Per quasi quattro anni, a Leonardo Bonucci – scrive Fabio Ellena su “Hurrà Juventus” dell’agosto 2010 – Vinovo non ha evocato ricordi idilliaci. La ragione è da ricercare nella stagione 2006-07 quando, non ancora ventenne, era uno dei punti di forza della Primavera dell’Inter che fece capolino due volte allo stadio Chisoia, dove rimediò un 5-1 in Supercoppa (tripletta di De Ceglie) e un 2-0 nell’andata della finale di Coppa Italia (a segno ancora De Ceglie e Giovinco). Da allora qualcosa è successo nella carriera del giovane azzurro. Ha conosciuto il calcio professionistico, ha assaggiato la Serie A, ne è diventato uno degli enfant prodige e a ventitré anni si è meritato un viaggio con destinazione Sudafrica.
Prima, ovviamente, dell’arrivo alla Juventus. La squadra di cui è tifoso fin da bambino e di cui è destinato a diventare un protagonista.Ora Vinovo per Leonardo significa Juventus Center, la sua nuova casa: «D’ora in avanti avrà un significato diverso per essere ricordata e speriamo per lungo tempo. È incredibile pensare che quattro anni fa ero in Primavera, come Marchisio, De Ceglie, Lanzafame e Giovinco, allora avversari, e ora siamo tutti qui. Inoltre miei ex compagni come Balotelli, Biabiany e Andreolli sono arrivati in alto. Segno che Juventus e Inter hanno investito e creduto molto sui giovani in questi anni».
Veniamo a oggi. Nel tuo primo giorno da juventino avevi detto «Quando ci sono fame di lavorare e umiltà, basta una sola settimana di riposo per ricaricarsi». In vacanza hai resistito quasi venti giorni, ma sei tornato prima del tempo. «Avevo recuperato le energie mentali in vista della lunga stagione che ci attende. Il mister mi aveva dato libertà di scelta e con lui ho concordato di rientrare già a Pinzolo per preparare l’impegno in Europa League. Inoltre, per il mio fisico, all’inizio faccio un po’ fatica a entrare in condizione e quindi ho preferito qualche giorno in più di lavoro».
La tua è stata un’estate non proprio normale. «Io e la mia compagna Martina volevamo fare il tour degli Stati Uniti, ma quando ho ricevuto la prima convocazione per i Mondiali abbiamo cambiato i piani. Alla fine abbiamo optato per una vacanza più rilassante alle Bahamas, tra spiaggia e mare. Purtroppo è piovuto sette giorni su dieci ma ho avuto modo di sfruttare il periodo per prepararmi alla stagione».
Cioè? «Ero insieme a Camoranesi e alla sua famiglia. Mauro mi ha spiegato tanto del mondo Juve, mi ha parlato del centro sportivo e anche di Torino, la città in cui verrò a vivere».
Avete parlato anche del Mondiale? «Anche se l’avventura è andata male, per me quella sudafricana resterà un’esperienza molto positiva e fa un certo effetto averla vissuta a ventitré anni. L’atmosfera che si respira in questa competizione è diversa da quelle di un campionato nazionale o di una coppa europea. È il massimo per un calciatore».
Bahamas a parte, hai continuato a guardare le partite in TV? «Non ho visto quasi niente. Anche perché prima di partire ho trascorso un periodo a casa e mi hanno impegnato il tempo con visite a centri estivi e a scuole. A Viterbo, tutti mi trattano come un re. Della zona è originario anche Angelo Peruzzi, ma lui è nato in provincia, io sono l’unico cresciuto in città. Sono l’elemento di spicco della Tuscia».
Un ponte con il mondo Juve lo avrai tenuto. Che idea ti sei fatto della squadra? «Leggevo le notizie su internet e sono sempre rimasto in contatto con il mio procuratore. L’idea che mi sono fatto è estremamente positiva. Anche nei giorni trascorsi a Pinzolo ho visto tanta voglia di lavorare e fare bene. La squadra vuole cancellare un’annata negativa e fare proprie le indicazioni del mister».
A proposito di Delneri. Hai già parlato con lui?
«Fortunatamente il suo 4-4-2 è simile al modulo che utilizzavamo a Bari con Ventura. Anche se ogni allenatore ha le proprie particolarità, i movimenti sono simili e questo mi avvantaggerà».
Hai scelto ancora la maglia numero diciannove. «Ce l’avevo già a Bari e mi ha portato molto bene. È il giorno di nascita di Martina. Inoltre so che in passato, qui alla Juve, lo indossava Zambrotta, un altro che come me ha fatto il salto da Bari a Torino. L’ho potuto conoscere in Nazionale, è una grande persona e un vero professionista. Spero di poter emulare la sua carriera».
Squadra a parte, cosa hai capito del tuo nuovo club? «Il giorno in cui ho fatto le visite mediche, in sede c’era un Consiglio di Amministrazione e quindi ho potuto conoscere i vertici della società. Andrea Agnelli mi è sembrato un presidente voglioso, che punta al massimo. Questa è la mentalità che dobbiamo avere anche noi giocatori».
Essere arrivato qui a ventitré anni cosa significa per te? «È l’inizio di una nuova entusiasmante avventura. Un punto di partenza per la mia carriera. Ma anche la realizzazione di un sogno che avevo fin da piccolo: sono sempre stato tifoso della Juventus, una sorta di pecora nera in una famiglia di interisti. Nella mia camera c’era il poster di Del Piero e una foto che mi avevano scattato insieme a Peruzzi».
Del Piero, da idolo a compagno di squadra. «Questa cosa mi ha fatto davvero effetto. Alessandro si è subito dimostrato un ragazzo tranquillo, simpatico e soprattutto umile. Lui, insieme a Zidane, è stato uno dei miei modelli quando, da ragazzo, giocavo in posizioni più offensive».
Quindi non sei nato difensore. Raccontaci la tua storia da calciatore... «Ho iniziato in una società dilettantistica, il Pianoscarano, poi sono passato alla Viterbese. Giocavo centrocampista centrale ed esterno, per un po’ ho anche fatto la punta. La svolta è arrivata l’anno della Berretti. Il mio allenatore era Carlo Perrone, ex giocatore di Lazio e Roma: il mio grande maestro, l’uomo che mi ha insegnato a stare più tranquillo in campo, senza strafare. Inoltre ha visto in me le caratteristiche del difensore centrale e questa è stata la mia fortuna».
Una sorta di trampolino di lancio. «Nell’ultimo anno a Viterbo ho sfiorato l’esordio in C2. Poi sono passato all’Inter dove ho giocato due stagioni con la Primavera e ho esordito in Serie A. Il salto nei professionisti c’è stato a Treviso dove sono rimasto una stagione e mezza con mister Pillon, prima di trasferirmi a Pisa, dove ho conosciuto Giampiero Ventura, che mi ha fatto giocare tutte le partite e che poi mi ha voluto a Bari. Lo scorso campionato è stato incredibile, non ho saltato un solo minuto, nonostante abbia giocato le ultime diciotto partite in diffida. E ora sono qui per continuare a crescere. E, speriamo, a vincere».
SANDRO SCARPA, JUVENTIBUS.COM, IL 24 NOVEMBRE 2016
Leo entra nel romanzo decadentista della Vecchia Signora, senza appeal e senza gloria. Ai nuovi boss, Marotta e Paratici, l’idea Bonucci balena in un ennesimo surreale groviglio: devono liberarsi della metà di Criscito e sbarazzarsi di Almiron, parcheggiato proprio a Bari. Un vortice rutilante di scambi ed ecco arrivare Leo, “il meno bravo dei due”. Inizia così il romanzo horror: Leo è in una difesa zombie composta da Motta, Grygera, Traoré, Legrottaglie, Sørensen, Grosso, Rinaudo e De Ceglie con davanti Melo e Aquilani. Paura, eh? Lui e Chiellini vengono morsi dalla vampiresca spirale delneriana e la Juve viene sepolta viva da quarantasette reti. A gennaio arriva dal Wolfsburg per quindici casse di rhum anche Barzagli e il trio comincia un lungo sodalizio dentro e fuori dal campo che li porterà poi a raccontarsi, intorno a un camino, storie di terrore come i cross di De Ceglie e le diagonali di Motta.
In estate altra sliding door narrativa: la Juve punta Bruno Alves, in Russia con Criscito e Spalletti, che in cambio chiede Leo e Pepe. Potrebbe essere l’inizio di un romanzo russo, ma lo scambio salta e Bonucci diventa il soldato LeonardoBi, alter ego immaginario, come in un poema epico.
Se nel primo anno un misto di supponenza e poca concentrazione lo porta a cadere nelle proverbiali bonucciate, ora due figure da Pigmalione plasmano caratterialmente il nuovo Bonni che scende a patti col Diavolo Conte e il numero satanico 3-5-2 e viene forgiato mentalmente dal Motivatore con mentine all’aglio e sevizie psicologiche. Leo diventa cattivo, concentrato e spietato come il reduce di un romanzo bellico post Vietnam e comincia a non commettere più errori, a spingersi più avanti, a tenere palla al piede più spesso.
È l’ora del riscatto: con Conte e come il Conte di Montecristo, Leo diventa un pilastro della BBC e scrive il romanzo della terza stella, iniziando l’epopea di una difesa da leggenda. È il trionfo, Bonni è ormai un difensore completo e si gode lo scudetto, ma come nelle favole arriva l’implacabile nemico a mettere a repentaglio la vita dell’eroe. Alcuni loschi figuri di Scommessopoli, per avere sconti di pena, tirano dentro il nostro Leo. Palazzi chiede tre anni e sei mesi sia in primo grado sia in appello. È una tragicommedia avvolta in un legal trhiller. Zero prove, accuse ridicole, eppure in tanti, nella tagliola della giustizia, patteggiano per evitare la fine di una carriera. Bonni no, come Pepe (anche lui scampato alla deportazione russa), non scende a patti e va a processo. Pensateci, tre anni e sei mesi a partire da settembre 2012, con fine pena a febbraio 2016, magari per ricominciare dalla Viterbese o dal Bari...
È l’ennesima svolta psicologica. Ciò che non ti uccide ti fortifica. Bonucci, come i bianconeri eroi del Mondiale 2006, quell’estate non dovrebbe giocare Euro 2012, secondo giornalisti da operette morali. Per la stampa è un criminale, feccia da cui ripulire il calcio. Bonni, Cassano e Balotelli sono i Bastardi senza Gloria della Nazionale che arriverà poi in finale con la Spagna. Ancora una volta, come figura ricorrenti di un romanzo, a rimetterci è Criscito, escluso ingiustamente da quegli Europei. La Juve non lo molla ma anzi gli consegna un’emblematica fascia di capitano in un’amichevole estiva contro il Benfica. Bonni viene assolto.
Da quel momento Bonucci diventa un idolo per il popolo bianconero e l’incarnazione del male per gli altri. Arrogante, indisponente, implacabile e impunito con la Juve, deconcentrato e brocco a volte in Nazionale, come in Brasile. È quello che esulta in modo volgare, che umilia rivali e tifoserie invitandoli a sciacquarsi la bocca (esultanza frutto di scherzi con gli amici, come a dire «Visto, non sono un bidone!»). È quello che schernisce gli avversari («Noi siamo in Champions, il Napoli in Europa League!»). È il bullo spericolato che affronta un rapinatore che minaccia la sua famiglia. È l’uomo più odiato della squadra più odiata. È quello del pasticciaccio brutto di Rocchi in Juve-Roma.
L’odio nei suoi confronti lo fa bollare come rozzo e limitato, eppure viene esaltato dal migliore romanziere esteta del calcio attuale, Guardiola, che dice di lui: «È da sempre uno dei miei calciatori preferiti».
Il culmine di questo romanzo criminale Bonucci lo raggiunge con la testata (per alcuni sono le testate) a Rizzoli. In quell’occasione la natura criminale di Bonucci si fonde con poteri da supereroe fantasy: un’onda energetica parte dal suo capoccione per colpire violentemente, ma senza contatto, l’arbitro bolognese.
E arriviamo al presente. Dopo la parentesi (speriamo chiusa per sempre) di un breve dramma familiare che sembra ormai risolto, Bonni si attira finalmente stima e solidarietà anche delle altre tifoserie. Le sue lacrime in TV lo rendono un eroe vulnerabile e dopo il nuovo poemetto epico degli Europei francesi, chiuso sul più bello dai rigori di Zaza e Pellè (i quali diventano i nuovi bersagli facili), anche i tifosi avversari ne riconoscono finalmente qualità calcistica e la forza caratteriale. Stimato da Conte e Pep, chiude e imposta alla Beckenbauer (paragone non più azzardato) e soprattutto è l’uomo dei gol decisivi. I tifosi della Juve hanno smesso di considerarlo quello buono solo nel 3-5-2, gli altri hanno smesso di odiarlo perché arrogante e scarso ma continuano a farlo perché è arrogante e forte.
La settima stagione a Torino, seppur globalmente positiva sul lato sportivo, è negativa su quello ambientale, col calciatore reo di comportamenti che a lungo andare logorano il rapporto sia col tecnico Allegri sia con lo spogliatoio: il 17 febbraio, infatti, nella netta vittoria per 4-1 contro il Palermo, un pubblico alterco a bordocampo con Allegri gli costa l’esclusione dalla successiva trasferta di Coppa Campioni contro il Porto (che seguirà malinconicamente seduto in tribuna su uno sgabello) prima avvisaglia dell’addio che si consumerà a fine stagione.
Intanto, però, mette in bacheca la Coppa Italia e il sesto titolo italiano di fila: Leo, insieme ai compagni di squadra Barzagli, Buffon, Chiellini, Lichtsteiner e Marchisio, è per sei volte campione d’Italia. Il 3 giugno a Cardiff gioca la sua ultima partita in maglia juventina nella finale di Coppa dei Campioni, persa contro il Real Madrid. Il rapporto con il sodalizio torinese si interrompe bruscamente nell’estate 2017: al termine di una trattativa lampo tra due storiche rivali che sorprende addetti ai lavori e tifosi, il 20 luglio il giocatore passa al Milan per quarantadue milioni di euro.
GIANCARLO LIVIANO D’ARCANGELO, JUVENTIBUS.COM DEL 1° MAGGIO 2017
Per quel che mi riguarda la prima volta che ho pensato davvero che Leonardo Bonucci non fosse solo un bravissimo difensore moderno, attaccato alla maglia, ma che potesse essere un vero e proprio re taumaturgo (nella definizione del celebre storico francese Ernst Bloch, i re taumaturghi erano i monarchi francesi e britannici che secondo le credenze popolari avevano doti sovrannaturali da guaritori di infezioni cutanee come la scrofola o adenite tubercolare), è stata il 9 febbraio del 2013 quando, durante un Juventus-Fiorentina di campionato non era nemmeno in campo. Era in curva con i tifosi, nelle prime file subito dietro alla porta, e proprio mentre riceveva un coro in suo onore (Leo veniva già da due campionati da titolare, quattro gol, uno scudetto e tanto amore dei tifosi conquistato sul campo), sulle parole Leonardo Bonucci alé, Mirko Vucinic, uno dei centravanti più belli da vedere, più finemente schermidori, più cavalieri e al contempo più allergici al gol della recente storia juventina, insaccava proprio sotto Leo una splendida volée di destro, dai venticinque metri, una traiettoria perfetta per balistica e stile di esecuzione: stop di suola, rimbalzo, passetto rallentato di preparazione e colpo di cannone, proprio come nei sogni di bambino.
Indurre al gol Vucinic, che forse senza che il nome di Leo fosse inneggiato in piena trance agonistica, avrebbe centrato in pieno la traversa: più taumaturgo di così... Ma che Leo avesse doti calcistiche sopra la media, da fuoriclasse, se non sovrannaturali, cominciava a intravvedersi anche in campo. Iniziava a lanciare a quaranta metri con una precisione incredibile. Sempre nei tempi di gioco giusti per approfittare del fattore sorpresa. Dai suoi lanci nascevano gol splendidi e voluti, pensati, preparati, un unicum assoluto nel panorama calcistico mondiale. Ma non solo.
Leonardo Bonucci aveva iniziato una crescita caratteriale e tecnica da vero leader. All’improvviso, dopo un gol decisivo, splendido in demi volée e decisivo contro la Roma (che soddisfazione quando i rivali scambiano se stessi per cigni mentre poi si rivelano passerotti spelacchiati), uscì sui giornali la notizia che l’artefice principale della maturazione di Bonucci fosse il suo motivatore personale, Alberto Ferrarini, professione mental coach che rilasciava dichiarazione come questa: «Sabato sera abbiamo lavorato tre ore in albergo per preparare la partita. Nuovi segreti? Finito il nostro lavoro ho dato a Leonardo delle caramelle all’aglio. Prodotti naturali, immangiabili. I soldati centinaia di anni fa mangiavano l’aglio per mantenersi forti, sani e lucidi in battaglia. Leo è un soldato e mangiando quelle caramelle è come lo avessi fatto tornare alle sue origini. Gli ho detto anche di alitare in faccia a Gervinho e Totti... La cosa più importante è stato il raggiungimento dell’obiettivo: la vittoria. Mi sono arrabbiato subito con Leo, non voglio sentirgli parlare di rete più importante della carriera come ha fatto nel post gara. Deve stare sul pezzo: il gol più importante sarà il prossimo e sarà sempre così. Obiettivi nuovi? Dimenticare la Roma, essere più consapevoli della propria forza e avere più fame di ieri».
Letteratura di piccolo cabotaggio? Forse. Ma negli effetti in campo, questa fame, questa volontà da marines confermata anche dal taglio di capelli militaresco, questa capacità di afferrare l’attimo che spesso per i campioni è pura ondulazione dialettica tra destino e forza di volontà, pura capacità superiore di omeostasi tra climax delle partite importanti e proprie reazioni atletiche e nervose.
Rivediamolo quel gol decisivo, il più decisivo, finora, della sua carriera. È il 91’ di Juventus Roma, le due squadre sono sul 2-2. Rocchi è stato sfortunato. Ha concesso due rigori alla Juventus, entrambi realizzati da Tevez, e uno alla Roma, gol di Totti (mai a segno su azione contro la Juventus a Torino nella lunghissima carriera), dopo che Iturbe (che soddisfazione quando l’intera stampa nazionale racconta come uno scudetto l’acquisto per più di trenta milioni di un presunto cigno che dopo poco si rivela una rondine comune già migrata sulle coste albioniche di Bournemouth) aveva portato in vantaggio i giallorossi.
Il clima è teso. Porterà alla solita interrogazione parlamentare e uno sfogo a cuore aperto del capitano avversario. Dovrebbero fare un campionato a parte, cosa poi in effetti accaduta, con diciassette punti di vantaggio in classifica finale.
Ma intanto è sempre il 91’ e un pallone viene crossato in area da Marchisio, è un assedio finale in vero un po’ disordinato, la vocazione difensiva interiorizzata nei geni non è richiesta; serve di più un colpo magico, estemporaneo quanto magico. Respinge di testa Yanga Mbiwa, nemmeno troppo male, svettando aitante e concentrando potenza. La palla s’innalza e cade a palombella in posizione centrale, al limite dell’area. E lì c’è Leo, che non ha paura. Chi tira al volo sa che basta poco per fare una figuraccia, ma il re taumaturgo è defilato, per coordinarsi deve spostarsi a mezzaluna da sinistra a destra, calcola il tempo e, quando è certo dell’impatto, s’avventa come un’aquila e colpisce alla perfezione, da centravanti di tecnica sopraffina e la volée è un colpo arcuato e teso, che come una corda di violino sembra congiungere un punto all’altro di un percorso perfetto, il piede di Leo e l’angolino basso del gol, lasciando risuonare una melodia dolce.
Il re taumaturgo sforna altri campionati straordinari, cresce in Europa, segna altri gol da virtuoso del pallone, altri troneggiando di testa, altri ancora in area, sempre sfoggiando il trittico delle delizie delle sue doti principali: senso della posizione, tecnica, voglia di vincere incrollabile. E le solite, chiare doti sovrannaturali e taumaturgiche, come dimostrano le sue prove nelle ultime settimane. Da fantasma è apparso davanti a Higuaín e gli ha soffiato dalla testa un gol sicuro in Juventus Napoli; da fantasma (doveva essere squalificato a Bologna, pura meraviglia del destino) è apparso da nulla e ha segnato ancora in volée il gol del vantaggio con l’Inter, sfoggiando la più bella prestazione in maglia Juventina, fatta di un fantastico repertorio: anticipi, impostazioni, tackle scivolati, aggiramenti palla al piede, e in più una magnifica transizione da difesa a centrocampo con passaggio rischioso di Buffon, e Leo che pressato lascia scorrere la palla, supera l’uomo e avanza di venti metri a testa alta: azione degna di Beckenbauer. Infine, taumaturgo nell’ultima gara di Coppa Italia, quando il suo rigore decisivo ha guarito una squadra che sembrava composta da lebbrosi impauriti.
Guardandolo con gli occhi dell’oggi Leonardo Bonucci è a tutti gli effetti desinato a entrare con merito nella storia dei più grandi difensori della Juventus. Nella storia di quella vocazione assoluta che in bianconero è il difendere. Ma in un modo unico. Bonucci è più unico di Barzagli e Chiellini, muraglie fisiche dal temperamento indomabile, ma più in tradizione con i grandi interpreti della juventinità difensiva. Loro sono nel solco di Cannavaro, il solo marcatore puro della storia a vincere un Pallone d’Oro, ovviamente da juventino. Nel solco di Romeo Benetti, il cui nome faceva paura solo a pronunciarlo, di Spinosi, di Morini; nel solco di Sandro Salvadore la bandiera, coraggioso, potente, indomito, che nei racconti dei vecchi juventini di famiglia era l’uomo che qualsiasi soldato avrebbe voluto come compagno di trincea in guerra. Nel solco di Jürgen Kohler, indistruttibile spauracchio di Van Basten, di Ciro Ferrara e Paolo Montero, i feroci paladini di anni indimenticabili, di Brio e Carrera nobili a Torino dopo la provincia, di Claudio Gentile il mastino insuperabile anche per Maradona, di Thuram fatato e aitante anche lui, puro fuoriclasse d’ebano ma privo, vicino alla porta, del colpo da barracuda.
Se proprio si deve scegliere un filone tradizionale, Bonucci mi sembra più appartenere di diritto a quello dei grandi difensori juventini non catalogabili, sui generis. Come Carlo Parola, magnifico interprete della rovesciata, che non ho mai visto giocare e che eppure è scolpito nella mia memoria come icona del calcio italiano attraverso la Panini, mentre è sospeso in aria intento a sfidare la legge di gravità. Come Antonio Cabrini, che con la sua legge dell’estetica, del tiro al fulmicotone e della tecnica da ala sinistra ha cambiato il ruolo di terzino sinistro per sempre. E infine, come Gaetano Scirea, l’irraggiungibile. La classe pura. Il giocatore più corretto che abbia mai calcato un campo di calcio. La guida, il confessore, il consigliere, la colonna, l’amico taciturno a cui si poteva affidare la propria esistenza. Il regista tecnico che faceva dello stile un’essenza assoluta. Scirea non aveva difetti e rendeva estremamente facile il calvario della venerazione, per dirla alla Cioran.
La delusione per l’andamento della stagione milanista, dal punto di vista dei risultati sportivi e della stabilità societaria, nonché il pentimento per una scelta fatta in un «momento di rabbia», portano Bonucci a virare verso un clamoroso dietrofront. Chiesta la cessione al Milan, il 2 agosto 2018 torna alla Juventus per trentacinque milioni di euro, nell’ambito di uno scambio di cartellini con Caldara.
Come era prevedibile, Leo deve affrontare i sentimenti contrastanti dei fans juventini nei suoi confronti, nettamente spaccata tra favorevoli al suo ritorno, e contrari a perdonargli la rumorosa separazione di appena un anno prima. Tale situazione non influisce tuttavia sul suo rendimento, riprendendo immediatamente un ruolo centrale nelle dinamiche bianconere. Vinta ben presto la concorrenza interna con Benatia, Bonucci ritrova quello smalto che pareva avere smarrito a Milano. All’inizio del 2019, il 16 gennaio conquista la sua quarta Supercoppa italiana, contro il suo ex Milan. A tale trofeo si aggiunge lo scudetto, arrivato matematicamente già il 20 aprile, a corollario di un campionato giocato a ritmi da record. È l’ottavo tricolore della carriera per Bonucci, il quale entra così nel gotha dei pluri scudettati, dietro solo all’ex compagno di squadra Buffon.
Rimane tra gli inamovibili anche nella stagione 2019-20, in cui il nuovo tecnico juventino Maurizio Sarri lo conferma al centro della retroguardia, stavolta a fianco del giovane olandese De Ligt, a causa del grave infortunio che tiene Chiellini lontano dai campi per tutta l’annata. Bonucci diventa il capitano de facto della squadra per i mesi a seguire. In una stagione segnata dalla pandemia del Covid, che dilata a dismisura i calendari, il difensore conquista il suo nono scudetto personale nonché nono consecutivo per la società piemontese. A corollario, in occasione del vittorioso derby del 4 luglio 2020 contro il Torino per 4-1, il viterbese tocca le quattrocento presenze con la casacca bianconera.
La stagione 2020-21, trascorsa agli ordini dell’ex compagno di squadra Andrea Pirlo nel frattempo passato in panchina, non è positiva per Bonucci soprattutto nella parte iniziale, con prestazioni non all’altezza, mentre nella seconda si ritrova ulteriormente frenato dopo avere contratto il Covid. Tale ruolino è sintomatico delle difficoltà stagionali della Juventus, che dopo nove anni deve abdicare nella difesa dello scudetto. Nonostante tutto ciò, riesce comunque a rimpinguare la propria bacheca con le vittorie in Supercoppa italiana e Coppa Italia.
In avvio dell’annata seguente, il 20 ottobre 2021, in occasione della vittoriosa trasferta di Coppa dei Campioni contro lo Zenit San Pietroburgo, raggiunge le cento presenze internazionali con le squadre di club. Un mese dopo, realizza la sua prima doppietta – in entrambe le occasioni su calcio di rigore – in serie A, nel successo esterno 2-0 sulla Lazio. Ripete l’exploit il primo maggio 2022, stavolta su azione, nel successo casalingo per 2-1 contro il Venezia, che gli permette di eguagliare il compagno di squadra Chiellini come difensore a segno, nel massimo campionato italiano, in più anni solari differenti del XXI secolo, oltreché di stabilire un nuovo record personale di reti in una singola stagione.
Con l’addio di Chiellini, la stagione 2022-23 vede Bonucci quale ultimo senatore dello spogliatoio bianconero. Come già successo in Nazionale, anche nella Juve eredita dall’ex compagno di squadra la fascia di capitano. L’annata si rivela tuttavia molto difficile sia per la Juventus, causa vicende extra sportive che ne minano l’ambiente e i risultati in campo, sia sul piano personale. Infatti, ormai vittima di infortuni sempre più frequenti, deve spesso rinunciare a scendere in campo, venendo scavalcato da Danilo quale capitano e figura di riferimento per compagni e tifosi. L’esplosione di Gatti completa il quadro. Unica soddisfazione stagionale, in occasione del pareggio interno 1-1 col Siviglia dell’11 maggio 2023, valevole per la semifinale di andata dell’Europa League, quella di tagliare il traguardo delle cinquecento gare in maglia bianconera.
Nell’estate 2023 avviene una nuova rottura fra la società e il difensore, la seconda dopo quella di sei anni prima. Estromesso dal progetto tecnico, viene messo fuori rosa. Il divorzio è inevitabile. Lascia la Juventus dopo dodici stagioni, con un palmarès di otto scudetti, quattro Coppe Italia e cinque Supercoppe italiane.
Qualche giorno dopo, rilascia un’intervista al veleno, ribadendo la sua volontà di ricorrere in tribunale contro la Juventus: «Ho letto e sentito cose non vere dette dalla Juventus e dall'allenatore. È falso che a ottobre e a febbraio mi era stata comunicata la volontà di interrompere il rapporto alla fine della stagione. Anzi, a fine maggio avevo dato la mia disponibilità per essere la quinta-sesta scelta in difesa, a fare la chioccia. Ho annusato qualcosa solo leggendolo sui giornali, fino a quando il 13 luglio Giuntoli e Manna mi hanno comunicato, venendo a casa mia, che non avrei più fatto parte della rosa della Juventus e che la mia presenza in campo avrebbe ostacolato la crescita della squadra. Questa è stata l'umiliazione che ho subito dopo cinquecento e passa partite in bianconero. Ho apprezzato la solidarietà di tanti giocatori, anche attuali, della Juve e di altre società. Tutti mi hanno manifestato la loro vicinanza per il comportamento irrispettoso della società. Porto avanti la causa, perché le persone che dovevano farmi chiudere la carriera in bianconero in modo rispettoso e degno non l'hanno fatto. È la seconda volta che sono costretto a lasciare la Juve per la presa di posizione di un singolo... È sotto gli occhi di tutti che non ho mai avuto il rapporto che avrei voluto con l'allenatore. Avevo diritto ad allenarmi con la squadra a prescindere dalla scelta tecnica: non mi è stato concesso. Mi sono sentito svuotato di tutto».
Peggio di così non poteva certamente finire…
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