sabato 12 aprile 2014

Marcello LIPPI


L’uomo nuovo della Signora? – scrive Matteo Dalla Vite sul “Guerin Sportivo” del 1-7 giugno 1994 – Un romanticone di nome Romeo. «Pensi, la mia prima fidanzatina si chiamava Giulietta, avevo circa tredici anni e i miei amici sfottevano che era una bellezza. Perché? Semplice, il mio secondo nome è Romeo. E allora sa che litanie da piccolino...». Marcello (Romeo) Lippi ha il sigaro come compagno dei tanti pensieri, un’abbronzatura da consigli per gli acquisti e una parola per tutti. «Strano, ma da quando sono diventato juventino mi sembra che mi salutino così in tanti...».
Risata. L’uomo nuovo della Signora passeggia per il Lungomare di Viareggio palesando la semplicità di sempre: ama la modestia, la serietà e la sua disponibilità è figlia legittima di un’educazione a base di principi veri e sane zingarate con gli amici. Marcello Lippi: uno che dopo tre minuti di passeggiata ha già distribuito ottimismo a chi lo avvicina invocando una Juve vincente; uno che – dall’alto di un’umiltà semplice semplice – passando accanto a una barca che si chiama «Cippa Lippa» sogna di averne una simile per poterne cambiare l’ultima vocale al nome. Viareggio e la pineta, Viareggio e i divertimenti sani, Viareggio e il pallone, il viavai e il mare: tutte passioni di chi è cresciuto col salmastro nelle vene e il Tirreno a portata di mano. Roba genuina, insomma. Roba da Lippi. Tutta da scoprire.
«Sono nato in via Roma, a metà strada fra la pineta e il mare. Con gli amici si decideva cosa fare e dove andare sul momento: o a fare quattro scherzi e due bagni alla spiaggia oppure a giocare a calcio nella pineta. Da maggio a settembre, Viareggio era come in festa: chi viveva qua dimenticava tutto e andava in giro con gli amici a combinarne di ogni colore. Io? Ero un discreto casinaro: le discoteche non mi affascinavano come il mare e l’aria aperta. Preferivo giocare a calcio anche la sera o girare in bicicletta. Una volta – proprio con la bici nuovissima – si andò in pineta con gli amici. Cosa successe? Caddi goffamente in una pozzanghera e mi infilai il freno nella pancia. Che caos quella volta con i miei genitori. Mia madre si chiama Adele e in certi casi posso dire che era proprio lei a sgridarmi di più. Mio padre? Si chiamava Salvatore e se ne è andato nel maggio di tre anni fa. Avevo un rapporto particolare coi miei genitori: l’essere andato via da casa a quindici anni per giocare nella Sampdoria ha fatto sì che si instaurasse un feeling straordinario, fatto di grande comprensione. Amavo i fumetti di Tex Willer, il mio primo vero amico è stato Vittoriano Rossi, col quale eravamo anche vicini di casa, e l’hobby di noi ragazzini era rimorchiare le tedesche. Un classico, certo, ma appena si apriva la stagione balneare per me e gli altri amici si apriva la stagione di... caccia. Via gli amori dell’inverno e spazio alle straniere: cuccare una tedesca valeva un bel po’. La notte si viveva in giro per Viareggio, a volte si saliva su di un peschereccio con gli amici e alcuni genitori, e i miei non sapevano nulla fino alla mattinata seguente. Una volta successe questo: in un hotel della passeggiata c’era una piscina che d’inverno – oltre che vuota – rimaneva incustodita. Scavalcando siepi e muri, con un mio amico decidemmo di introdurci in questa piscina per giocare. Del problema vero ce ne accorgemmo dopo: avevano tolto le scalette e al loro posto si era formato un grappolo di muschio viscidissimo. Risultato? La piscina era profonda e noi non riuscivamo più a salire perché gli unici appigli erano scivolosi. Ci trovarono la mattina dopo. Addormentati e disperati».
Anni Cinquanta e Sessanta. Viareggio vive un costante incremento turistico e lancia le prime vere sfilate di Carnevale. «A quei tempi non c’erano ancora i rioni, ma le sfilate avevano un sapore talmente intenso che divertirsi diventava istintivo. No, io non mi travestivo quasi mai: mi piaceva andare in giro a fare scherzi e a bloccare le ragazze con gli amici. Scherzi cattivi? Mai fatti: i miei genitori mi hanno sempre insegnato il rispetto per gli altri. E sa qual è la cosa più gratificante che noto oggi? Capisco che i miei principi mi hanno aiutato a farmi considerare una persona seria, con la quale si può parlare amabilmente. Gli studi? Non andavo alla grande: fra il pallone e il resto, solo a Genova sono riuscito a portare avanti Ragioneria e a fare corsi di lingua inglese e francese. Già, il pallone: volevo giocare sempre, il mio sogno era solo quello. Mia madre e mio padre non si arrabbiavano, anzi: mi hanno sempre spalleggiato quando decisi di intraprendere la carriera calcistica. Un po’ di paure c’erano: per esempio, da piccolo mia madre mi mandava a giocare a calcio con la camicia sotto la maglia della squadra. Aveva paura che mi ammalassi. Uno spasso, eh...?».
«Quello del pallone era l’argomento predominante: con gli amici si giocava fino al tramonto, e anche se in programma c’era una festa, beh, non importava niente a nessuno: avevamo un partitone da portare a termine. Il seme della passione calcistica me lo ha iniettato definitivamente il Torneo di Viareggio: era un evento straordinario per noi viareggini, la possibilità di vedere quelle maglie che ci erano familiari grazie alle figurine Panini. Beh, rimasi affascinato dal Milan: era la formazione con Noletti, Trebbi e tanti altri, io avevo dieci anni e mi innamorai di quella maglia. Seguivo solo i loro allenamenti, andavo al campo a fare il raccattapalle e una volta mi presero con loro a palleggiare. Anzi, sa cosa dissero? Che ero bravino. Divenni loro simpatico e dopo qualche giorno mi regalarono – non ricordo chi con precisione – gagliardetti, distintivi, adesivi e addirittura una maglia. Sì, insomma: per anni – e proprio a seguito di quella esperienza – sono stato tifoso milanista ma non ci faccia il titolo, si è trattato solo di un amore giovanile...».
Marcello ha una sorella, Grazia, che ha quattro anni più di lui e un fratello, Mario, più giovane di tre. Il primo lavoro? In pasticceria, da papà Salvatore: «Appena potevo, andavo a fare i bomboloni con mio padre e poi a consegnarli. Naturalmente ne arrivava a destinazione la metà: li mangiavo quasi tutti con gli amici. Mamma Adele faceva la sarta e a volte sgobbava in pasticceria. Appartengo a una famiglia di grandi lavoratori e di sanissimi principi. Quegli stessi che oggi cerco di portare ad esempio con chi ho a che fare. Iniziai a giocare nel San Paolino per un semplice motivo: aveva la maglia rossonera, come quella del Milan. Ma la prima vera squadra fu il S.Andrea e già lì cominciai a fare le prime amicizie. Avevo tredici anni e giocavo con Mario Del Carlo, il cui padre era l’allenatore, il mio allenatore. Due anni in questa squadra parrocchiale ed eccomi poi alla Stella Rossa, una formazione giovanile della zona che ha sfornato diversi talenti. Uno? Si chiama Carmignani, giocava appunto col sottoscritto. Alla Stella Rossa mi portò Ilario Niccoli, detto “Il Carrara” perché era di Carrara: oggi non c’è più, ma il primo a credere nelle mie qualità fu proprio lui. Come giocavo? Non ero male tecnicamente; in fatto di resistenza, invece, penavo un pochettino. Giostravo da mezzala pura e faticavo a fare gol. Proprio a “Carrara” devo la mia fortuna: fu lui a portarmi a Lucca per un provino della Sampdoria. Ricordo che c’era un osservatore – si chiamava Riccardi – e dopo un po’ di tempo seppi che sul suo taccuino scrisse: “E un centrocampista sufficientemente dotato e capace di fare molti gol”. La verità? Di gol ne facevo pochi, ma ebbi la fortuna di farne uno proprio in quel provino. Roba da matti, no? Così mi presero e cominciò la mia carriera a Genova: lasciai Viareggio a quasi sedici anni, i miei non mi ostacolarono mai e nel primo anno di “Allievi” segnai la bellezza di trentatré gol. Uno sfracello...».
Dopo la trafila nelle giovanili, nelle quali avviene la trasformazione da centrocampista a libero, e un anno a Savona, ecco l’esordio in Serie A il 14 settembre del 1970 a Cagliari. Allenatore, Fulvio Bernardini. «La mia più grande fortuna nella vita è stata conoscere Fuffo: personaggio straordinario, limpido come pochi, di una cultura incredibile. Mi ha insegnato molto, mi ha aperto le porte della franchezza, della serenità interiore e del rispetto per gli altri. Quando esordii avevo solo diciotto anni. Davanti a me c’era il Cagliari che si era appena laureato campione d’Italia. Sono rimasto alla Samp per dieci anni, ero un libero che – secondo i dettami di Bernardini – amava il gioco prima di ogni altra cosa. Nel frattempo, in quegli anni legai un’amicizia stupenda con Domenico Arnuzzo, l’attuale responsabile del settore giovanile blucerchiato, e conobbi Simonetta, mia moglie. Come? È presto detto: suo padre era presidente del Centro Coordinamento Club rossoblù di Genova e una sera andai a una cena in un ristorante che frequentavo abitualmente. Ci presentarono, ma ci considerammo zero. Anzi, io ero abbarbicato su di una specie di staccionata con una ragazza appoggiata tra le mie braccia. Avevo gli occhiali scuri, erano le nove di sera e qualche tempo dopo Simonetta mi disse che in quel momento le sembravo un bulletto e niente più. Finita la serata non ci vedemmo più per dei mesi, poi un bel giorno la incontro lungo una via di Genova. Da una parte all’altra della strada comincio a salutarla e a dire il classico “Ci conosciamo, vero?”. La verità è che io non mi ricordavo di lei e lei si ricordava benissimo di me. Con la conseguenza ovvia che io credevo di aver fatto una conquista della quale – in quell’istante –- andavo fierissimo. Risultato: ci conoscemmo per bene e dopo nove mesi di fidanzamento ci sposammo, esattamente il primo luglio del 1974. E ancora oggi sono innamorato come quel primo giorno... in mezzo a una strada».
Marcello e Simonetta hanno due figli: la bellissima Stefania (diciannove anni, a un passo dalla maturità scientifica) e il talento Davide, centrocampista a livello Berretti ieri del Lido di Camaiore e oggi della Lucchese. «I divertimenti di oggi mi fanno anche un po’ pensare: sì, capisco i computer, la piscina, i videogiochi e tutto il resto ma cerco di far capire ai miei figli che ci si può divertire anche scambiando due chiacchiere in compagnia, in assoluta semplicità. E così allora che porto Davide con me quando gioco a pallone; e allo stesso modo fanno i miei amici. Facciamo il calcio-tennis sulla spiaggia e i nostri figli giocano con noi. Non bisogna perdere la semplicità: e quella nel divertirsi è forse quella che ti gratifica di più perché naturale. Quando giocavo a calcio lo facevo perché mi divertivo: rimasi nella Samp fino al 1980 poi andai a finire la carriera a Pistoia, col mio concittadino Riccomini allenatore, e a Lucca nella stagione 1981-82. Chiusi la carriera con 286 gettoni di presenza in Serie A. Mica male, no? Ma a Viareggio, anche quando giocavo, tornavo sempre: a volte da Genova prendevo il treno di mezzanotte e la mattina dopo rientravo il prima possibile. Non ce la facevo senza il mio mare. Dicono che noi toscani siamo tipi particolari: io mi ritengo un toscano sui generis, forse perché dai sedici ai trent’anni ho vissuto la mia vita a Genova. Una cosa è certa: i miei amici e la mia famiglia sono cardini sui quali baso la mia esistenza da sempre. Amici veri, intendo, quelli coi quali sono cresciuto da bambino: la limpidezza dei nostri rapporti è splendida, mai una nube, mai una falsità. Ciò che più odio in certe persone è quando queste abbassano lo sguardo mentre parli. Ma si può? Tu esprimi le tue idee e questi abbassano gli occhi o fanno dei cenni di mezza disapprovazione: o sei d’accordo – e me lo dici – oppure sei contrario e ne parliamo. La falsità proprio non la sopporto. E dai tempi in cui ho cominciato ad allenare che ho messo in chiaro tutto ciò: amo la serenità che deriva dall’essere sempre sinceri e semplici. Di bugie ne ho dette pochissime, soprattutto ai giocatori. Ho sempre saputo instaurare rapporti puliti, limpidi e credo di essermi fatto voler bene. Una cosa ho imparato da Bernardini: quella di mettere il tuo interlocutore nelle condizioni di esprimersi al meglio, in completa tranquillità. Solo allora saprai veramente con che tipo di persona hai a che fare».
Una persona splendida fu Paolo Mantovani. Il Marcello travestito da Romeo si era invaghito della Samp, e non c’era nulla da fare. «Finita la carriera di calciatore tornai alla Samp e quel fantastico personaggio di Mantovani mi chiese che cosa volessi fare. In quel momento avrei potuto dire di tutto: avrei potuto dire magazziniere o dirigente, e invece gli dissi che amavo il campo e che volevo fare l’allenatore. Ho passato tre anni splendidi nelle giovanili allevando gente come Rosin, Gambara, Fiondella, Zanutta, Ganz, Brunetti e Lanna. I miei moduli? Ho fatto un po’ di tutto, sia lì che successivamente. Nella Primavera blucerchiata feci due anni a uomo e il terzo adottai la zona mista, poi intrapresi la carriera da professionista. A Pontedera, nella stagione 1985-86, facevo già la 5-3-2 e conquistai un sesto posto. Poi a Siena praticai lo stesso modulo e l’anno dopo a Pistoia variai da un girone all’altro. All’andata zona mista, al ritorno mi lanciai con buoni frutti sulla zona pulitissima. Dopo Pistoia andai a Carrara, venivo dopo Orrico che aveva lasciato molta considerazione dietro di sé. Cosa feci? Zona pura e arrivai settimo. A seguire, ecco il grande calcio: a Cesena – mi dissi – potrò mai proporre la zona in Serie A? Manco per idea: raggiunsi la salvezza e cominciai a sviluppare per bene le mie tematiche calcistiche: l’attuazione giusta delle geometrie di gioco portarono i miei difensori a segnare un buon numero di gol. L’anno dopo fu dura: Lugaresi pianse quasi nel mandarmi via e i vecchi discorsi riguardanti l’effetto negativo provocato dall’arrivo di Silas sono troppo semplicistici. Alla lunga, in Romagna capirono che il problema non era nel manico ma altrove... Dopo quella esperienza, eccomi a Lucca ancora nel dopo-Orrico (feci buon calcio, zona pura con sporadici arretramenti del libero), poi a Bergamo (adottai un calcio tradizionale, poi andò come andò) e quindi a Napoli dove forse sono riuscito come mai a far esprimere i miei temi calcistici. Zona, uomo: qui si creano fazioni che a mio parere non hanno senso. A me interessa la mentalità, non il modulo in sé per sé. Voglio una squadra che faccia della saldezza, dell’unione umana e professionale e dell’aggressività i concetti base. La verità è che tutti gli allenatori saprebbero far ogni modulo, ma non tutti hanno la voglia o la capacità di adattare il gioco agli uomini a disposizione. Il resto è poesia».
«Il calcio che mi piace è quello che non prevede né vincoli né schemi: bisogna sapersi adattare e imporre i propri temi di partita in partita. Poi, la fortuna ha il suo peso. Se sono scaramantico? A Napoli – nella mia ultima, splendida esperienza – mi regalavano dei gobbetti, ma a Pontedera fu ancora più bello. In quel mio primo anno di panchina professionistica cominciai con tredici risultati utili di fila. E poco alla volta mi accorsi che tutto era stato accompagnato da un look particolare: iniziai la stagione con un paio di jeans leggeri, una giacca blu e un paio di mocassini. Beh, quei mocassini si bucarono e mia moglie – all’oscuro del mio rito propiziatorio – li portò dal calzolaio. Cosa successe? Semplice: un sabato dovevo andare in ritiro e mi accorsi che i mocassini non c’erano più. Simonetta li aveva portati dal calzolaio. Disperato, la mandai a riprenderli – facendole fare una discreta figuraccia – e alla fine andai regolarmente in panchina coi mocassini bucati. Vincendo. Se credo in Dio? Ci credo, come credo nell’amore, nella sincerità e nella coerenza. Se parte di questo mondo va avanti di compromessi, beh, io non ci sto: preferisco pagare di persona, in tutto e per tutto. Il tempo delle serenate alla... Romeo è finito. Da oggi si fa sul serio. Altro che zingarate...».

MATTEO DALLA VITE, DAL “GUERIN SPORTIVO” DEL 20-26 GIUGNO 2001
Arrivò e disse: «Voglio una squadra corta, saggia, affamata e smemorata». La Signora si presentò in minigonna, era l’estate del 1994, bello lui belloccia lei, insieme dovevano sedurre l’Italia, azzannare ogni piatto e dimenticare ogni vittoria per rincorrere la successiva. «Chi ha fame non conosce sosta, chi vive di ricordi si sazia di quello e non cerca altro»: Marcello Lippi cominciò da queste idee che per (quasi) cinque anni divennero princìpi di vittoria e lotta, autentici tormentoni. Lui era il brain- trainer, l’allenatore di cervelli, a Torino lo accolsero con lo scetticismo che accompagna l’arrivo di “chi non ha vinto nulla”, poi videro sfilate su sfilate, dall’Italia all’Europa, fino a Tokyo. Coppe vinte e anche perse, ma era nuovamente Juve. Seconda fra tanti altri traguardi, non seconda e basta. Per questo è tornato.
E, in un certo senso, lo stravolgimento della crisi del settimo anno: dal 1994 al 2001, da quella prima volta al “riproviamoci”, Marcello Lippi ama come allora e come allora viene amato e chiamato. Di solito ci si dice definitivamente addio, ma alla Juventus ci si ama di ritorno. Crisi d’astinenza, questa: di vittorie. Come vorrà ripartire è materia (e virgolettato) di queste ore; come spalmò i suoi trionfi (e tonfi) in bianconero è un lungo frammento di storia, successiva al Trapattoni-bis, precedente a quello sfogo del febbraio 1999, ad Ancelotti ufficializzato da un mese. «Siccome questo è un gruppo che non merita di finire un’annata così ed io le ho provate tutte per tirare fuori ciò che questo gruppo può dare, ho deciso di dimettermi. Se il problema sono io, ecco, me ne vado». Erano le 22,39 del 7 febbraio, ma fino ad allora erano state vittorie e facce più pimpanti che mosce.
Marcello, in quel 1994, aveva trattenuto Vialli, un Del Piero bambino e il Codino fresco Pallone d’Oro. «Voglio una Juve Baggio-indipendente» disse, lo scopo era quello di responsabilizzare tutti. Gli acquistarono Paulo Sousa e Deschamps, Ventrone faceva il “marine”, i segnali iniziali furono timidi, poi la svolta, in tre mosse: la prima, il 27 settembre, cinque gol di Ravanelli al CSKA Sofia in Uefa; la seconda, il 4 dicembre, 3-2 alla Fiorentina dopo essere andata in apnea di due gol; la terza, 8 gennaio 1995, 3-1 al Parma, conquista della vetta, in un testa a testa con gli emiliani di Scala secondo una sfida eterna: la Juve aveva perso la Coppa Uefa proprio coi gialloblù, ma si era rifatta in Coppa Italia. Amen e scudetto al primo colpo, con dieci punti di vantaggio su Lazio e Parma stessa. Formazione-tipo? Inizialmente un 5-3-2, Fusi (o Carrera) dietro a tutti e davanti a Peruzzi, Ferrara e Kohler a ringhiare, Di Livio e Jarni (o Torricelli) sugli esterni, Paulo Sousa a orchestrare assieme a Marocchi più Conte. Vialli e Baggio su.
Baggio che un mese dopo quel trionfo diventa il simbolo di un’altra etichetta che farà presa: Robi al Milan, la Signora getta le basi del “vendi-e-vinci”, arma letale prima e a doppio-taglio poi. Nel frattempo Lippi è già passato da un pezzo al 4-3-3, l’intuizione l’aveva avuta contro il Foggia: «Dissi ai ragazzi: se dobbiamo perdere, facciamolo cercando di vincere». Era l’esordio del campionato coi tre punti a vittoria, più Del Piero cresceva e più lui, Ravanelli e Vialli ci davano dentro. Proprio per questo Baggio fu poi costretto a salutare.
Secondo anno, tetto d’Europa: Vialli e Del Piero vanno come spie, il secondo segna addirittura cinque volte nelle prime cinque gare della Champions League dando vita al gol “alla Del Piero”. Se in campionato il Milan prende il largo, l’Europa è una passerella della provocante Signora. Nei quarti batte il Real Madrid in rimonta, poi il Nantes in semifinale e all`Olimpico celebra la notte della Juve più bella: la vittoria ai rigori sull’Ajax consegna la seconda Coppa Campioni alla storia bianconera.
Squadra che vince non si cambia? Macché: partono Vialli e Ravanelli, Paulo Sousa e Vierchowod. Avanti con Zidane, Vieri, Amoruso, Montero, Boksic. Prima secondo un 4-4-2, poi viaggiando col 3-4-1-2, per favorire Zizou. Stagione 1996-97, quindi, la Juve prende la testa del campionato alla terza giornata e non la mollerà fino alla fine. Dietro c’è Ancelotti col suo Parma, secondo. Nel frattempo: a dicembre arriva la Coppa Intercontinentale (gol di Del Piero) e a febbraio (sede, Palermo) la Supercoppa Europea. Dietro l’angolo, la prima vera delusione del ciclo-Lippi: il 28 maggio, a Monaco di Baviera, finale di Champions League, la Juventus ne prende tre dal Borussia Dortmund di Paulo Sousa e Riedle, con annesse critiche per il ritardato utilizzo di Del Piero. È stata la grande annata di Vieri. Ma il vendi-e-vinci fa scuola: trentaquattro miliardi e Bobo va all’Atlético Madrid, poi partono anche Jugović e Padovano. Arrivi: Birindelli, Fonseca, Pecchia e Inzaghi.
Comincia l’annata della rincorsa-scudetto, la 1997-98: l’Inter di Simoni schizza via, segue un progressivo recupero juventino (che azzecca l’innesto di Davids) fino al testa-a-testa del 26 aprile 1998: è il Ceccarini-day, del fallo non-da-rigore di Iuliano su Ronaldo, il turno successivo al pareggio dell’empolese Bianconi non visto da Rodomonti e ad altri episodi un po’ così. La Juve vince il campionato e Lippi va diretto: «Ci hanno buttato tanta merda addosso». Il rap del Lip. Ma la pagina nera è dietro l’angolo: la Juve perde la seconda finale di Champions contro il Real Madrid, ad Amsterdam.
Segue la lunga estate bollente, le accuse di Zeman sui farmaci, la Juve si sente accerchiata. E l’ultimo scorcio lippiano, la stagione 1998-99: a Udine, ottava giornata, minuto novantatré, il mastice Del Piero s’infortuna seriamente (arriveranno Henry ed Esnaider) e la Signora perde testa della classifica e via via la coesione. Il resto è storia già scritta: Lippi che annuncia l’addio a dicembre, Lippi contestato, Lippi e i “vagabondi”. Due gli episodi scatenanti: una lite furibonda con Deschamps («Voglio una reazione – disse Marcello – a costo di prenderci a botte nello spogliatoio. Da qualcuno le piglierò, a qualcuno le darò, ma forse smetteranno di fare le belle statuine». Già), e una dichiarazione datata 20 gennaio: «Se capirò che a qualcuno non fa comodo dividere le colpe come i meriti, avrò anch’io qualcosa da dire». Lo disse, «me ne vado». Sono passati due anni e un po’, due anni di Inter finiti a “calci nel culo”. Li ha sentiti anche Ancelotti.

MARIO SCONCERTI, DAL “GUERIN SPORTIVO” DELL’11-17 LUGLIO 2001
Lippi alla Juve è come se le cose avessero ripreso il loro ordine naturale. Forse è anche un limite, come certi attori che restano schiavi di un personaggio, ma Lippi non lo immagini in un’altra squadra. Verrebbe mai da pensare, adesso, che ha allenato anche Cesena e Pistoiese? Che è stato a Bergamo e Napoli? Sembra quasi chiaro che non poteva durare nemmeno a Milano. Eppure l’Inter era una buona idea, una seduzione lunga. C’era spazio, si poteva lavorare, c`era orizzonte davanti. Ma c’era già stata la Juventus. C’era già sulla pelle e sull’anima la sua impronta. E come un paio di lenti, vedi il mondo con il loro colore, anche se non vuoi. E a differenza degli occhiali, la Juventus non te la puoi levare. E stato a Torino tre giorni della scorsa settimana, i giorni del grande mercato. Zidane al Real, Nedved alla Juve con Buffon e Thuram, tanti soldi, un odore nell’aria di restaurazione. Si dice sia stato l’Avvocato a volere la vendetta dell’Impero; si dice che la vita gli abbia messo fretta di vincere. In realtà è tutto il colosso torinese che si è rimesso in moto. La Fiat sta cambiando completamente pelle, con l’attacco a Mediobanca e con la presa di Montedison ha rimesso se stessa e la propria forza al centro del grande capitalismo italiano. Torna a non muoversi foglia che Agnelli non voglia. Torna l’aggressività, la sana arroganza del padrone che nella sua infinita pazienza accetta anche di vedere uno scudetto a Roma, ne digerisce male un secondo, non potrebbe sopportarne un terzo.
La Juve ha forza e poco tempo da perdere, per questo è andata sul sicuro, ha scelto di nuovo Lippi. Guidare la Juventus è la cosa più complessa che ci sia nel calcio. Non è difficile, a volte basta e avanza la forza intrinseca di squadra e società. E l’architettura che è gotica, è l’altezza che porta grandi profondità. E la misura che deve sempre resistere, come una specie di prova di forza continua, un test psicologico lunghissimo, una solitudine invincibile. È difficile trovare l’allenatore della Juventus. Tante volte la società ha sorpreso con scelte o troppo ovvie o troppo trasgressive (ricordate Maifredi?). Perché sono troppe le cose che si richiedono all’allenatore della Juventus. Deve essere aggressivo ma pacato; intelligente, ma non espansivo; deve saper dare spettacolo, ma non essere fesso; deve conoscere quello che si vuole da lui senza chiederlo e senza costringere i suoi vasti padroni a doverglielo dire spesso. Deve essere uno di famiglia che non importuna, orgoglioso di esserlo ma silenzioso, che conosce il suo posto, ma è pronto a invadere quello degli altri se la patria lo chiede. Non è facile. Per questo la Juve preferisce spesso aver fiducia in tecnici che sembrerebbero aver già perso il loro tempo. Perché vince la certezza del poco che danno a fronte del tanto rischio che comporta il nuovo. Lippi è stata una trasgressione furiosa. Gli Agnelli non amano i ritorni, più che i rischi ne conoscono i limiti. Ma Lippi aveva una seduzione: era perfetto. Con quella sua aria da viareggino diventato capitano, con la sua intelligenza toscana che spreme la rabbia atavica sul sigaro e sorride alla gente, un po’ feroce e un po’ ambiguo, è il leader ideale. Conosce le stanze, ha frequentato la Famiglia e le vittorie, ha saputo anche perdere senza farsi troppo male. Così Lippi è tomato. Nessuno sa quando la decisione si sia materializzata e Lippi non sparge tracce per rispetto ad Ancelotti. Ma l’impressione è che la decisione sia venuta da lontano. Ormai comunque non conta più. Tutto è tornato a posto, Lippi e la Juventus sono la stessa cosa e par difficile anche siano stati lontani un giorno. Avrebbe voluto la stessa casa di due anni fa, Lippi, ma quello era davvero chiedere troppo.
«Comunque non mi muoverò dal “mio” quartiere, Crocetta. Vicino alla sede nuova e a due chilometri dal campo. Torno a Torino da solo. Come sempre. Mia moglie verrà un paio di volte al mese. Ormai è sempre più difficile spostarla da Viareggio. Semmai punta verso Roma...».
Non è roba di calcio. È successo un fatto splendido e strano a questo signore severo che continua ad assomigliare al Paul Newman dei tempi buoni. È diventato nonno, una settimana fa, il 29 giugno. Sua figlia Stefania gli ha dato un nipotino. E lei è sposata con un romano, anzi, con un romanista de Roma. «Il primo mazzo di fiori l’ha mandato un amico di mio genero. C’era scritto: al maggico Lorenzo, con due “g”».
– Che vuol dire essere nonno per l’allenatore della Juve?
«È stato come mi avevano detto, una felicità profonda, intensa, molto più vasta di quando sono nati i miei figli. Non più grande, ma diversa. Stavolta ho provato un amore doppio, per mia figlia e per il bambino, una sensazione molto strana, molto più vissuta. Forse è anche un fatto di età. Quando ho avuto i miei ragazzi ero molto giovane, ti sembra tutto naturale, anche essere felice. Ora è come se fossi entrato in un bagno caldo, di quelli che ti massaggiano il corpo e le idee. Sto bene e tocco quasi materialmente questa sensazione di benessere. E mi viene una grande forza dentro».
– Essere nonno apre un’altra porta della vita. Si sente più un giovane vecchio o un vecchio giovane?
«Non potrei sentirmi quello che tutto sommato sono, un giovane uomo maturo? Le giuro peraltro che stare un anno fermo mi ha fatto benissimo».
– Com’è andata?
«All’inizio male, molto male. Facevo un sacco di brutti pensieri, mi sembrava di aver sbagliato tutto, avevo paura che avrei fatto molta fatica a riprendermi. Mi sembrava impossibile che qualcuno sarebbe venuto a bussarmi alla porta. È stato un momento brutto ma intenso, di quei momenti che forse servono. Aiutano a crescere. Portano rabbia, portano dispiacere, ma anche coscienza. Vedi le cose da un altro – punto di vista. Questo non le risolve, ma ti aiuta».
– Poi cosa è successo?
«Poi è cominciato a squillare il telefono, ho cominciato a capire che la vita non solo continuava, ma aveva addirittura voglia di ricominciare. È stato molto bello risentirsi addosso l’attenzione della gente. Ora è facile dire che non avevo dubbi. Ed era facile anche per i miei amici dirmi che non c’era problema. Ma io a Viareggio, fermo, senza dissipazione, senza stress, cominciavo a stare stretto».
– Chi l’ha chiamata per primo?
«Sono state società straniere. La prima telefonata l’ho avuta dalla Spagna, poi dalla Francia, ancora dalla Spagna, poi via via l’Inghilterra e la Grecia. Poi finalmente l’Italia. E lì ho capito che era la volta buona».
– Ha pensato molto al calcio in questi mesi?
«All’inizio avevo una specie di rigetto. Mi è dispiaciuto molto per come è finita all’Inter. Non sono stato bene, anche fisicamente. Avevo disturbi di stomaco, problemi di alimentazione. Avevo tanti piccoli disturbi che non erano altro che mancanza di pallone. Mi mancava moltissimo e non avevo grande voglia di andare in uno stadio. Mi piaceva vedere calcio da solo, elaborarlo, studiarlo. Senza che magari la gente pensasse che potevo andare ad allenare la squadra che stavo studiando. In un anno sono andato a vedere soltanto due partite, Italia-Inghilterra a Torino e Sampdoria-Genoa, un derby giocato di martedì, un tuffo nella mia nostalgia».
– C’era così tanto da studiare?
«Secondo me sì. C’è sempre da imparare, da tutti. Ma in special modo dai tecnici che allenano nelle squadre di provincia. Ho viaggiato molto, sono andato a vedere gli allenamenti di Perugia, Verona, Vicenza, Atalanta, molti altri. Il vero calcio è lì».
– Non è un po’ troppo romantico?
«No, parlo seriamente. Il vero calcio è lì perché non ci sono altre distrazioni. Non hai la Coppa dei Campioni, non hai giocatori continuamente portati lontano dalle nazionali. Hai un unico scopo: preparare la partita della domenica successiva. La puoi preparare minuto per minuto, come se fosse ogni volta la tua partita della vita. È un’opportunità che nelle grandi squadre si ha pochissime volte. Il nostro è un lavoro continuamente interrotto. Il loro è un lavoro che può essere programmato. Vedere i tempi e i modi di programmarlo è una grossa palestra, per me. C’è poi un altro vantaggio in questo viaggiare. Si vedono i giovani giocatori allenarsi. Si vedono come preparano la partita. Un giocatore dice tutto di sé durante un allenamento. Questo è un grande vantaggio per un allenatore. Ti permette di sbagliare molto meno quando devi scegliere di acquistare».
– Ha visto molti giovani bravi?
«Sì, veramente molti. Non è vero che gli stranieri bloccano i vivai. I ragazzi buoni ci sono e sono tanti. Vanno visti. Spesso abbiamo occhi solo per i più grandi, seguiamo i giocatori in base alla classifica delle loro squadre. Dovremmo avere più coraggio o più competenza, non so, forse entrambe le cose. Io so solo che per me è stato utilissimo».
– Può fare qualche nome?
«Mi piace molto Bonazzoli; ottimi nel Verona anche Colucci e Gilardino. Poi Toni; Liverani, Baiocco e Pieri del Perugia; buoni anche alcuni giovani del Bari. Tutti ragazzi con qualità tecniche e anche umane. Tutti ragazzi completi, su cui poter investire a occhi chiusi».
– E la Juve investirà? Da tempo si parla per esempio di Liverani e Baiocco...
«Non parlo di mercato in diretta. Aspettiamo un po’».
– Peccato perché è appena partito Zidane ed è appena arrivato Nedved. Che Juve sarà? Si può perdere in un colpo solo Zidane e Davids ed essere migliori?
«Spero solo che chi deve giudicare Davids si renda conto che non è giusto far pagare ai giocatori la totale mancanza di chiarezza che c’è adesso nel campo del doping. Io spero di avere Davids molto presto».
– Dovesse definire la Juve che nasce con un aggettivo, cosa sceglierebbe? Stellare, esagerata, buona, ottima, irresistibile? Cosa?
«Dovessi proprio dirlo, direi che sta nascendo una squadra importante. Accanto a una società ancora più importante».
– Cosa le è mancato di più della Juventus?
«Dopo pochi mesi mi è mancato tutto».
– Non è carino nei confronti dell’Inter.
«All’Inter qualcosa mancava, ma la diversità della Juve non è demerito degli altri, è soprattutto merito suo. Qui hanno fatto dell`esperienza un capitale. Qui hanno avuto tempo e modo di sbagliare e correggersi decine di volte. Qui ormai ci sono serietà e professionalità ad altissime dosi. Chi è stato alla Juventus lo sa. La Juventus ti mancherà sempre».
– Quanto ha ripensato all’Inter?
«Ci ho pensato molto, ma non spesso. All’inizio, cercavo di capire dove avevo sbagliato».
– E l’ha trovato?
«Ho fatto chissà quanti sbagli, ma il più grosso era dentro un equivoco. Passavamo per una squadra fortissima perché avevamo Vieri e Ronaldo. Ma insieme Vieri e Ronaldo hanno giocato venti minuti in un campionato. Alla fine siamo arrivati quarti e in finale di Coppa Italia. Un lavoro onesto, direi quasi importante nel calcio di oggi».
– Perché oggi?
«Perché arrivare quarti in un calcio estremamente competitivo come il nostro è un risultato che conta. Non è più come un tempo dove c’erano due o tre squadre. Oggi un quarto posto significa essere stati competitivi fino ad almeno due terzi della stagione, significa aver vissuto momenti di grande calcio, significa aver avviato una strada su cui costruire. Mi è dispiaciuto che tutto questo non sia stato considerato. Che sia passata come una stagione fallimentare. Non era vero. Ma ormai è tutto alle spalle».
– Ora si appresta ad arrivare quarto con la Juventus?
«Credo e spero ci sia margine per arrivare più in alto».
– Cosa ha avuto in più la Roma? Il gioco, i giocatori, l’ambiente?
«Non ha giocato un calcio nuovo, è stata però una Roma nuova. È stata sempre concentrata e determinata, quasi feroce. Era molto forte, ma anche altri anni era stata forte. Quest’anno ci ha creduto subito e ha tenuto la concentrazione. Questo è il grande merito del lavoro di Capello. C’è stata poi un’altra diversità rispetto al passato: lo scudetto della Lazio ha dato una volontà enorme alla Roma e l’ha convinta che si poteva vincere anche in quella città, fuori da tutti i luoghi comuni. Bastava volerlo seriamente. La Roma ha avuto questo. Se andiamo a vedere non ha quasi mai vinto gli scontri diretti contro le altre grandi. Mi sembra abbia battuto solo la Lazio nel primo derby con un’autorete. Ma è andata a vincere su tutti i campi di periferia, quelli dove ci vuole forza e coraggio prima ancora che tecnica. Certo ha avuto anche tanti giocatori importanti da far girare. Se penso a cosa significa avere Montella in panchina... O poter cambiare Zanetti con Emerson».
– O Nakata. Alla fine senza quel gol giapponese a Torino la Juve avrebbe vinto il campionato...
«Sì, alla fine, gira e rigira, sarebbe andata così. E per giunta Nakata quel giorno poté giocare solo perché avevano cambiato le regole in corsa. Comunque sarebbe stupido fare polemiche adesso. È solo una constatazione».
– C’è aria di nuova potenza torinese. Gli Agnelli sono aggressivi sul mercato del calcio e in quello delle aziende. Vogliono vincere.
«Anch’io. Ma non è automatico e non è nemmeno facile. Però devo provarci, per me e per quello sterminato popolo juventino che aspetta. È un compito duro, ma è un bel compito. Ed era veramente troppo tempo che non ne avevo uno».

FABIO ELLENA, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL GIUGNO 2004
Carissimo Marcello ti scriviamo questa sorta di lettera aperta a poche settimane dal tuo annuncio di volerci lasciare al termine della stagione. Non è mai facile trovare le parole in questi momenti, quando finiscono legami e storie che nel tempo (in questi strepitosi otto anni) hanno scritto pagine indimenticabili. La frase che sorge spontanea a ogni tifoso juventino è: GRAZIE DI TUTTO.
Grazie per tutte le emozioni che hai contribuito a farci vivere in questo periodo. Sarebbe facile, troppo facile, limitarsi a elencare uno per uno tutti i successi che la tua Juve ha conquistato nei due diversi cicli. Ricordare ogni scudetto, ogni trofeo e ogni vittoria. Preferiamo invece ricordare alcune delle tanti incredibili sensazioni vissute nell’ultimo decennio.
La vittoria in rimonta contro la Fiorentina nel 1994 o il primo scudetto dopo l’ennesimo duello con il Parma, il trionfo in Champions League a Roma contro l’Ajax o l’Intercontinentale di Tokyo con il River Plate, il sorpasso del 5 maggio 2002 o ancora la “partita perfetta” contro il Real Madrid di un anno fa. Momenti indelebili che hanno reso ancora più orgoglioso ogni tifoso bianconero. Sei arrivato dieci anni fa, proprio in questo periodo.
Al termine di una stagione che aveva allungato ancora il digiuno bianconero di successi tricolore. Sei giunto a Torino chiamato da una nuova dirigenza che come te aveva tanta voglia di fare grande la Juventus e insieme con un gruppo di ragazzi motivati e affamati di vittorie. Hai contribuito a forgiare un gruppo solido che nel giro di pochi messi ha iniziato a far vedere cose egregie.
Che spettacolo la tua prima Juve! Quella targata 1994-95. Quella dei Vialli e dei Baggio, dei Ravanelli e dei Peruzzi, ma anche dei Conte, Ferrara, Del Piero e Tacchinardi, ragazzi che ti hanno sempre accompagnato in tutti questi anni. Una Juve convinta, spettacolare e cinica, fantasiosa e potente al tempo stesso. Un mix perfetto che in appena due stagioni e mezzo ha fatto issare la bandiera bianconera in cima all’Italia, all’Europa e al Mondo.
Una squadra capace di entrare in ogni stadio a testa alta, pronta a imporre con personalità il proprio gioco, riuscendo spesso a essere più forte di tutto e tutti. Un primo ciclo formidabile durato oltre quattro anni e mezzo, prima di interrompersi in maniera quasi improvvisa.
Non proprio il modo più bello per spezzare un sogno splendido. Non proprio il lieto fine per una favola scritta anno dopo anno, partita dopo partita. E infatti la storia non è finita quel brutto giorno del febbraio 1999, quando hai deciso di lasciare la società che hai contribuito a far tornare grande. Una pausa di una trentina di mesi e poi, quasi d’incanto, tutto è tornato alla normalità.
La Juve, che per due stagioni consecutive si vede stoppata ad un passo dal traguardo, ti richiama al timone. E la favola riprende. Nel maggio 2001 i giornali annunciano «Lippi torna sulla panchina bianconera». L’arte della critica prova anche a ironizzare, parlando senza mezzi termini di “minestra riscaldata”.
Il primo a credere proprio il contrario è una persona a cui tu Marcello, ma in generale tutto il popolo bianconero, è molto legato: l’Avvocato Agnelli. E ancora una volta il primo tifoso vede bene e la scelta fatta dalla dirigenza di richiamare il tecnico delle ultime vittorie è quella giusta. La “Juve due” non cerca vendette e riscatti. Cerca invece certezze e consapevolezza della propria forza. Ritrovate un passo alla volta e suggellate con l’indimenticabile pomeriggio di domenica 5 maggio, una data entrata di diritto nella storia della Vecchia Signora.
Tu e i tuoi ragazzi in corsa fino all’ultimo giro, con caparbietà, e sul traguardo ecco lo scherzo tirato all’Inter. Quella stessa Inter in cui hai trascorso parte del periodo di lontananza da Torino.
L’anno dopo il bis in campionato. Lo scudetto numero ventisette, da dedicare proprio all’Avvocato (e a Vittorio Chiusano) scomparso nel gennaio 2003, prima di poter vedere esaudito il sogno della terza stella sulla maglia bianconera.
Ma è in Europa che riviviamo le emozioni più intense. Torniamo a vincere lontano da Torino (succede a Kiev), ma soprattutto assistiamo a una serie di imprese d’altri tempi, soprattutto contro le temibili rivali spagnole: il successo all’ultimo secondo sul Deportivo, il colpaccio al Camp Nou contro il Barcellona e il trionfo con il Real Madrid, in quella che molti hanno definito la partita perfetta. Più semplicemente quella che tutti i sostenitori juventini non dimenticheranno mai.
Un altro ciclo vincente, realizzato grazie a tanti ragazzi che già avevano fatto grande la tua prima Juve e altri che, man mano negli anni, sono stati inseriti nel meccanismo. E che tu hai aiutato a far crescere o a esplodere, magari con l’ausilio di qualche accorgimento tattico. Al Pallone d’Oro conquistato recentemente da Pavel Nedved ha contribuito in maniera determinante la posizione di trequartista dietro le punte che hai disegnato per lui. Così come l’ultima ottima annata vissuta da Gianluca Zambrotta è frutto soprattutto della posizione di esterno sinistro difensivo.
Un’annata invece non altrettanto indimenticabile per tutta la Juventus. Una stagione in cui la dea bendata ti ha spesso voltato le spalle, in particolare nel momento topico, affrontato con gli uomini contati. Nonostante tutto sono arrivati un terzo posto in campionato, con un bottino di punti appena inferiore a quello che dodici mesi prima aveva permesso la conquista del titolo, una finale di Coppa Italia e, per chi se lo fosse dimenticato, una Supercoppa Italiana, conquistata a spese del Milan Campione d’Europa in carica.
Traguardi che forse in altre piazze sarebbero festeggiati a lungo. Non così in una società come la Juventus. Forse anche per questo hai deciso di lasciarci. E lo hai fatto con la dignità che ti ha sempre contraddistinto in questi splendidi anni. Durante la conferenza stampa in cui hai annunciato la tua decisione, hai detto al mondo «Non saranno certo questi ultimi mesi a farmi dimenticare quanto questa squadra ha fatto nel corso di questi due cicli, questa è una favola che resterà sempre nel mio cuore».
E tra i primi a capirlo ci sono stati proprio i tifosi bianconeri. L’applauso del Delle Alpi e il tuo giro di campo al termine della gara contro la Sampdoria rimarranno nella memoria di tutti. Ora sì che possiamo dire con tranquillità: la favola ha avuto il suo meritato finale.
Cosa possiamo ancora dirti, caro Marcello, se non un altro GRAZIE e salutarti con affetto. No, non ti diciamo addio. Se la tua strada e quella della Juventus torneranno a incrociarsi, sarà solo il destino a dircelo. Chi lo sa, magari un domani ci sarà anche un “Lippi tre”, forse con altri incarichi diversi dalla panchina. Intanto ti diciamo un arrivederci.
Prima di lasciarci hai dichiarato ancora «Io resterò per sempre un grandissimo tifoso di questa squadra e mi vedrete tante volte in tribuna a tifare e gioire con questa squadra».
Allora a presto, al Delle Alpi, magari in compagnia di Lorenzo che in questi mesi è diventato forse il nipote più famoso d’Italia. Un nipote a cui nonno Marcello ama raccontare soprattutto una favola. Quella di Lippi alla Juventus.

NEVIO CAPELLA, DA JUVENTIBUS.COM DEL 23 OTTOBRE 2020
Per quanto sia impossibile farne un ritratto in un solo articolo, non si può restare indifferenti dinanzi alla notizia del ritiro ufficiale dall’attività di allenatore di Marcello Lippi.
Per quelli della mia generazione, i quarantenni di oggi, Lippi è candidato a restare per distacco l’allenatore juventino più amato e bravo di tutti grazie ad una serie di meriti e traguardi raggiunti sul campo di battaglia che hanno contribuito a trasformarne le sembianze da umane a divine.
Lippi è il messaggero mandato dalla provvidenza a invertire una rotta che a metà degli anni Novanta stava trascinando la Juventus verso un pericoloso e irreversibile oblio, al netto di un curriculum che fatto salvo un ultimo anno di buon livello a Napoli, non sembrava essere portatore di grandi auspici.
E invece creando una miscela esplosiva e funzionale di onesti gregari completamente devoti al loro comandante e campionissimi con diverse storie da romanzo alle spalle, Marcello riesce con un’impresa senza precedenti a inanellare il filotto che porta la Juventus sul tetto del mondo, passando per il primato nazionale prima e quello continentale poi nel giro di poco più di due anni, 818 giorni per l’esattezza.
Tra le sue caratteristiche principali spicca senza dubbio il grande coraggio, specie quando ci sono da fare scelte talmente importanti da risultare troppo rischiose o impopolari: penso al varo di quel 4-3-3 decisamente offensivo con cui dopo i primi complicati mesi torinesi, svolta la stagione e probabilmente la sua carriera, o al momento in cui, informato della possibilità di monetizzare con Roberto Baggio, il campione più amato dell’epoca, dà risposta è immediata e parere positivo creando l’innesco di quella leggenda che risponde al nome di Alessandro Del Piero.
Lippi è forse il primo allenatore italiano ad assumere i connotati del classico manager calcistico inglese, per quanto è proficua la sinergia con i dirigenti bianconeri, e non è un caso se trai colleghi che maggiormente lo ammireranno portando la sua Juve come esempio da seguire c’è Sir Alex Ferguson.
È anche grazie a questa dote che nel corso dei suoi due cicli juventini riesce a garantire continuità a una macchina quasi perfetta, nonostante ogni anno ne vengano sistematicamente cambiati alcuni ingranaggi.
A proposito dei suoi cicli, altro unicum della sua carriera è l’essere riuscito a sfatare il tabù della cosiddetta minestra riscaldata, quella metafora che si usa per spiegare che difficilmente il ritorno di un allenatore sul “luogo del delitto” può portare a buoni risultati: per Marcello non è così, quando torna a casa nell’estate del 2001 l’incantesimo sembra non essersi mai rotto, ma soltanto messo in stand-by.
Altri due scudetti e altrettante supercoppe nazionali (alla fine saranno rispettivamente cinque e quattro) la cui bellezza viene purtroppo parzialmente oscurata dalla terza Champions League persa.
Ecco, Lippi non è stato perfetto, la perfezione non è di questo mondo, si sa.
Ha commesso, come tutti, i suoi errori, come quella volta che abbandonò la nave in colpevole ritardo e da promesso sposo alla peggiore tra le rivali, o quando da fresco campione del mondo con la nazionale italiana gli venne meno il proverbiale coraggio, e scelse di non tornare una terza volta da Madama, ma di restarle a suo modo fedele come collaboratore/consigliere della nuova dirigenza juventina, quella “simpatica” del post calciopoli, facendo però più danni che cose buone.
Gli abbiamo perdonato tutto, proprio come si fa con le persone di famiglia, persino quell’inspiegabile tendenza a complicarsi la vita nell’habitat in cui, in fin dei conti, la Juventus ha spadroneggiato come mai nella sua storia proprio grazie a lui, la Champions League.
Vittoria al primo tentativo, record di tre finali e quarantadue gare consecutive (cinquantaquattro europee, se si conta anche la coppa Uefa 1994-95) senza eliminazione, ma anche tre finali perse condite da qualche scelta che si è fatto fatica a comprendere, come Del Piero in panchina nel primo tempo di Monaco 1997 o Camoranesi e Montero fuori ruolo e Zalayeta preferito a Di Vaio a Manchester 2003.
Tra i vari aneddoti che lo riguardano e i tributi che gli hanno dedicato colleghi e vari addetti ai lavori che ne hanno incrociato il cammino, scelgo il già citato Ferguson che di lui un giorno disse: «È un uomo imponente, guardarlo negli occhi è sufficiente per dirvi che avete a che fare con qualcuno che è al comando di se stesso e della sua professione. Una sera, durante uno dei tanti Juve-Manchester di quegli anni, ero con la mia tuta che annegavo sotto la pioggia battente: quando mi girai verso la sua panchina lo vidi imperturbabile, elegantissimo e con il suo sigaro in bocca, e mi innervosii ulteriormente nel constatare che oltre a essere bravo era anche dannatamente bello».

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