Flemmatico, alto e biondo – racconta Renato Tavella – prossimo a laurearsi in ingegneria, controlla con vera signorilità la sua grande carica agonistica ed è sempre in guardia, non appena entra in campo. Ha aderito a dare concretezza all’idea Juventus e nel ruolo di back destro, contribuisce fortemente alla conquista del campionato 1905, il primo in assoluto. Nel periodo buio della Grande Guerra, assieme a Nizza e Zambelli, assume la direzione del club tenendolo a tutti i costi in vita.
VLADIMIRO CAMINITI
In camiciola rosa con cravatta nera è uno dei ragazzi della terza e quarta classe del Liceo-Ginnasio Statale Massimo D’Azeglio fondatori della Juventus. «Nel 1896 una brigata di studenti del Ginnasio Massimo D’Azeglio – scrive Enrico Canfari, secondo presidente della Juventus, il primo è il fratello Eugenio meccanico – soleva avviarsi, finite le lezioni pomeridiane, verso il corso Duca di Genova, e quindi, deposti i libri su d’una panca, dedicarsi al gioco di barra, un bel gioco... Contemporaneamente prese voga il ciclismo ed i ciclisti si fecero subito numerosi, certo più delle biciclette che allora costavano un occhio. Il football s’insinuò più tardi; già s’era visto giocarlo prima alla patinoire del Valentino, poscia in piazza d’Armi da alcuni stranieri residenti in Torino i quali avevano fondato il F.C. Internazionale mutatosi poi in F.C. Torinese».
Muore il secolo dei poeti, dei profeti, dei guerrieri, viene ultimata a Torino la Mole Antonelliana, il paese è scosso da rivolte proletarie, Crispi è un vegliardo lacrimoso, Mascagni è giovanotto, il libro Cuore esaurisce tutta la retorica del patrio ideal, Ada Negri scrive dei poveri nelle sue poesie, Eleonora Duse è bellissima, nel giornalismo il telefono sostituisce i dispacci telegrafici e postali, D’Annunzio è un manico di ambizioni, ennesimo risvolto eroicomico della sua vita tenta la carriera politica, Vittorio Emanuele ha sposato l’alta e cupa Elena Petrovich del Montenegro, «due mesi di salve e di applausi».
La Juventus nasce su una panca di pietra rugosa di corso Re Umberto a Torino. Attorno a questa panca si ritrova la «brigata» di studenti, tra i quali Gioachino Armano, i fratelli Eugenio ed Enrico Canfari, Rolandi, Secondi, Umberto Malvano, Guido Botto, Luigi Gibezzi, Ettore Corbelli, Domenico Donna, Giovanni Goccione, Bino Hess. Piccoli, paffuti, spilungoni, coi calzoni a zuava, figli di papà della Torino sormontata di elmi, sciabole e cimieri: la città di Fieramosca; con i suoi eroi e le sue esposizioni, le panche di pietra rugosa, le strade ampie e luminose, le case solide e quadrate, coi balconi pomposi. «Torino diventava impertinente, faceva andare ad elettricità la deamicisiana carrozza di tutti, trovava ridicolo il suo borgo medievale – scrive Augusto Monti – al Valentino sul Po, lenta e primitiva la funicolare di Superga, non capiva più il barocco, ne aveva abbastanza di rettilinei e non bastandole che Sambuy e Ceppi, un sindaco e un architetto, conti tutti e due, uno più geniale dell’altro, avessero con la eresia della loro diagonale – via Pietro Micca – cambiato di pianta i connotati al vecchio nobile ortodossissimo centro, quella agitata Torino si era fatto un nuovo centro a Porta Nuova, tutta avventata verso Sud, al sole, trasferiva al di là ritrovi a gran forza, e Università e Ospedali, e Docks e officine, allungando di là senza fine, attraverso un borgo, Nuovo davvero, colmando di ville i residui bocconi erbosi della vecchia Piazza d’armi, già muovendo all’assalto della nuova, là dalla Crocetta; dalle rive della Dora puntava decisa verso quelle del Sangone».
Gioachino Armano e tutti questi altri spuntoni di gioventù incravattata avevano voglia di alzar la gamba, di spogliarsi, di ridere e fare a botte, di mescolarsi con la plebe, insomma di vivere; perché tutto considerato, capivano che elmi e cimieri fanno male, pesano, non si riesce che a fatica ad aprire gli occhi e a vedere, imbalsamati dentro le corazze i guerrieri vengono issati a viva forza e deposti sulle groppe degli animali anche loro assai poco volitivi o guerreggianti. In sostanza, questi ragazzi ci ridevano sopra sui cosiddetti ideali, la risata di Gioachino Armano figlio di un piccolo industriale in ferro con bottega in corso Palestro e ventidue operai, era comunicativa; più di tutti rideva, piccolo, secco, nero, come un chiodo arrugginito, Domenico Donna, con sangue plebeo nelle vene, il padre un celebre avvocato penalista «che faceva piangere»; il più candido di tutti, disposto a qualsiasi sacrificio pur di mettersi a correre liberamente dietro il ball era Umberto Mal-vano, che soffriva di mammismo – i capelli biondi e gli occhi azzurri pareva un cherubino – e veniva requisito da donne ogni dì appiccicose e lagnose, perché si era strappata un’asola, gli era saltato un bottone, che avrebbe detto l’ingegnere architetto padrone e signore? Uno scavezzacollo veniva considerato Bino Hess, figlio di grosso industriale, uomo dal baffo forcuto e minacciosissimo che faceva impallidire suo figlio al solo pensiero, mentre Corbelli prendeva la cosa come una scampagnata ed invece Goccione sognava la montagna, la pura montagna da scalare, Bino Hess gli faceva il verso ed allora confutavano furiosamente; il maggiore dei Canfari, Enrico, che sapeva tutto senza sapere niente, ed era forte come un toro, si intrometteva tra i due e poneva fine alla disputa.
I figli contestavano i padri, nemmeno nel baffo volevano somigliargli e Donna se ne fabbricò uno affatto inedito, che non esprimesse virilità quanto divertimento ironia, un baffo che non spioveva per niente, un baffo alzato e lisciato da viveur, dopo i diciotto anni con questo baffo ci giocava pure al ball, prima ala sinistra della storia, antesignano di un ruolo in cui la furbizia contò sempre, come avrebbe dimostrato il divo Orsi, ed oltre alla furbizia quella manciata di cose che fanno il calcio ritratto della vita, come divertimento ed espansione di sé.
Gioachino Armano scelse subito un ruolo arretrato, dal quale sbattere lontano il ball con fidente pedata. Alto uno e ottantuno, nella fotografia ufficiale del 6 maggio 1900, camiciola rosa e cravattino nero, le braccia dietro la schiena, il labbro lungo e stretto, tutto gote occhi e naso, il ritratto della salute, protettore e consolatore di quel bambino spaurito di Malvano, è il trascinatore della squadra. Gioca back destro con impeto ribaldo e di lui scriverà Domenico Donna, all’indomani del primo scudetto di Madama: «è un back infuocato pur se simuli sangue freddo inglese, aiutato nell’inganno dalla bionda capigliatura».
Muore il secolo dei poeti, dei profeti, dei guerrieri, viene ultimata a Torino la Mole Antonelliana, il paese è scosso da rivolte proletarie, Crispi è un vegliardo lacrimoso, Mascagni è giovanotto, il libro Cuore esaurisce tutta la retorica del patrio ideal, Ada Negri scrive dei poveri nelle sue poesie, Eleonora Duse è bellissima, nel giornalismo il telefono sostituisce i dispacci telegrafici e postali, D’Annunzio è un manico di ambizioni, ennesimo risvolto eroicomico della sua vita tenta la carriera politica, Vittorio Emanuele ha sposato l’alta e cupa Elena Petrovich del Montenegro, «due mesi di salve e di applausi».
La Juventus nasce su una panca di pietra rugosa di corso Re Umberto a Torino. Attorno a questa panca si ritrova la «brigata» di studenti, tra i quali Gioachino Armano, i fratelli Eugenio ed Enrico Canfari, Rolandi, Secondi, Umberto Malvano, Guido Botto, Luigi Gibezzi, Ettore Corbelli, Domenico Donna, Giovanni Goccione, Bino Hess. Piccoli, paffuti, spilungoni, coi calzoni a zuava, figli di papà della Torino sormontata di elmi, sciabole e cimieri: la città di Fieramosca; con i suoi eroi e le sue esposizioni, le panche di pietra rugosa, le strade ampie e luminose, le case solide e quadrate, coi balconi pomposi. «Torino diventava impertinente, faceva andare ad elettricità la deamicisiana carrozza di tutti, trovava ridicolo il suo borgo medievale – scrive Augusto Monti – al Valentino sul Po, lenta e primitiva la funicolare di Superga, non capiva più il barocco, ne aveva abbastanza di rettilinei e non bastandole che Sambuy e Ceppi, un sindaco e un architetto, conti tutti e due, uno più geniale dell’altro, avessero con la eresia della loro diagonale – via Pietro Micca – cambiato di pianta i connotati al vecchio nobile ortodossissimo centro, quella agitata Torino si era fatto un nuovo centro a Porta Nuova, tutta avventata verso Sud, al sole, trasferiva al di là ritrovi a gran forza, e Università e Ospedali, e Docks e officine, allungando di là senza fine, attraverso un borgo, Nuovo davvero, colmando di ville i residui bocconi erbosi della vecchia Piazza d’armi, già muovendo all’assalto della nuova, là dalla Crocetta; dalle rive della Dora puntava decisa verso quelle del Sangone».
Gioachino Armano e tutti questi altri spuntoni di gioventù incravattata avevano voglia di alzar la gamba, di spogliarsi, di ridere e fare a botte, di mescolarsi con la plebe, insomma di vivere; perché tutto considerato, capivano che elmi e cimieri fanno male, pesano, non si riesce che a fatica ad aprire gli occhi e a vedere, imbalsamati dentro le corazze i guerrieri vengono issati a viva forza e deposti sulle groppe degli animali anche loro assai poco volitivi o guerreggianti. In sostanza, questi ragazzi ci ridevano sopra sui cosiddetti ideali, la risata di Gioachino Armano figlio di un piccolo industriale in ferro con bottega in corso Palestro e ventidue operai, era comunicativa; più di tutti rideva, piccolo, secco, nero, come un chiodo arrugginito, Domenico Donna, con sangue plebeo nelle vene, il padre un celebre avvocato penalista «che faceva piangere»; il più candido di tutti, disposto a qualsiasi sacrificio pur di mettersi a correre liberamente dietro il ball era Umberto Mal-vano, che soffriva di mammismo – i capelli biondi e gli occhi azzurri pareva un cherubino – e veniva requisito da donne ogni dì appiccicose e lagnose, perché si era strappata un’asola, gli era saltato un bottone, che avrebbe detto l’ingegnere architetto padrone e signore? Uno scavezzacollo veniva considerato Bino Hess, figlio di grosso industriale, uomo dal baffo forcuto e minacciosissimo che faceva impallidire suo figlio al solo pensiero, mentre Corbelli prendeva la cosa come una scampagnata ed invece Goccione sognava la montagna, la pura montagna da scalare, Bino Hess gli faceva il verso ed allora confutavano furiosamente; il maggiore dei Canfari, Enrico, che sapeva tutto senza sapere niente, ed era forte come un toro, si intrometteva tra i due e poneva fine alla disputa.
I figli contestavano i padri, nemmeno nel baffo volevano somigliargli e Donna se ne fabbricò uno affatto inedito, che non esprimesse virilità quanto divertimento ironia, un baffo che non spioveva per niente, un baffo alzato e lisciato da viveur, dopo i diciotto anni con questo baffo ci giocava pure al ball, prima ala sinistra della storia, antesignano di un ruolo in cui la furbizia contò sempre, come avrebbe dimostrato il divo Orsi, ed oltre alla furbizia quella manciata di cose che fanno il calcio ritratto della vita, come divertimento ed espansione di sé.
Gioachino Armano scelse subito un ruolo arretrato, dal quale sbattere lontano il ball con fidente pedata. Alto uno e ottantuno, nella fotografia ufficiale del 6 maggio 1900, camiciola rosa e cravattino nero, le braccia dietro la schiena, il labbro lungo e stretto, tutto gote occhi e naso, il ritratto della salute, protettore e consolatore di quel bambino spaurito di Malvano, è il trascinatore della squadra. Gioca back destro con impeto ribaldo e di lui scriverà Domenico Donna, all’indomani del primo scudetto di Madama: «è un back infuocato pur se simuli sangue freddo inglese, aiutato nell’inganno dalla bionda capigliatura».
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