto un Boninsegna all’altezza delle sue annate migliori. Benetti? È l’uomo ad hoc per un certo tipo di calcio. Quel calcio che andiamo tutti predicando, ma che a tutti non riesce di realizzare».
Il talento di Cabrini gli esplode tra le mani. Il duello col Torino, stavolta, è vinto. Allo sprint, 51 punti contro 50, una sfida a ritmi indiavolati. Scudetto numero 17, alla faccia della cabala, e in più c’è l’Europa che chiama. Coppa Uefa, la finale contro l’Atletico Bilbao finisce in gloria. «Dodici minuti senza uscire dalla nostra area. Ma vincemmo la Coppa Uefa, per differenza reti. La prima Coppa europea della Juve». Che inizio, l’inizio del Trap.
«Due innesti, quelli di Boninsegna e Benetti appunto e qualche accorgimento tattico. Tardelli interno, per esempio. Lo seguivo da almeno un anno. Mi avevano impressionato il suo eccezionale dinamismo, la sua straordinaria versatilità a inserirsi sulla fascia destra e a destra noi avevamo un Causio che spesso usciva di zona per andare a “lavorare” al centro o alla sinistra. Tardelli poteva essere l’uomo giusto per coprire questa fascia in complemento a Causio. La soluzione non venne subito. All’inizio anzi facemmo esperimenti diversi, in quella zona feci giocare anche Cuccureddu, ma poi l’incarico fu affidato in… pianta stabile a Tardelli. Il tutto “condito” da una certa accentuazione del movimento collettivo. Cabrini? Gli abbiamo dato spazio in campo nazionale e internazionale. Ovunque ha fatto quel che doveva fare con disinvoltura, naturalezza, sicurezza. Sarà una colonna della Juventus del domani».
L’irlandese tranquillo. Si chiama Liam Brady, è il primo straniero della Juve dopo la riapertura delle frontiere. Porta classe e due scudetti, il 3° e il 4° del l’era Trapattoni. Nel 1980-81 il Trap gli consegna la maglia numero 10 di una squadra senza acuti, una sorta di cooperativa del gol di cui alla fine l’irlandese sarà il miglior realizzatore, a quota 8o. Quello del 1981-82 è il tricolore della seconda stella. Si risolve a 15 minuti dal fischio finale dell’ultima sfida, a Catanzaro. L’irlandese sa già che dovrà andarsene, per fare spazio a Platini e Boniek, ma ha un cuore grande come la sua terra, e un’anima nobile: esce di scena realizzando il rigore che vale il campionato.
Re Michel parte in salita, arriva a Torino malato in una stagione, il 1982-83, che dovrebbe essere di gloria assoluta: «Nessuno ha mai avuto il nostro potenziale, in attacco» assicura il Trap. Pensa a Platini, Boniek, Rossi, Bettega. In campo l’alchimia non funziona, sullo scudetto mette le mani la Roma. Resta la Coppa dei Campioni, il sogno mai realizzato. Ci arriva a un passo, la Juve. Ma la lascia nelle mani dell’Amburgo, ad Atene, il 25 maggio del 1983. La delusione è forte, Trapattoni è a un passo dall’abbandono. «Non dormii tutta la notte. L’Avvocato mi chiamò alle 7 e mezza, perché la leggenda delle telefonate antelucane non è vera, era troppo educato, e mi disse: i tedeschi ci hanno insegnato a leggere e a scrivere».
La società lo ferma, e non sbaglia. Arrivano Coppa Italia e Mundialito per club, re Michel si risveglia. L’anno dopo segna a raffica e guida il gruppo che mette le mani su campionato e Coppa delle Coppe. Bel tipo, Platini. Idee calcistiche praticamente opposte a quelle del Trap, lingua abbastanza lunga per discuterne: «Mister, andiamo avanti, perché se teniamo la palla lontana dalla nostra area rischiamo meno». «Bravo, Michel. Ma intanto fammi vedere chi ce l’ha, la palla». Bel tipo, Platini. Inimitabile, Trap. Così diversi, così uguali nella voglia di arrivare, di vincere.
Nemmeno un’ombra di sorriso, in fondo a una stagione arricchita dal successo più grande, quello che ancora mancava in bacheca. Una stagione in salita, dopo l’addio di Boniek, di Rossi, di Tardelli, con Platini che si lecca le ferite di un Europeo vissuto da trionfatore. Quel 29 maggio 1985, allora, è l’appuntamento con la gloria. Da non perdere per niente al mondo. E dovrebbe finire in festa, dovrebbe. Invece ci sono quegli attimi di follia, ci sono le facce rabbiose dei teppisti inglesi, c’è il disorientamento della polizia belga. Heysel, Bruxelles: Juventus batte Liverpool 1-0, e 39 vite spezzate, 39 corpi portati via in fretta dagli spalti. Si gioca, si vince. Ma come si fa a sorridere? «Questa ferita resterà sempre aperta» sussurra Giovanni Trapattoni. Che entra nella storia nel giorno in cui la storia ha altro a cui pensare.
L’ultima sfida. L’anno del commiato, appunto. Finisce tutto lì, a Lecce. Con il 6° scudetto in 10 anni, e un bilancio da far paura: 462 partite a dirigere la Juventus, signora del calcio, dalla panchina. Con quei 6 tricolori, con 2 Coppe Italia, una Coppa dei Campioni, una Coppa delle Coppe, una Coppa Uefa, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa, un Mundialito. Ricordi, per uno come il Trap. Che certo affiorano, sulla panchina di Lecce, ma subito tornano al loro posto. Non c’è tempo, per i ricordi. Bisogna pensare al futuro: nerazzurro.
«Lo scudetto più bello? Difficile dirlo. Il primo non lo dimentichi più, ti affascina e ti frastorna. Poi ricordo con soddisfazione quello vinto con la Juve dei Fanna e dei Marocchino, una squadra tutta grinta e volontà. Ma importante è stato anche il 6°, l’ultimo in bianconero. Segnava il passaggio da un’epoca all’altra, i superstiti del primo titolo erano ormai pochi. Gli juventini del 1977 erano ragazzi che Boniperti si era scelto e allevato uno per uno. In una giornata definiva il contratto di tutti. Sapeva essere duro, sapeva essere generoso. Poi c’era l’Avvocato. Arrivava negli spogliatoi e trattava allo stesso modo Platini e il magazziniere. Amava la Juve, ma quando gli chiesi di comprare Paolo Rossi rispose di no: “Costa troppo e noi abbiamo migliaia di cassintegrati. Potrebbe fare un altro nome?”. Non mi ha mai dato un ordine, credo non ne abbia mai dati in vita sua, i suoi ordini erano domande: “Ma perché quell’ala sinistra non gioca mai?”».
L’altra Juve è un capitolo amaro. Tre stagioni. Accolto come la salvezza dopo la caduta di Maifredi, sulle braci adesso, insieme all’amico Boniperti, bollato anche lui come retaggio di un calcio antico e superato. I discorsi di sempre: difensivista, noioso, bollito. E il mito del Vincente che si appanna per colpa di una squadra che appare sfibrata e stanca, di un gruppo che sta perdendo la sua forza. Non è servita neppure la Coppa Uefa vinta l’anno precedente, stagione 1992-93, mettendo in fila Benfica, Paris St. Germain e Borussia. Con quel trio d’attacco, Baggio-Vialli-Möller, su cui contava per rinverdire i fasti dell’altra Juve, quella di Boniek-Rossi-Platini prima, di Laudrup-Platini-Serena poi.
Invece è un’altra storia. Non serve sapere che dopo il Milan dell’era Capello, comunque, ci sono i suoi ragazzi. Non serve evidenziare l’irresistibile ascesa di Moreno Torricelli, un giocatore (l’ultimo dei tanti) su cui ha scommesso, signor Nessuno che è diventato un piccolo re. Basta, si chiude e questa volta è per sempre: «Ho dovuto sentire troppe volgarità, a un certo punto avevo pensato anche di lasciare il calcio, di cambiare vita».
Forse è proprio vero, i luoghi della gloria non andrebbero mai rivisitati. Nemmeno se ci hai vissuto i tuoi giorni migliori. Non è mai stato facile, d’accordo, neanche quando vinceva quello che nessun altro aveva vinto. Nemmeno ad Atene, era stato facile. Ma questa Juve, la sua seconda Juve, è una macchia sul vestito buono. «Trapattoni, vattene» recita lo striscione della curva. È il 2 aprile 1994, è il tempo degli addii. E in fondo quella frase secca, ingrata, se l’aspettava. Lo attaccano tutti, mica solo la gente dagli spalti. I giocatori si difendono dalle critiche confidando, nemmeno troppo sottovoce, i loro malesseri. Non tutti, ma quelli che bastano per far saltare gli equilibri. Lo scaricano, gli dicono che è vecchio, per questo calcio. E Giovanni Trapattoni, abituato a lottare e a incuriosirti di tutto, non ci sta. «Non è serio, questo mondo. Non mi preoccupa aver ricevuto il benservito, ma avrei voluto che arrivasse a maggio, se non altro per la serenità di tutti».
Lo ha capito anche lui che è un altro mondo. Ma non per questo rinuncia a lottare. «Anche l’Avvocato mi ha telefonato. Mi ha spiegato, con pacatezza, che bisogna dar spazio ai giovani. Anche io sono vecchio, mi ha detto. D’accordo, largo al nuovo che avanza, ma io non mi arrendo. Perché ho ancora l’entusiasmo di un ventenne».
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