mercoledì 13 dicembre 2023

Pietro SERANTONI


Nasce a Venezia il 12 dicembre 1906. Nel 1927, a poco più di vent’anni Toni è militare, a Milano, gioca nella Minerva in seconda divisione in attesa di lasciare la divisa e tornare in Laguna. Lo nota Árpád Weisz, allenatore dell’Ambrosiana-Inter: per 300 lire al mese diventa nerazzurro. Nel 1929-30 è promosso titolare, debutta a Livorno e Weisz gli assegna il compito più difficile, fermare il motorino del Livorno, Magnozzi. Ci riesce e l’Inter vince 2-1.
Non salta una partita, conquista il primo scudetto a girone unico, un ottimo avvio di carriera. Trova un amico, Meazza, un ragazzino esile e sperduto in mezzo ai marcantoni delle difese. E allora guai a toccarlo, Toni con lealtà ma gelidamente, è pronto a spietate vendette. Con il Pepp fa coppia fissa, dentro e fuori dal campo e l’amicizia continua anche quando il calcio diventa solo un ricordo. Esordisce in Nazionale, giocando a Bruxelles contro il Belgio: 3-2 con due goal di Meazza.
La Juventus lo acquista sborsando la cifra di 65.000 lire, un anno in bianconero (siamo nel ‘34-35), partecipa all’eliminatoria mondiale con la Grecia a Milano e il 14 novembre del 1934 è uno dei Leoni di Highbury. In ritiro piove, Pozzo dice niente allenamento e tutti tornano in camera oppure giocano a carte. Toni, invece, si mette a correre nell’albergo, sale e scende ininterrottamente le scale. Pozzo lo ferma: «Sei matto?». E lui di rimando: «Io devo allenarmi. Se fuori non posso, lo faccio qui!».  Conquista il pubblico londinese per le sue doti di combattente e gladiatore, a fine partita scende negli spogliatoi, per congratularsi con lui, nientepopodimeno che Guglielmo Marconi.
Uno scudetto bianconero con 15 presenze e l’infortunio: menisco. L’operazione, a quei tempi, era piena di incognite, quasi una certa condanna: niente più calcio: «E qui – raccontava – nella sfortuna sono stato fortunato. Con un’altra società avrei dovuto smettere di giocare, la Juventus era diversa. Mi fece curare, guarire, ma poi mi cedette alla Roma. Forse non credeva nel miracolo».
Nel ‘36 debutta in giallorosso a Vienna (sconfitta per 3-1), gioca nella squadra dell’Europa Centrale (3-1 all’Europa Occidentale) ed esplode ai Campionati Mondiali in Francia. Viene giudicato uno dei laterali di maggior valore in campo mondiale. Pozzo lo descrive in questo modo: «Serantoni non è un tecnico di qualità eccezionali. È un combattente di levatura eccelsa, nelle situazioni difficili è l’uomo che trascina alla lotta l’intera squadra».
Portabandiera della Roma, gioca l’ultimo campionato nel ‘39-40, pensa al ritiro ma gioca ancora nel Suzzara dal ‘40 al ‘43 in serie C (41 presenze e 3 reti) e nel ’43-44 nel campionato Alta Italia (2 presenze, facendo anche l’allenatore). Nel dopoguerra disputa una partita in B nel Padova nella stagione 46-47, anche in quel caso era giocatore-allenatore: «Ma il calcio – diceva – non è più per me, troppi furbi». Lo delude soprattutto la Roma, che cerca di salvare dalla B sostituendo Masetti e che, invece, poco dopo lo licenzia.
Morirà il 6 ottobre del ‘64, ucciso da un tumore al cervello. La volontà ferrea che lo aveva portato dai vicoli di Venezia al titolo di Campione del Mondo si è dovuta arrendere, per la prima volta, di fronte a un ostacolo troppo forte.

VITTORIO POZZO, DA “LA STAMPA” DEL 7 OTTOBRE 1964
La quinta penna mozza di quella serie di uomini di tempra e di carattere, che vinsero due Campionati del Mondo e una Olimpiade. Lo avevano preceduto nella tomba Caligaris, Ferraris, Combi, Guaita. Lo chiamavamo familiarmente Toni. Era il più piccolo, ma il più allegro, il più scherzoso di tutti. Lo avevo scartato dal primo Campionato del Mondo da noi vinto, su preciso invito del medico, nel 1934; e lo avevo riammesso all’edizione seguente della grande competizione mondiale quattro anni dopo, su nuovo referto dei dottori che me lo davano come in ottime condizioni fisiche. Non era un tecnico di qualità eccezionali: era un combattente di levatura eccelsa. Nelle situazioni difficili era l’uomo che trascinava alla lotta l’intera squadra. A Londra, sul campo dell’Arsenal, il giorno in cui il famoso Drake ruppe un piede al nostro Luisito Monti, Toni fece una partita che non è esagerato definire come eroica.
Lo stesso preciso grave infortunio che aveva stroncato Luisito, doveva colpire lui, due anni dopo, a Berlino: la frattura dell’alluce del piede destro. La frattura, che passa per una delle più dolorose che possano essere inferte al corpo umano, non lo fermò. Volle che io rimanessi sulla linea del campo, e gli scandissi i minuti che mancavano alla fine dell’incontro. Dopo, negli spogliatoi, il dottore che lo visitò (che era stato capitano medico) ebbe a dirmi: «Sono stato in guerra e ne ho viste di tutti i colori. Ora, se io non fossi stato accanto a lei, non avrei mai creduto che un uomo potesse superare con tanto stoicismo una simile lesione».
Immerso nel bagno, Toni, stringendo i denti mi chiese in dialetto veneto: «Cossa che dis quel Tuder?» Tradussi. E lui rispose: «Già, ed io dovevo scappare dal campo dopo quello che lei ci aveva detto prima della partita!».
Guarì perfettamente, e fece il Campionato del Mondo, in terra di Francia, nel 1938, tutto in crescendo di energia e di linearità. Era veneto, anzi veneziano. Aveva giocato nell’Ambrosiana, nella Juventus e infine nella Roma. Poi, nella Capitale, si era dedicato al commercio, aveva aperto un’autorimessa, ed economicamente si trovava in floride condizioni. Attratto dal richiamo del giuoco, aveva voluto poi provare in qualità di dirigente tecnico, prima a Padova e poi a Roma, ma aveva compreso subito che i tempi erano cambiati!
Improvvisamente, si era ammalato, lui immagine della salute. Si era fatto trasportare in una clinica di Padova, la città dove era di casa. Saputo delle condizioni in cui versava, gli avevo telegrafato ordinandogli, in tono scherzoso, di vincere anche questa battaglia. Non sapevo che il professor Frugoni lo aveva dato per spacciato e aveva dichiarato che l’uomo sopravviveva soltanto per la sua incredibile resistenza al male. Si era poi fatto trasportare a Roma. Lo avevo visitato, a casa sua, l’ultima volta che ero stato nella Capitale. Aveva subito la trapanazione del cranio, era tutto fasciato. Mi guardò serio serio, e prendendomi la mano, mormorò «Uno per uno». Uno per uno: doveva essere il quinto di quella serie di gladiatori.

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