Due sole stagioni nella Juventus – scrive Nicola Calzaretta sul suo libro “Tutti gli uomini che hanno fatto grande la Juventus F.C.” – eppure c’è il suo timbro sull’unico trofeo conquistato dalla Juve del Trapattoni bis, la Coppa Uefa del 1993. Una squadra in cerca d’autore quella bianconera, sebbene gli attori siano da Oscar. C’è Roby Baggio, nel suo anno migliore. C’è Andy Möller, tedesco atipico, fantasioso e leggero. C’è Luca Vialli, costosissimo acquisto boom dell’estate. Quindi il baffo di Kohler, il dinamismo di Conte, la sicurezza di Peruzzi, l’irruenza del primo Ravanelli, le geometrie di Marocchi.
E poi c’è lui, l’altro Baggio, giusto il tempo della foto ufficiale in bianconero con la maglia marchiata Upim, e dopo una settimana si trova all’Inter in parziale contropartita del Trap che fa il percorso inverso.
L’esilio dura solo un anno. A fine campionato, torna alla Juventus, stavolta targata Danone, dopo aver debuttato nella Nazionale maggiore con Arrigo Sacchi che lo impiega come centrale nel quartetto di centrocampo. Sembra essere quello il ruolo migliore per lui, che, nato attaccante, nel cuore della manovra dà il meglio di sé, riuscendo ad andare spesso al tiro. A Trapattoni, però, manca il terzino sinistro. Ha già fatto diversi esperimenti l’anno prima. Gli torna il Baggino e non ci pensa due volte.
Dino è eclettico, ha fisico, tiene la posizione e ha una bella corsa. Baggio ci sta, ma si vede che morde il freno e non decolla. No, non è cosa sulla fascia, meglio tornare al centro. Si convince anche il Trap. È la svolta, che matura a novembre 1992. Con il quattro sulla schiena, in un’epoca in cui al numero è possibile ancora associare un ruolo, Baggio fa la differenza.
Soprattutto in Coppa Uefa, decisivo come non mai con gol spettacolari. La prima zampata nell’andata dei sedicesimi, contro i cecoslovacchi del Sigma Olomouc: pallonetto di prima intenzione da metà campo a ribattere una respinta al limite dell’area del portiere. Il secondo graffio nel ritorno dei quarti, a Torino contro il Benfica. Il suo è il gol del 2-0 che ribalta il risultato dell’andata: tocco sotto porta, da centravanti d’area. Ma i capolavori, Dino Baggio da Camposampiero, li riserva per le due finali contro il Borussia Dortmund. Ne fa tre, capocannoniere indiscusso dei centottanta minuti che regalano alla Juve la sua terza Coppa Uefa. All’andata, il suo sinistro piazzato dopo dribbling sull’avversario rimette in pista la Juve sotto di un gol, aprendo la strada alla goleada. Nel ritorno, il suo uno-due nel primo tempo mette KO i gialli fosforescenti dell’ex Reuter. Botta di sinistro dalla breve distanza dopo assist di tacco di Vialli: Juve 1, Borussia 0. Quindi, colpo di testa su punizione laterale di Andy Möller. Una sua specialità: stacco ad anticipare la parabola, collo teso e rotazione perfetta. Il pallone picchia sul palo lontano e gonfia la rete. Mentre il Delle Alpi esplode, festa grande in campo e sugli spalti, Möller e Kohler se la ridono di gusto.
Dino Baggio, con le sue gote rosse e lisce, guarda già al futuro. L’anno che verrà gli riserverà sorprese poco gradite. Pendolare tra campo e panchina, si consola con l’azzurro. In America è uno dei big della Nazionale vicecampione del mondo. Torna dagli Stati Uniti e per lui non c’è più posto nella Juve. Se ne va a Parma e, quando vede bianconero, trova sempre il modo di andare a segno.
NICOLA CALZARETTA, DAL “GUERIN SPORTIVO” DEL 1-7 DICEMBRE 2009
Per qualche tempo è stato l’altro Baggio, quello alto e lungo e che come Roby aveva origine venete. Nessuna parentela tra i due, per diversi anni compagni di banco. Un po’ nella Juventus e abbastanza in Nazionale. Una carriera iniziata presto, in quello che era un tempo il cosiddetto fertile vivaio del Torino. Non una formula giornalistica, ma la realtà di una società che ogni anno proponeva nomi nuovi per il calcio granata e per quello italiano. Il fisico lo aiuta, i piedi sono buoni e la grinta non manca. Così nel 1991, a vent’anni, è già uomo mercato per un trasferimento che non passa inosservato, visto che lo prende la Juve.
La foto ufficiale in bianconero, ma dopo una settimana si trova all’Inter. Sono le prime avvisaglie di un destino che porta Dino Baggio dritto dritto nel girone dei giocatori che suscitano discussioni e scatenano polemiche. Anche alla luce di quello che accadrà poi nella sua parabola di calciatore spesso decisivo: dal ritorno alla Juventus alla posizione in campo. Dalle ritrosie ad accettare il trasferimento al Parma al ruolo chiave per la Nazionale di Sacchi. Fino al rosso del 9 gennaio 2000, con relativa condanna immediata e pene accessorie scontate nei successivi anni di fine carriera. Un lungo addio costellato da poco pallone e molte amarezze, sfociato in una delle prime cause di mobbing in ambito calcistico. Adesso è tornato a casa, in attesa di nuove occasioni. E da lì, intanto, affronta la vigilia del big match Inter-Juventus, una sfida che non lo vede indifferente. Anche se «il calcio adesso lo seguo poco. Preferisco le serie minori o i giovani. Dopo quello che mi è toccato, mi è passata un po’ la voglia»›.
– Immagino tu faccia riferimento all’espulsione del 9 gennaio 2000 in un Parma-Juventus, giusto?
«È da quel momento che sono cominciati i miei guai e sono rimasto fuori dal giro della Nazionale».
– Che cosa hai fatto per meritarti tutto questo?
«Mi sono beccato un rosso molto discutibile per un intervento su Zambrotta. L’arbitro era Farina. Mi ha cacciato ed io ho protestato vivacemente, facendo il segno dei soldi, strofinando indice e pollice».
– Un gesto pesante.
«Ma giustificato, credimi. La mia espulsione è stata solo uno degli episodi discutibili. Per tutta la partita abbiamo subito decisioni negative. Contro la Juve era sempre così. Quella volta non ho avuto più remore. Ho reagito come mi suggeriva la pancia e mi hanno massacrato».
– Quante giornate ti hanno dato?
«Sei, più una multa di 200 milioni di lire dal Parma, la mia società, che non mi ha mai difeso. Ma questo è il meno. Per quel gesto sono finito fuori dal giro della Nazionale. Ricordo sempre che mi arrivò una telefonata dalla Federazione con la quale mi dicevano che avrei saltato due partite e che dopo mi avrebbero richiamato. Non era mai successo prima. Chiesi spiegazioni e mi fu detto che la mia punizione doveva servire da esempio».
– Ci sei tornato in Nazionale?
«Mai più. Avevo ventinove anni e fino alla squalifica ero uno dei titolari. A giugno del 2000 poi c’erano gli Europei ai quali avrei dovuto partecipare. Dopo le sei giornate di stop, sono tornato a giocare. Ed ero in campo anche nello spareggio con l’Inter per la Champions a maggio. Ero in forma, stavo benissimo. Aspettavo una chiamata dalla Nazionale. Mi telefonò Dino Zoff. Mi disse che non mi aveva visto bene fisicamente. Afferrai al volo. Dissi al mister che capivo che non era colpa sua. Tra l’altro con Zoff ho sempre avuto un ottimo rapporto e alla Lazio è stato l’unico allenatore che mi ha fatto giocare. Era già tutto deciso ed era un’ulteriore punizione per quello che era successo a gennaio».
– Ti sei mai pentito?
«No, mai. Anche se il lunedì seguente, il Parma mi mandò a forza al Processo di Biscardi per recitare la parte del figliol prodigo che si pente per quello che ha fatto. Ma di vero non c’era nulla. Quel gesto lo avrei fatto mille volte».
– Perché eri così convinto della poca buona fede degli arbitri?
«Non ci voleva molto. Tutte le volte che si giocava contro la Juve ce n’era una. Ma del gol annullato a Cannavaro alla penultima giornata del campionato 1999-2000 ne vogliamo parlare? Dammi retta, dal campo si vedono molte cose e si respira bene l`aria che tira».
– L’ambiente del calcio come ti ha trattato dopo la tua “sparata”?
«Come era prevedibile. Mi ha lentamente messo ai margini. Mi hanno preso per matto. Ma dopo quello che è uscito fuori nel 2006, qualcuno si è dovuto ricredere sul mio conto».
– Nessuna sorpresa per te Calciopoli?
«Poche Non credevo che fosse un fenomeno così radicato ed esteso, ma che il sistema non funzionasse a dovere era lampante. Prendi il nostro Parma: per anni siamo stati una delle squadre più forti a livello internazionale. Abbiamo vinto tutto, tranne lo scudetto. Solo un caso? Io non ci ho mai creduto. Con lo scandalo di tre anni fa, sono emerse tante di quelle cose che in molti sapevano, ma che nessuno aveva il coraggio di riferire».
– Calciopoli ti ha reso giustizia?
«Diciamo di sì, ma nel frattempo se ne sono andati via anni preziosi. Dal 2000 la mia carriera si è di fatto bloccata. E non per mia volontà. Non ti dimenticare che quando mi fu proposto il trasferimento dalla Juve al Parma nel 1994, io rifiutai. La Triade si era instaurata da poco a Torino. Non credo abbia gradito».
– E dopo il Parma cosa è successo?
«C’è stato il trasferimento alla Lazio a ottobre 2000. Era una prassi allora lo scambio dei calciatori tra le due società».
– Già, sei finito dentro anche in questa storia di legami tra Tanzi e Cragnotti.
«Ti posso assicurare che nessuno al Parma si è mai accorto di nulla. Quando è scoppiato il casino non ci sembrava possibile che uno come Tanzi potesse essere anche l’autore di tutte quelle brutte cose che leggevamo. Personalmente ho sempre avuto il dubbio che dietro di lui ci fossero altri soggetti».
– Torniamo alla Lazio.
«A ottobre 2000 vado alla Lazio e faccio venticinque partite. L’anno dopo cambia tutto. Entra prepotentemente la Gea. Piazza i suoi uomini e per il sottoscritto gli spazi si fanno sempre più stretti. Finita la stagione, chiedo la cessione, ma nemmeno la squadra più scalcinata mi vuole».
– E così vai all’estero.
«Era l’unica via. Sono andato in Inghilterra al Blackburn, nell’agosto del 2003. Un’esperienza bellissima, con i ragazzini che riempivano le tribune. Prima gli autografi, poi a tifare. Applausi per i protagonisti e alla fine tutti al bar. Un altro mondo. Peccato che è durata poco. Fu una decisione familiare (nel frattempo Dino si era già sposato e aveva due bambini piccoli, ndr) a riportarmi di nuovo in Italia».
– Clima cambiato?
«Macché! Dopo l’annata di Ancona, sono tornato alla Lazio. Credevo di aver già toccato il fondo delle bassezze del mondo del calcio. Ma mi sbagliavo. Fui messo fuori rosa, insieme a Paolo Negro».
– Decisione della società?
«Fu Lotito a volere così. Io avevo denunciato che non venivo pagato e lui mi escluse dalla prima squadra. Andava a dire in giro che io e Negro eravamo infortunati, che non potevamo allenarci. Tutte bugie. Stavamo bene fisicamente e ci allenavamo in un altro campo. Ma abbiamo avuto l’accortezza di documentare tutto. Ritagli di giornale, fotografie, filmati e, almeno in quel caso, il pieno appoggio dei compagni».
– In che senso?
«Molto semplicemente ci hanno consegnato un documento firmato nel quale dichiaravano la loro disponibilità a testimoniare in un’eventuale causa per mobbing».
– Causa che è stata promossa, vero?
«E anche vinta se è per questo. Sembra incredibile, ma ho dovuto subire anche questo affronto. Costretto a ricorrere al giudice per fare il mio lavoro. È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ho deciso di tornare a casa. Ho fatto qualche altro mese alla Triestina, poi stop».
– Bilancio della carriera?
«Positivo, comunque. Ho vinto molto. Ho giocato in grandi squadre come Parma, Inter e Juventus».
– Scusa ma c’è una curiosità: come è che sei finito all’Inter dopo pochi giorni da juventino?
«C’è anche questo nella mia carriera! Mi chiama Borsano, il presidente del Torino, e mi chiede se voglio andare alla Juve. Al volo dico io, che da piccolo tenevo anche per i bianconeri. Viste mediche, accordo fatto e presentazione con tanto di foto. Poi mi telefona Boniperti, ero in vacanza. Mi dice di andare subito in sede. Vado e mi lascia a bocca aperta: per quest’anno vai all’Inter, poi torni da noi. Ma come, mi avete fatto fare anche le foto con la maglia della Juve e dopo due giorni vado via?».
– Ti è stato dato un perché?
«Doveva tornare Trapattoni alla Juve. La verità è che sono stato il primo giocatore a essere scambiato con un allenatore!».
– Torniamo al bilancio sportivo.
«Mi manca solo lo scudetto. Ho giocato nel più bel Parma di sempre, senza vincere il tricolore. E con me c’erano tanti fuoriclasse, compresi Cannavaro e Buffon, futuri campioni del mondo».
– Tu il titolo mondiale l’hai sfiorato nel 1994.
«Peccato per la finale persa ai rigori. Sarebbe stato meglio una sconfitta per 2-0. Comunque è stato un Mondiale bellissimo. Sacchi ha sempre creduto in me ed io penso di averlo ripagato con belle prestazioni e due gol decisivi».
– Sacchi ti ha sempre visto come centrocampista centrale, ma era questo il tuo vero ruolo?
«Sono partito attaccante, poi li ho girati un po’ tutti. Trapattoni voleva impostarmi come terzino sinistro e ti dirò che a me non dispiaceva. Ma quando Sacchi ha iniziato a chiamarmi in Nazionale e a mettermi a centrocampo, ho chiesto al Trap di fare altrettanto. Ma non è stato facile convincerlo».
– Ultima domanda: dopo Calciopoli è cambiato il mondo del calcio?
«Credo di no».
2 commenti:
Certo che ne abbiamo avuti tanti, in comune. Baggio fece una bella stagione, da noi, con Dino Zoff. Cercammo una rimonta improbabile nell'anno in cui lo scudetto finì alla Roma, lui arrivò poco considerato ma disputò una bella stagione, segnando anche un gol molto bello (uh, non mi ricordo se al Milan o all'Inter). Sbracò completamente con Zaccheroni, e rimase il suo ingaggio pesante come un macigno a contribuire alla decadenza del bel tempo cragnottiano. La sua stagione migliore è stata quella dei mondiali sacchiani, credo...
Hai ragione, sono tanti i giocatori che hanno vestito sia la maglia laziale che quella juventina !!! Dino disputò degli ottimi campionati anche al Parma, durante i quali aveva il vizio di farci sempre gol !!! Ai mondiali del 1990 fu un assoluto protagonista, insieme al suo omonimo !!! Complessivamente è stato un buon giocatore, ma dal carattere pessimo.
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