venerdì 18 settembre 2020

Nicola AMORUSO


Otto, sedici, diciassette, venti, ventuno, quaranta e ottantadue. Giocate questi numeri – scrive Matteo Dalla Vite sul “Guerin Sportivo” del 13/19 dicembre 1995 – sono vincenti. Ve lo consiglia la Polisportiva Amoruso, angolo di mondo in cui tutto è dinamicità, gioia, successo. La Polisportiva Amoruso parte da Flavio e arriva a non no Giacomo. E nel mezzo... «Già, nel mezzo c’è una bellissima storia da raccontare. Vuoi sapere la più bella? Mio zio Luciano, quarantenne, giocava a calcio ed era soprannominato il Bettega di San Ciro. Grande giocatore, faceva paura a tutti... Occhio, però, non finisce mica qui...».
Nicola Amoruso, bomber del Padova, si apre in un sorriso piacevole e disteso. Ama parlare di sé ma ancor più di una famiglia in cui lui, “dinamitardo” del gol, rappresenta la punta di un iceberg del quale andare orgogliosi. Nicola ha ventuno anni, l’umiltà giusta per chi ha voglia di sfondare e altri particolari da raccontare. «Partiamo dal basso? Bene. Allora c’è Flavio di otto anni che gioca a tennis a Cerignola ed è uno dei migliori, in assoluto. Poi viene Brunella, la mia sorellina di sedici anni che pure gioca a tennis a Fano, ed è una mini campionessa. Andiamo avanti? Segue Fabio, ha diciassette anni e gioca nel Cerignola da attaccante. Se solo ne avesse voglia...».
Pausa. Fabio è accanto a lui, è venuto qualche giorno a Padova a vivere col fratello più famoso. «Nicola – dice Fabio un po’ imbarazzato – afferma che sono il migliore di tutti noi. Mica è vero, il migliore di tutti è Luca, quello dell’Avellino».
E sorride. Il ping-pong in casa Amoruso prosegue. «No, caro Fabio: se tu ne avessi più voglia potresti sfondare, credimi... E comunque anche Luca e davvero bravo. Ha vent’anni sta crescendo bene».
Una fotografia, un altro sorriso, poi la Dinasty prosegue. «Di zio Luciano abbiamo detto, manca nonno Giacomo. Quando giocavo nella Fidelis Andria cavalcava la sua 131 scassata e veniva a vedermi ogni domenica. Ha un gran fisico. E stato campione di lancio del giavellotto, e oggi porta i suoi ottantadue anni con grande freschezza».
Dinasty Amoruso. E questo è solo l’inizio. Mamma Maria e papà Vincenzo hanno forse sfondato in qualche disciplina sportiva? Sbagliato. Sono gli unici «sedentari». O quasi. «Mia madre – prosegue Nicola – è laureata in Scienze biologiche e dopo aver insegnato per molti anni, da qualche tempo si è messa a gestire un negozio di oggettistica. Papà Vincenzo? Fa l’industriale, ha un mulino, ma è proprio grazie a loro se sono riuscito a trovare una collocazione nel mondo del calcio».
Già, perché non deve essere stato facile per nessuno dividersi dopo quattordici anni insieme. Nicola aveva giusto compiuto questa età che si trovò a partire per Genova. Per i dettagli, leggere quanto segue. «Cominciai a giocare nel condominio “Vitrani”, a casa mia. Tirai i primi calci al pallone con Luca, poi insieme andammo al Trinitapoli e stupimmo un po’ tutti. In tre anni facemmo sfracelli. Ricordo che in una stagione io segnai trentotto gol e lui trentadue2. Due autentiche bombe».
Poi, ecco la Grande Opportunità. Non sempre capita. A Nicola sì. «Santamato era l’osservatore della Sampdoria che, abitando a Bari, scovava talenti nella nostra Regione. Un giorno venne a vedermi al Trinitapoli, qualche giorno dopo mi ritrovai a fare un provino nella Sampdoria. Ne sostenni due nel giro di un mese: nel primo andai molto bene e realizzai pure un gol; nel secondo pioveva di brutto e la partitella finì quasi subito. Beh, il resto è intuibile: rimasi a Genova previo assenso dei miei. Avevo quattordici anni, mia madre che sbuffava e mio padre che mi spronava a proseguire l’avventura. Insomma, tutto esaltante ma anche difficile al tempo stesso».
Ogni due settimane papà Enzo e mamma Maria andavano a Genova a trovarlo. La voglia di mollare tutto, a volte, c’è stata. Eccome. «Credimi, non è facile dividersi dalla famiglia in età adolescenziale. Ho avuto la grande fortuna di poter contare su due genitori splendidi. Sennò, forse non ce l’avrei fatta».
Nel frattempo, fra dubbi, piccole gioie e una crescita improvvisa, Nicola percorre tutta la trafila nelle giovanili. Quindi, ecco il salto che vale, l’esordio in Serie A. «Sì, datato 12 dicembre 1993, Inter-Samp 3-0. Non è andata bene, certo, ma l’emozione provata è stata ovviamente indescrivibile».
Da quel momento, la scalata. E un’etichetta che comincia a farlo conoscere per tutta Italia. Protagonista Ruud Gullit. Prima riserva, Nicola Amoruso. «Lo sostituii due volte e da quel momento diventai il vice-Gullit. Come lo ricordo? Come un grande. Così come ricordo stupendamente tutto lo spogliatoio della Samp».
Che anno quell’anno. Otto presenze e la bellezza di tre gol. Il ragazzo vale. «La rete più bella la segnai all’Inter nel ritorno: vincemmo tre a uno, io segnai il terzo gol. Ma la partita che ricordo di più fu Sampdoria-Reggiana. Quel giorno in tribuna c’era mio padre. Partii dall’inizio e solo una paratona di Taffarel mi negò un gran gol. Peccato, però nella galleria dei ricordi questa è l’immagine più bella che conservo: davanti a papà Enzo mi esaltai...».
Nicola è appassionato di letture e di storia. Ohibò, ne vedi pochi così. «Già, mi piace la storia, mi è sempre piaciuta. Gli studi? Ho preso la maturità scientifica al Liceo “Bernini” di Genova e da poco mi sono iscritto all’Università, Scienze Politiche. Esami? Zero, non dimenticare che ho anche il servizio militare...».
Nella sua carriera ha avuto tanti maestri calcistici. «Mignani e Sabatini nelle giovanili della Samp, poi Soncini, un maestro. A lui devo tantissimo: mi ha insegnato molto, a stare in campo e fuori. Mi ha insegnato ad acquisire personalità, a non ripetere certi errori. Ricordo che il primo cazziatone vero lo ricevetti proprio da lui: avevo sbagliato un movimento, venne giù lo spogliatoio».
Poi Eriksson, Bellotto, Sandreani e i due azzurri Cesare Maldini e Rossano Giampaglia, vice di Cesarone e tecnico dell’Under 21 di Serie B. Per ognuno di loro, un flash, un insegnamento. «Partiamo da Sven, un grande: mi ha insegnato i movimenti senza palla e ad acquisire una mentalità vincente. Bellotto? Per me è stato come un padre: mi ha dato fiducia ed io l’ho ripagato. Poi, dopo un girone d’andata stupendo, la nostra Fidelis Andria mollò un po’. Sandreani? Un tipo preparato, attento e scrupoloso: sto imparando cose che ancora non avevo visto. Il citi Maldini? Mi ha fatto capire cos’è la disciplina e con Giampaglia ho intuito cosa sia realmente il rispetto per il prossimo. Insomma, posso solo essere contento. In attesa di altri maestri, ovvio...».
Ma chi è questo ragazzo dolce, umile, simpatico forse incapace di fare follie? «No, aspetta che ti racconti questa. L’anno scorso, finito l’allenamento, presi mio fratello Luca e un amico, Piero, e volammo a Parigi per vivere diversamente il Capodanno. Rimanemmo in Francia solo un giorno e mezzo, ma aver fatto questa piccola-grande pazzia ci ha divertito un mondo».
Non si ritiene invidioso («Mai provato un sentimento del genere»), fra la vendetta e la tolleranza sceglie la prima voce e si imbestialisce davanti a una sola cosa, la disonestà. «Non la sopporto: amo essere sincero con tutti e troverei giusto che gli altri lo fossero con me».
E romantico («In generale sì, ma dipende dalla ragazza...»› si affretta a precisare) e ciò che sa far meglio è legare amicizie con chi gli va a genio. «Faccio amicizia facilmente, ma non con tutti. E ciò che so far meglio da calciatore sai cos’è? Sopportare le critiche: purtroppo qui a Padova ne sono piovute tante, ma non mi abbatto: sarà banale, ma posso solo dire che fa parte del gioco...».
Affascinato dal compagno Lalas («È un ragazzo intelligente, mi piace molto»›), da piccolo tifava per la Juventus. Quella Juventus che pare essersi interessata alla sua ottima tecnica, al suo buon fiuto del gol, al suo saper interpretare ottimamente il ruolo del tipico attaccante moderno. «Alt, non so niente, né della Juve né tantomeno del mio futuro. Io gioco per il Padova. E in testa non ho altro».
Ventuno anni, insomma, ma anche un soprannome esplosivo (Nick dinamite) e soprattutto una testa che sa girare bene. «Nick dinamite? Un bel nomignolo, spero di guadagnarmelo. Un sogno? Per il ‘96 voglio la salvezza del Padova, vorrei svegliarmi la mattina dopo la fine del campionato e leggere sui giornali che siamo ancora da Serie A. Preparerò una grande festa qui, dove abito, a due passi dal vecchio Appiani. E sì, farò venire tutti i miei familiari, da Flavio a nonno Giacomo».
Un’occasione unica per conoscere da vicino la Polisportiva Amoruso. Una Dinasty vincente dalle risorse infinite.

Il Padova retrocede in Serie B, ma Nicola, grazie ai suoi quattordici gol, conquista la Juventus. Non è facile trovare spazio in quella squadra, il parco attaccanti è terrificante: Del Piero, Boksic, Padovano, Vieri e appunto lui, Nick Dinamite. Ma non si perde d’animo, dopotutto ha solamente ventidue anni. Comincia a lavorare duramente e i risultati arrivano. La stagione è da incorniciare; sono tanti i gol decisivi di Amoruso, soprattutto in Coppa Campioni, dove riesce a esprimere in pieno la sua grande dote realizzativa. Suo è il gol della tranquillità contro i norvegesi del Rosenborg, realizzando un rigore a tempo scaduto. Contro l’Ajax, nella semifinale, iscrive il proprio nome nel tabellino, sia ad Amsterdam sia a Torino, nella splendida vittoria per 4–1.
Purtroppo la finale contro il Borussia Dortmund non è felice; Nick entra nel secondo tempo, ma non riesce a risolvere la partita. Alla fine della stagione, si possono fare i conti: trentacinque partite e nove gol, compreso quello al Parco dei Principi, nella goleada contro il P.S.G., nella finale di Supercoppa Europea: «Io avevo molto legato con Bobo Vieri, Iuliano e Montero ma era un gruppo famiglia guidato da un grande tecnico come Lippi e con una grandissima società alle spalle. Sì, la Juventus è un club impareggiabile e i risultati che ottiene sono il frutto del lavoro che produce».
Comincia la stagione 1997-98: sono partiti Boksic e Vieri, ma arriva Superpippo Inzaghi, fresco vincitore del titolo di capocannoniere della Serie A, con l’Atalanta. Amoruso parte spesso dalla panchina, ma non si scoraggia: Inzaghi non ingrana e, alla decima giornata, Lippi lo schiera titolare. Si gioca a San Siro, contro il Milan, per Nick può essere la rampa di lancio definitiva. Purtroppo, però, la sua partita dura pochi minuti: in uno scontro con Costacurta si infortuna gravemente al perone. La sua stagione, in pratica, finisce qui. Rientra alla fine del campionato, giusto per racimolare qualche minuto di gloria, poiché la Juventus sta per vincere il suo secondo scudetto consecutivo. Qualche soddisfazione arriva, come al solito, dalla Champions; Amoruso gioca la semifinale di ritorno, contro il Monaco e realizza anche una rete, nell’inutile sconfitta per 2-3. Guarda i propri compagni uscire sconfitti dall’Amsterdam Arena, nella finale contro il Real Madrid. In totale diciotto presenze e cinque gol: «La società mi è stata sempre accanto e mi diede una grande spinta morale per guarire dal grave infortunio che ho subito. Mi sentivo tutelato in tutto e per tutto. Non soltanto io. Anche oggi, chi fa parte della Juventus sa che alle spalle c’è una società, come dire, stratosferica».
La stagione 1998-99 è avara di soddisfazione per la Juventus e per Nicola: la squadra stenta e Lippi dà le dimissioni. Arriva Ancelotti, ma la musica non cambia. Nick litiga con l’allenatore emiliano e, dopo un gol alla Sampdoria, sfoga tutta la sua rabbia contro il mister. Amoruso non ha ancora ripreso pienamente dall’infortunio e la sua rapidità è limitata e fatica a trovare spazio. Le sue presenze saranno ventotto, i suoi gol sei. Emigra nuovamente al Sud, a Napoli: trenta partite e dieci gol e, nell’estate del 2002 ritorna alla Juventus. Si respira aria nuova, anzi vecchia, a Torino. È ritornato Lippi ed è subito scudetto. Nick scende in campo raramente, solamente in Coppa Italia trova il giusto spazio: alla fine saranno ventidue presenze e sette reti, di cui sei in Coppa Italia. L’avventura bianconera di Amoruso finisce qui.
Comincia un lungo peregrinare per l’Italia: Perugia, Como, Modena, Messina e Reggio Calabria, le sue tappe. Ma con la Juventus sempre nel cuore: «Quattro anni e mezzo di Juventus non potrò mai dimenticarli. Sono state stagioni indimenticabili. Quella gloriosa maglia bianconera mi veniva di baciarla ogni qualvolta la indossavo. Con quella maglia ho vinto tre scudetti ed ho disputato due finali di Champions League». Quando ritorna al Delle Alpi gli batte sempre forte il cuore: «Sì, mi succede ogni volta che entro in campo con un’altra maglia. È sempre una grandissima emozione che provo».

CLAUDIO PELLECCHIA, DA JUVENTIBUS DEL 30 MARZO 2017
Non ho mai particolarmente apprezzato i Peanuts. Almeno fin quando non sono stato in grado di cogliere dietro il tratteggiare di Charles Schulz la grande (auto)ironia di fondo e la capacità di rappresentare le varie emozioni umane. Non ricordo quando ho preso coscienza di tutto questo. Ricordo, però, quando ho compreso alla perfezione il significato del concetto di “coperta di Linus”. Solo che, per me, “l’oggetto transizionale che aiuta a superare la paura e colmare i vuoti” non era, appunto, un oggetto, bensì un calciatore: ecco, Nicola Amoruso da Cerignola era la mia “coperta di Linus”. Manifestatasi, in tutta la sua necessarietà, in una strana serata europea.
È il 18 settembre del 2001, un martedì di Coppa dei Campioni particolare. E non solo perché si tratta del debutto europeo della prima Juventus post Zidane. Il debutto vero e proprio, infatti, sarebbe dovuto avvenire una settimana prima a Porto, se non fosse stato per l’intrusione della Storia con la S maiuscola che, per una volta, ha imposto una deroga all’inflazionato “show must go on”. Comunque, nel solito, tiepido, Delle Alpi dei giorni feriali si gioca uno Juventus–Celtic Glasgow dall’esito apparentemente scontato. E il 2-0 sul tabellone poco dopo l’ora di gioco (doppietta di Trézéguet) lascia presagire una conclusione tranquilla della vicenda. Poi, però, la solita Juve da fase a gironi: una cosa va storta, poi un’altra, poi un’altra ancora ed ecco, in rapida successione, il 2-1 di Petrov, l’espulsione di Davids, il 2-2 di Larsson su rigore (generoso) accordato dall’arbitro Krug. Il cronometro corre veloce verso il novantesimo. Ci sarebbero tutti gli elementi per essere preoccupato e nervoso. Eppure una calma serafica mi avvolge. Da qualche minuto (e siamo poco oltre l’88’), infatti, è entrato in campo Nicola Amoruso. La mia coperta di Linus, appunto. Che fa quel che deve fare: rigore (altrettanto generoso) procurato e trasformato, 3-2, fischio finale, tutti a casa.
È l’estate del 1996. La Juventus campione d’Europa, in piena rivoluzione (saluteranno, tra gli altri, Paulo Sousa, Gianluca Vialli e Fabrizio Ravanelli), acquista dal Padova per sette miliardi di lire Nicola Amoruso, promettente ventiduenne di Cerignola, messosi in luce in una squadra che aveva mestamente chiuso all’ultimo posto in classifica il campionato appena concluso. Il ragazzo sarebbe l’ultimo nelle gerarchie di un reparto d’attacco composto da Del Piero, Vieri, Boksic e Padovano, eppure colpisce tutti per la sua capacità di risultare sempre decisivo nelle occasioni in cui Lippi lo chiama in causa. E non sono sempre quegli umilianti scampoli di partita che sono nel destino di ogni bomber “di scorta” che si rispetti, ma vere e proprie occasioni della vita, simili a quei treni che passano una volta e forse mai più e che lui, da bravo ragazzo del Sud, ha imparato a prendere fin da ragazzo: come quando, a diciassette anni, passò dal Trinitapoli alla Sampdoria come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Il 9 aprile 1997, ad esempio, all’Amsterdam Arena si gioca la semifinale d’andata di Champions League. L’Ajax di Van Gaal fiuta la vendetta della finale di Roma dell’anno prima, non foss’altro perché, con Del Piero infortunato, i bianconeri schierano una coppia d’attacco giovane e inedita a certi livelli: Vieri e Amoruso, infatti, sono due che si sono trovati catapultati quasi per caso dai campi di provincia ai 180 minuti che valgono una stagione e, forse, una carriera. Risultato: quarantacinque minuti di lezione di calcio in casa dei maestri olandesi, con uno scarto che non è più ampio solo per l’imprecisione sotto porta dei Lippi Boys. E il primo gol, ovviamente, porta la firma di Amoruso. Che si ripeterà due settimane dopo nel 4-1 del ritorno, scartando il cioccolatino gentilmente offerto da uno Zidane in totale delirio di onnipotenza. Non tarda poi molto perché “Nick piede caldo” si confermi il Boniek degli anni Novanta, uno che dà il meglio di sé in Europa, di notte, quando le stelle, non necessariamente le più lucenti, si vedono meglio. E poco importa se è sempre l’ultimo tra gli attaccanti. Lui, c’è sempre. Che si tratti di siglare la rete che vuol dire terza finale di Champions consecutiva: o di giustiziare il Rosenborg nell’ultima partita di un girone fattosi improvvisamente complicato dopo cinque pareggi consecutivi.
Ecco perché quel 18 settembre del 2001, a due minuti dalla fine, ero così tranquillo. In campo è appena entrato Nicola Amoruso. E qualcosa sarebbe accaduto per forza, per il solo fatto che la mia “coperta di Linus” fosse lì.
Non avrebbe poi segnato molti altri gol in quel 2001-02. Nessuno nelle nove presenze in campionato, sei nelle sette partite di Coppa Italia. Termina la sua seconda e ultima parentesi in bianconero (la prima si era conclusa nel 1999), si prende lo scudetto del 5 maggio e se ne va proprio come era arrivato: in punta di piedi, senza far rumore. Lo rivedo, poi, cinque anni dopo, con la maglia della Reggina. Lui ha continuato a girare l’Italia in lungo e in largo, la Juventus è appena tornata in Serie A dopo il terremoto del 2006. Si gioca in un Granillo strapieno e in odore d’impresa: apre Brienza, pareggia Del Piero, amaranto in trincea a difendere un punto prezioso. Fino al novantesimo, fino al rigore conquistato e trasformato con modalità identiche a quelle di cinque anni prima contro il Celtic. Quasi a voler chiudere un cerchio. Non riesco, in quella circostanza, a volergli male. Quel gol, in fondo, è solo il giusto prezzo da pagare a quel salvifico senso di sicurezza che mi aveva accompagnato negli anni precedenti. Quando sapevo che non c’era niente da temere, nemmeno nelle situazioni apparentemente disperate: tanto, alla fine, Lippi lo avrebbe fatto alzare dalla panchina, lui sarebbe entrato e avrebbe realizzato la rete decisiva. Sempre, comunque, contro chiunque.
Stando a Wikipedia, oggi farebbe il dirigente sportivo, anche se le sue ultime tracce in tal senso rimandano al 2013 e ai quattro mesi scarsi da Direttore Sportivo del Palermo di Zamparini. Eppure è un ruolo in cui non riesco proprio a immaginarmelo. Forse perché spero ancora di vederlo lì, in panchina, pronto a entrare e a cambiare una partita nata male. In pieno Nicola Amoruso style. La mia “coperta di Linus”.

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