La seconda Guerra Mondiale sconvolse il calcio inglese, il più e felice di allora. I bombardamenti su Londra, i giocatori inviati al fronte. Ma soprattutto il sentimento contrastante nella popolazione civile: idoli per una buona parte, “imboscati” per l’altra.
Uno dei primi aspetti del calcio inglese che si spiaccicano in volto a chi lo affronti dal punto di vista storiografico è quello relativo ai record di presenze in molti stadi: in molti casi sono stati stabiliti negli anni che hanno immediatamente preceduto o seguito la seconda Guerra Mondiale. Prendiamo alcuni esempi: Arsenal 73.295 perla partita contro il Sunderland del 9 marzo 1935, Manchester United (o meglio Old Trafford, lo stadio) 76.962 perla semifinale di F.A. Cup del 25 marzo 1939 tra Wolverhampton e Grimsby Town, Aston Villa 76.588 per la visita del Derby nella F.A. Cup del 2 marzo 1946, Everton 78.299 per il derby contro il Liverpool del 18 settembre 1948 e via andare.
C’era, a quei tempi, semplicemente un desiderio di calcio come non s’è più visto, nel calcio inglese. Per una combinazione di motivi, che andavano dai prezzi irrisori per un ingresso all’esplosione dello sport avvenuta già dopo la prima Guerra Mondiale, data dal senso di sollievo, all’aumento di case in cui si leggeva un quotidiano o si poteva ascoltare un notiziario radiofonico. Negli stadi vi erano pochi posti a sedere e dunque nella maggioranza delle aree aperte al pubblico, si stava in piedi, il che consentiva a masse enormi, a volte spaventose, di compattarsi fino al massimo consentito dalle leggi della fisica: se si pensa che l’attuale capienza dello stadio del Tottenham, White Hart Lane, è di circa 36.000 spettatori, mentre in una struttura meno imponente di quella attuale si strinsero in 75.038 per la gara di FA Cup del 5 marzo del 1938 contro il Sunderland, si comprende appieno la dimensione quasi epica di certe folle del passato.
Leggendo i resoconti dell’epoca, ci si meraviglia anche che non siano avvenuti disastri in serie, causati dallo schiacciamento, dai movimenti ondeggianti e convulsi a seconda dell’andamento del gioco, e che (resoconti scritti, non racconti da camino acceso) a volte facevano spostare persone di scarsa solidità fisica per interi metri senza che i loro piedi toccassero terra, compressi tra altri che letteralmente li trascinavano.
C’erano però altri esseri umani che erano in balia di forze a loro estranee, ed erano i calciatori. Venerati ma pagati pochissimo prima della guerra, venerati ma al tempo stesso visti con sospetto al termine del conflitto, a seconda di come lo avessero affrontato. Perché il periodo immediatamente successivo al maggio del 1945, quando cioè cessarono le ostilità in Europa, rappresenta uno dei momenti di maggiore fervore che si siano visti nella storia del calcio inglese. E che pure non ebbe, straordinariamente, che pochissimi effetti sullo sviluppo del sistema stesso, rimasto inalterato ancora a lungo, almeno finché la minaccia di uno sciopero, nel 1961, portò la Football Association a togliere il tetto massimo mensile di stipendio, fissato da trentatré anni a quelli che oggi sarebbero 1.600 euro, equivalenti nel Regno Unito di allora alla paga media del lavoratore britannico generico.
Parliamo dei giocatori perché erano stati loro al centro dell’irresistibile amore per il calcio del periodo pre-bellico. E furono sempre loro i protagonisti, spesso involontari, del ritorno alle competizioni reali, a guerra finita: durante il conflitto, infatti, a pallone si era continuato a giocare, ma con mille cautele. Erano state sospese le competizioni ufficiali. Per evitare spostamenti, pericolosi e inutilmente dispendiosi, le squadre erano state suddivise in sette raggruppamenti su base geografica: venne creata una nuova coppa, la Football League War Cup, che però si giocò solo per due stagioni, e con modalità particolari. Fu, infatti, condensata in poco più di due mesi, facendo il paio con la London War Cup, organizzata per dare alle squadre londinesi, ma in generale del sud dell’Inghilterra, un motivo per giocare.
Già, ma quale? Semplice: persino nel periodo peggiore delle incursioni aeree tedesche sul Regno Unito, si voleva dare alla gente un motivo di svago, si voleva far apparire la vita quotidiana più normale possibile, pur con le rigidissime restrizioni dovute a motivi di sicurezza. Pensate: un giorno un tizio fu multato perché aveva violato la totale oscurità imposta dal Governo accendendo un fiammifero per ritrovare la dentiera che gli era caduta in terra. C’era anche la necessità di destinare il maggior numero di materiale e denaro allo sforzo bellico. Dal momento che centinaia di calciatori (quasi 800, pare, ma il numero esatto non è determinabile) erano andati sotto le armi, le squadre furono autorizzate a utilizzare i cosiddetti Guest Players, “ospiti”, gente che in un mese poteva vestire quattro o cinque maglie diverse, senza una regola se non quella della disponibilità a farlo.
La maggior parte dei calciatori di nome venne arruolata con il compito di fornire una preparazione atletica ai soldati, di fatto non usci mai dal Regno Unito. Altri invece si trovarono nel pieno del conflitto, compresi molti di loro che non fecero più ritorno a casa: tra questi Harry Goslin, nazionale inglese e capitano del Bolton Wanderers, squadra che diede alle forze armate ben 32 giocatori, quasi tutti confluiti nel cinquantatreesimo Bolton Field Regiment, corpo d’armata che poteva dunque disporre, nei momenti liberi, di una formidabile selezione calcistica. Goslin morì il 18 dicembre del 1943 a poca distanza da Ottona, in Abruzzo, dove con i suoi commilitoni stava combattendo per sfondare la Linea Gustav, approntata dai tedeschi lungo la fascia centrale della Penisola.
Si potrebbero raccontare centinaia di storie drammatiche e sconvolgenti dei calciatori in guerra e degli incroci determinati dal destino. Quando nel 1977 il Liverpool si qualificò per la finale di Coppa dei Campioni, poi vinta contro il Borussia Mönchengladbach, l’allenatore Bob Paisley si commosse al pensiero di tornare a Roma trentatré anni dopo averla vista per la prima e unica volta, mentre era a bordo di una camionetta dell’esercito britannico che entrava nella città appena sgomberata dai tedeschi.
Nulla di inusuale dunque nel fatto che tra i milioni di militari impegnati in guerra ci fossero tanti calciatori: fa solo impressione a noi, ora, sapere che i nostri genitori e i nostri nonni, senza nemmeno saperlo, potrebbero avere sventolato fazzoletti o dato fiori, al passaggio delle truppe alleate, al centravanti del Derby County o al portiere del Charlton o a tale George Wilkins (padre di Ray) o magari, chissà, proprio a Bob Paisley. Il guaio però fu quel che accadde ai calciatori al loro ritorno in patria: molti club, gelidi nel cuore ma anche costretti a fare due conti, non avevano particolare interesse a riprendere in organico atleti che erano ovviamente di sei anni più vecchi.
Durante la guerra, la Lega aveva deciso in maniera unilaterale, senza consultare dunque il sindacato giocatori che era stato formato alcuni anni prima, di sospendere la validità di tutti i contratti. Alla fine del conflitto, per i calciatori avrebbero dovuto valere i diritti del resto della popolazione, cioè di poter riprendere senza problemi l’attività pre-bellica. Ma in molti casi fu applicata senza scrupoli la norma che estendeva tale protezione solo a chi fosse stato impiegato nei trenta giorni precedenti l’arruolamento, mentre in alcuni casi questo era avvenuto a molti mesi di distanza dalla sospensione del contratto. E questo fu solo uno dei problemi che dovettero essere affrontati.
Problemi che ovviamente appartenevano a tutta la popolazione inglese, sottoposta (dopo il maggio 1945) a privazioni, razionamenti e sofferenze non inferiori a quelle sostenute durante il conflitto: ma il risvolto amaro era dovuto alla constatazione che a soddisfare l’immensa voglia di divertimento, di calcio, di svago, quella che durante gli anni più bui aveva contribuito a tenere saldo il morale e a portare a Wembley, per le finali belliche di coppa, decine di migliaia di spettatori incuranti dei possibili raid aerei, dovevano essere atleti che spesso non avevano i mezzi per sfamarsi e mantenere le famiglie, che in alcuni casi avevano dovuto semplicemente trovarsi un altro lavoro, incompatibile con lo sport.
Durante la guerra alcuni di loro, anche sotto le armi, avevano trovato il modo di giocare tanto, tantissimo: grazie alla tariffa fissa (bassa, ma meglio di niente) di “prestazione” stabilita dalle autorità calcistiche per le arruffate competizioni a base regionale o addirittura locale, più si giocava meglio era, e ad esempio il celebre Len Shackleton giocò con il Bradford Park Avenue contro il Leeds la mattina di Natale del 1940, e nel pomeriggio vestì la maglia del Bradford City a Huddersfield. In alcuni casi, calciatori-soldati cui era stato vietato non solo di giocare, ma di lasciare la base militare, riuscirono a svignarsela e a scendere in campo sotto falso nome: Bill Shankly, poi leggendario allenatore del Liverpool, giocò nel Norwich City come “Rod Newman”, anche se la mistificazione più esilarante fu quella di George Ludford del Tottenham, che vestì la maglia del Fulham e figurò nel foglio delle formazioni come Someone Else, che in inglese vuol dire “qualcun altro”!
Sparite però queste bizzarre fonti alternative di introito, i calciatori si trovarono generalmente senza sicurezza, senza protezione contrattuale e senza casa, in un clima caotico dal quale sembravano trarre profitto solo i club. In più, c’era da considerare l’atteggiamento dei tifosi, ambivalente e selvaggio, secondo la descrizione di molti atleti dell’epoca. Dagli spalti, infatti, scendeva in eguale misura esaltazione per il ritorno del calcio agonistico ma anche disprezzo per quelli che in tanti ritenevano dei privilegiati: la folla non riusciva a distinguere tra reduci di guerra e chi era rimasto a fare il semplice istruttore di educazione fisica in una base lontana dal teatro di guerra; tra chi aveva schivato la chiamata alle armi e chi invece era stato spedito a dare una mano all’economia di guerra.
Tra questi, i cosiddetti Bevin Boys, ovvero i circa 50.000 britannici che dopo l’arruolamento erano stati destinati a lavorare nelle miniere, la cui produzione doveva aumentare durante il conflitto. Solo una parte di loro era costituita da ex minatori: la maggioranza era fatta da giovani (diciotto - venticinque anni) chiamati in breve tempo a imparare il mestiere e a scendere sottoterra per metterlo in pratica. Il programma di lavori “utili” durò fino al 1748 è ne fecero parte calciatori come Nat Lofthouse, Jackie Milburn e Shackleton, che in tanti casi, descritti in libri deliziosi come “Football’s War & Peace”, lavoravano turni notturni, uscivano dalla miniera a metà mattinata, correvano allo stadio vestiti da lavoro (anche in trasferta, prendendo treni al volo) e scendevano in campo esausti, per sentirsi magari gridare nelle orecchie l’insulto di chi li riteneva renitenti alla leva o addirittura privilegiati.
Figuriamoci chi era poi stato in un’ulteriore zona grigia: i calciatori di nome, cioè, che erano stati chiamati a disputare partite in giro per l’ex teatro bellico, allo scopo di rasserenare le truppe. In un’occasione, ottobre 1944, l’aereo che riportava in patria una sorta di Selezione delle Forze Armate sfiorò nei cieli del Belgio la collisione con un altro velivolo, mancandolo di pochi metri. Vengono i brividi a pensare ai nomi di alcuni calciatori a bordo: Raich Carter, Matt Busby, Stan Matthews, Joe Mercer, Stasi Gullis e Frank Swift, che peri purtroppo nella sciagura aerea di Monaco quattordici anni dopo, quando era giornalista al seguito del grande Manchester United.
E figuriamoci ancora di più quanto potesse essere contento di prendersi insulti il grande George Hardwick (la sua statua, in una posa particolarmente fiera, campeggia oggi all’esterno dello stadio del Middlesbrough) che ne aveva viste di tutti i colori: da calciatore, aveva segnato un autogoal con il primo pallone toccato in vita sua nella massima serie, a soli diciassette anni, poi arruolato in aviazione era stato ferito in combattimento ed era poi stato estratto vivo ma malmesso dalle macerie di un edificio londinese bombardato dai tedeschi. Da un lato, quelle sventure lo avevano temprato; dall’altro, gli erano parse sufficienti a proteggerlo da avversità verbali, almeno quelle, per il resto della sua intera vita. Ma non gli era andata bene, perlomeno non sempre.
Il caos dell’economia britannica del periodo post-bellico e la mancanza di case distrutte dai bombardamenti causarono poi un altro tipo di problema: chi anche avesse un lavoro nel calcio rischiava di non trovare un tetto per dormire. Erano colpite in special modo le squadre di Londra, città già all’epoca più costosa di altre ma con molte aree danneggiate dalla guerra. L’allenatore dell’Halifax Town, Jimmy Thomson, dormì per qualche periodo in un lettino da campo sistemato sotto la tribuna dello stadio, e sono decine le storie di calciatori costretti a elemosinare una stanza presso anziane signore che in un caso, a Torquay, pretendevano in cambio un affitto troppo alto, con uno sconto solo se il diretto interessato si fosse preoccupato da sé di provvedere al riscaldamento e all’illuminazione della stanza.
La vignetta satirica di un giornale mostra l’allenatore del Southampton mentre legge il giornale seduto in una poltrona dentro una delle porte, mentre la moglie cucina appoggiata alla rete e dice al marito: «I ragazzi stasera dormono nell’altra porta».
Alcuni club acquistarono delle case, dando appartamenti ai giocatori sposati e stanze da dividere a quelli non sposati, e in molti casi dovettero anche preoccuparsi di trovare loro da mangiare, anche attraverso appelli affinché i tifosi più abbienti donassero i coupon (sorta di tessera del pane). Necessari, in alcuni casi, per rifornire giocatori spossati dal lavoro in miniera: secondo quanto raccontarono i compagni di squadra Joe Harvey e Jackie Milburn, Frank Brennan, del Newcastle United, che normalmente era sottoterra dalle sette alle sedici e trenta e poi andava ad allenarsi, un mattino approfittando del soggiorno in un hotel insolitamente ricco di cibo si mangiò dodici uova, cereali, bacon, salsicce, pomodori, pane, burro e marmellata.
Insomma, anni difficili. Un contrasto bizzarro tra la crescente fama dei calciatori, che si avviavano a diventare eroi popolari e cominciavano a ricevere i primi assalti dei cacciatori di autografi, e le costanti critiche da cui erano sommersi in partita a ogni errore; tra l’idea del calcio come attività privilegiata, considerata addirittura necessaria per il morale della popolazione durante la guerra, e la condizione di quasi indigenza in cui vivevano i suoi maggiori protagonisti.
Un contrasto vissuto solo in quegli anni e ben evidenziato da una vignetta in cui un calciatore, giocando sul fatto che il verbo “to shoot” indica sia il tirare verso la porta sia lo sparare, si volta verso un muro di folla e, con una pistola in mano e lo sguardo torvo, chiede: «chi è che mi ha detto “shoot”?»
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