Detto Pino, era nato a Torino, nel momento in cui la Juventus venne al mondo, da madre di Osterode am Harz (Renania settentrionale-Vestfalia), e da padre di Francoforte sul Meno, ambedue tedeschi trasferiti a Torino. Studiava e giocava a calcio ed era anche un ragazzo di provatissima fede juventina, tanto è vero che risulta sia stato uno dei più irriducibili nell’auspicare la defenestrazione di Alfredo Dick, l’uomo che voleva imporre, in seno al consiglio direttivo bianconero e alla stessa squadra, dirigenti e atleti di nazionalità elvetica.
Proprio nell’anno della scissione (1906), il lungo Hess (era alto 193 centimetri) giocava in un ruolo atipico per la sua statura: non difensore ma ala sinistra. Solo un paio di anni più tardi prese stabilmente il ruolo di mediano sinistro. Sui vecchi libri si trovano un paio di formazioni della stagione 1909-10 nelle quali figura in forma stabile il nome di Hess. Ad esempio, quella del 14 novembre 1909, quando la Juventus batté a Torino i neroazzurri dell’Internazionale, con due reti del centrattacco Borel, il padre di Felice. I bianconeri giocarono quella gara con: Pennano; Goccione e Mastrella; Ferraris, Frey e Hess; Mazzonis, Balbiani, Borel, Barberis e Moschino.
Si era ai tempi del più puro dilettantismo; i giocatori si preparavano per le partite di campionato, anche se erano solo una decina per stagione, quando avevano tempo e voglia. Tutti avevano un impiego, una professione, un lavoro: anche gli studenti universitari, che conquistarono il titolo nel 1905, avevano già avuto il loro splendido 110 e lode con la pubblicazione della tesi. Malvano era ingegnere, Donna e Hess avvocati: tiravano quattro calci in Piazza d’Armi la sera, quando faceva quasi buio, e praticavano sia la ginnastica che l’atletica.
Ma Pino Hess non fu solo un buon giocatore, dotato di tecnica sobria e di un’intelligente visione di gioco; fu anche un magnifico dirigente, talmente bravo da far convergere sulla sua persona i voti necessari alla presidenza. Proprio all’indomani della crisi che colpì la società all’inizio della stagione 1913-14, Hess prese le redini della Juventus e la guidò con mano esperta e sicura. Provvide anche a mantenere fraternamente uniti i giocatori che disputarono quel campionato nel girone lombardo; ricordiamo Montano, Cappello, Arioni, Omodei, i fratelli Boglietti, Payer, Collino, Dalmazzo, Varalda e, soprattutto, Valerio Bona e Giriodi.
Ancora oggi, Pino Hess è ricordato come il presidente della rinascita.
VLADIMIRO CAMINITI
La visita al vecchio Bino Hess, nella primavera del 1966, mi fece capire che la Juventus dei pionieri non era stata vanità o fola di gioventù. Io spesso mi chiedo cosa, in effetti, rappresenti una società di calcio alla caduta degli anni Settanta. Non sono esperto in etruscologia e mi sforzo di pensare che altri con un cuore simile al mio vissero il calcio allora chiamato football, con curiose fogge di divise, brandendo invisibili durlindane. Non ho mai pensato che una qualsiasi attività, culturale o sportiva, non rappresenti lo spirito dei suoi praticanti; il gioco del calcio in quanto sport esercita il corpo e diletta la mente, rinfranca, rischiara, aiuta, tutto considerato, a essere migliori. Il calcio pionieristico o dilettantistico fu appassionato e non calcolatore, occupava il tempo libero di giovinotti più o meno bene più o meno ignoranti chiassosi e civili. Il pioniere dorme, ho scritto in “Juventus 70”, sotto caschi di capelli bianchi come la neve o trascina piedi marmorei o singhiozza in mezzo ai suoi ricordi, ma non ha perduto la giovinezza. E aggiungevo, meno retoricamente: tutti siamo stati ragazzi. Giocando un poco si sconfina.
Conobbi Bino Hess il pioniere poco prima della sua morte. Altri pionieri conobbi, Giriodi, Malvano, Corbelli; ma Hess era diverso. Andai a trovarlo in ufficio, in Via Montecuccolo, un mattino di maggio col sole che entrava e usciva per le vie della città festosa e accalcata, bussai a una porta con la targhetta: “Ditta G. S. Hess”. Una signorina mi disse: «Si accomodi». Fui accompagnato in un salottino in disfacimento. Le poltroncine, i quadri alle pareti appartenevano a un tempo invecchiato e decaduto, senza rimpianto da parte di nessuno. Forse la mia natura di osservatore estroso mi fece apparire una sedia come un simbolo di forza e di vita, una sedia modesta di legno, dove m’ero appena messo ed entrò furiosamente nella stanza un vecchio alto in compagnia di un bastone e mi intimò di alzarmi: «Sloggi da quella sedia, è la mia!». Testuale.
Spiegai le ragioni della visita. Si era seduto e mi scrutava da apparire furente. C’era un precipizio di emozioni nel suo animo di pioniere. Mi intimò di parlare forte. Parlai forte, adoperando tutta la dolcezza dei miei avi normanni arabi francesi e spagnoli, utilizzai squarci di melodie entrate dentro di me attraverso le sonate di mio padre panormita e a poco a poco lo sguardo di quel vecchio si svelenì, i suoi occhi scuri e stanchi si accesero, cominciò a sentirsi a suo agio, a riconoscermi amico, a parlare. La voce via via si faceva lucida chiara, percorrendo uno spazio quasi remoto usciva con argentina semplicità dal suo animo, lo vedevo stringere la fronte percorsa da vene bluastre e socchiudere gli occhi come in un sogno, proprio per richiamare il passato che gli era appartenuto. Disse di lasciarlo parlare senza interromperlo. Ma non c’era bisogno di questa raccomandazione.
«È passato tanto tempo… Vede come sono ridotto… Mio padre non aveva tutti i torti a lamentarsi di me… Non ho saputo tenere in piedi la ditta come faceva lui… Oppure è dipeso anche dai tempi… Ora mi chiede di parlare della nostra cara Juventus… Una cosa liceale… Io al ginnasio ero considerato un gorba noioso. Non c’erano ancora i tram elettrici, qualcosa bisognava fare. Nel 1901 ero liceale, entrai nella Juventus facendo parte della squadra riserve, da allora sono stato in direzione per cinquant’anni, fino allo scoppio della prima Guerra Mondiale ero giocatore. Ci davamo da fare io e Varetti, in parte anche Malvano. Non c’era nulla di banale in quello che facevamo. Essere juventino era un favore, un onore. Bisognava essere persone serie per essere accettati come soci. Il Direttivo della prima Juventus era sanamente democratico, c’era un Mazzonis, famiglia tra le più ricche di Torino, che andava sottobraccio a un Moschino, fattorino telegrafico, portava i telegrammi insomma… Il sentimento era questo. E si stava insieme e alle otto di sera del sabato si partiva per andare a giocare fuori Torino, a Genova o Milano. Ed io mi dovevo contorcere davanti a mio padre per strappargli venti lire… Io facevo lo stupido per ore per giorni, finalmente me le dava, allora correvo davanti alla panca di Corso Re Umberto e gridavo: “Ci sono!” Partivamo anche alle sei del mattino, in omnibus, costava meno e portava le terze, c’era con noi Forlano, il centravanti, Canfari era sempre allegro, un bonaccione, ricordo perfettamente Forlano, Luigi si chiamava, orfano, mantenuto da un fratello che gli diceva: sì ti mantengo, ma non ti pago il football! E non gli dava la chiave di casa. Così per partire con noi doveva dormire il sabato sera per le scale. Noi andavamo a svegliarlo, e dovevamo anche massaggiarlo perché era tutto pieno di dolori per l’umidità presa. Poi gli davamo da mangiare e finalmente si sentiva meglio e partivamo! Anche lui è morto in guerra come Canfari…».
Approfittando di una pausa, chiesi se confermava la nascita della Juventus sulla panca di Corso Re Umberto. Mi scrutò abbastanza accigliato e riprese il racconto: «Sì, sì, una cosa ginnasiale… Avevamo visto giocare gli inglesi al Valentino o a Piazza d’Armi… Ma molti non si divertivano… Il calcio nacque per una forma di reazione… Molti ragazzi preferivano giocare alla barra o al bigliardo… Per Torino giravano dei professionisti del bigliardo, oggi li chiamerebbero accompagnatori di donzelle, ricordo che al Caffè dei Fratelli Demo affittare una stanza per giocare al bigliardo costava al giorno sessanta centesimi, la sera con la luce a gas una lira e venti… Noi giocavamo… Quelli dapprima ci fecero vincere poi cominciarono a spillarci tutti i soldi… Ci guardammo in faccia: ma perché dobbiamo dare tutti i nostri soldi a questa gente?! Piuttosto andiamocene in Piazza d’Armi… Così fu… Piazza d’Armi era il mondo dei signori e dei figli dei signori… Offriva ogni occasione di svago… Prati, pattinatoi, campi di ippica… Conoscemmo un tipo strano, si chiamava Dobbie, faceva il dentista e nel molto tempo libero di cui disponeva…».
Si interruppe e ne approfittai per sbirciare il quadro alle sue spalle raffigurante Dante e per fare una considerazione affatto logica: «Oggi i dentisti non hanno più tempo per nessun hobby, tranne quello dell’amica, i loro studi grondano di clienti e guadagnano moltissimo… Hess non capi e continuò a parlare con voce chiara dalle sue lontananze.
«Aveva più di cinquant’anni, i balletti, ma giocava bene a football… Un giorno venne a offrirci l’opportunità di acquistare un pallone in un negozio Principe di Galles in Via Barbaroux gestito da uno con barbetta, certo Jordan. Un pallone inglese di Nottingham. L’unico guaio era che costava un’enormità: sessanta lire. Decidemmo di fare una colletta tra noi per racimolare le sessanta lire. Non ce lo dava per un centesimo in meno. Ricordo quando scomparve nel retrobottega e riapparve davanti a noi con il pallone di Nottingham giallo lucente tra le mani. Io riuscii a farmi dare dieci lire da mio padre. Tutti insieme raggranellammo la cifra e andammo a comprare il pallone. È un tesoro, disse Canfari e ci vuole un tesoriere. Nominammo tesoriere Molinatti che aveva pure il compito di gonfiarlo, con l’anima nei denti perché è il nostro tesoro, disse Canfari che leggeva D’Annunzio… Così nacque la Juventus, su quella panca con quel pallone… Se tutti avevamo i centesimi sufficienti andavamo a berci un caffè, altrimenti si girava a piedi per la città facendo un mucchio di cose allegre, senza dare fastidio a nessuno. La Juventus era una massoneria il cui tabù era lo sport. La prima divisa fu una camicia rosa con cravattino nero… Noi abbiamo dato alla Juventus il suo stile. Si giocava in Piazza d’Armi… È venuto anche Buffalo Bill una volta in Piazza d’Armi… Il calcio lo hanno portato a Torino gli inglesi, impiegati in fabbriche di pizze e tulli, Savage, Kilpin, quel vecchio dentista di Dobbie, sempre ubbriaco di whisky, quando si è trattato di cambiare divisa, Savage ha fatto venire dall’Inghilterra delle magliette bianconere… Bona, che aveva un lanificio, uno dei fratelli, l’altro, aviatore, è morto in guerra, per ingrandirla è andato da Monateri… Sì, tutti quegli amici che hanno fatto la prima Juventus li ricordo bene: c’era Durante, era un pittore, è morto quando mi sono sposato, i parenti gli hanno tagliato i viveri, gli mandavano trenta lire al mese, Bollinger, terzino, svizzero, un impiegato; Gioacchino Armano; Ferrero poi è diventato generale; Goccione, Barberis, Gibezzi, Varetti, Forlano, Donna, Malvano…».
DA PIEMONTESE.IT
Al tifoso bianconero che della storia della sua squadra pensa di conoscere tutto, questo cognome tedesco dirà poco o nulla. E ne ha ben motivo: Giuseppe (detto Pino) Hess ha vestito la maglia della Juventus in un’altra era calcistica, dal 1905 al 1912, prima di diventare Presidente della stessa società dal 1913 al 1915, quando partì volontario per la guerra. Non è stato un campione (ma a quei tempi, chi lo era?), non ha giocato molte partite da titolare; tuttavia, mentre la Juventus vinceva il suo primo scudetto nel 1905, lui, Hess, si laureava nelle stesse ore Campione d’Italia con la squadra riserve nel Campionato di Seconda Categoria.
C’è una fotografia che lo ritrae con la squadra, elegantissimo con bombetta e farfallino, alto una spanna in più dei suoi compagni, la mano vezzosamente infilata nella tasca del cappotto, un sorriso appena accennato: ma che ci faceva Hess (nato a Torino da genitori tedeschi nel 1885 e morto nel 1967) in mezzo a undici casacche bianconere? «Quella foto è stata scattata a Karlsruhe, in Germania, nell’estate del 1912, dove la Juventus aveva giocato contro la squadra locale; forse è stata la prima trasferta in assoluto nella storia bianconera. Per la cronaca, si perse 3-1, quel giorno il nonno era in veste da dirigente, rappresentava una ditta tedesca, per la quale lavorava», spiega Umberto Hess, nipote di Giuseppe e memoria storica del nonno, oltre che lui stesso juventino di ferro.
Se proviamo a raccontare il calcio di quei primi anni del Novecento, di cui Pino Hess è stato uno dei pionieri, dobbiamo fare uno sforzo non indifferente per calarci in una realtà sportiva e sociale che nulla ha a che vedere con quella attuale. «I campionati duravano un giorno, alle volte un fine settimana. Le trasferte, i giocatori della Juve le facevano in bicicletta, tutti insieme. Quando c’era da prendere il treno, viaggiavano tutti in terza classe, ricchi e poveri; chi poteva, metteva i soldi anche per chi non poteva. E nessuno mangiava al ristorante per rispetto, ognuno si portava i panini», spiega Umberto.
Calciatori sì, ma soprattutto erano amici, studenti e lavoratori. Alla sera li si poteva trovare sul prato di Piazza d’Armi (l’enorme area che confinava con Via Montevecchio, Corso Siccardi e l’allora nuovo Rione Crocetta) per dare quattro calci al pallone, il famoso «oggetto quasi sferico, di rozzo cuoio a pezze rettangolari cucite dall’interno», raccontato dall’impareggiabile penna di Gianni Brera.
Giuseppe Hess era un terzino dal fisico possente ma piuttosto grezzo, alto più di un metro e novanta, soprannominato Tuclumac (tentativo di traduzione: “toccalo appena” o “vacci piano”: una certa potenza atletica e l’abitudine a calciare di puntone imponevano cautela per evitare di dare la palla direttamente alla difesa avversaria). Era stato uno studente del D’Azeglio e, come altri giovani, bazzicava la storica panchina di Corso Re Umberto. Appartenere alla squadra rincalzi, come Pino Hess, all’epoca significava non tanto essere meno bravi dei titolari, ma soltanto di qualche anno più giovani.
«Mio nonno ammirava la Pro Vercelli, che in quel periodo era una delle più forti squadre italiane; quando poteva, organizzava trasferte sul campo della Pro. Il campo dei bianchi di Vercelli distava un paio di chilometri dalla stazione e i giocatori dovevano trasportarsi, anche sotto il caldo, le loro borse fino allo spogliatoio. Dentro il quale li attendevano due tini da vino, uno per squadra, pieni d’acqua, da utilizzare per il bagno del dopo-partita. A quei tempi si usava che la squadra in trasferta fornisse l’arbitro, scegliendolo fra le riserve: una volta toccò a mio nonno, e finì male. Quelli della Pro, non soddisfatti dell’arbitraggio, lo buttarono in un letamaio, fra le risate generali, comprese le sue! Un altro aneddoto che mi raccontava il nonno riguardava il portiere del Casale, altra squadra importante dell’epoca: siccome di professione faceva il ladro di polli, nel senso vero del termine, vicino alla porta sostavano due carabinieri, pronti a impedire ogni tentativo di fuga del giocatore!».
A causa della separazione dei suoi genitori, Umberto Hess ha vissuto una decina di anni in casa col nonno, che negli anni Cinquanta, anche a causa di un vecchio problema alla gamba che ne limitava la mobilità, aveva trasformato in un ritrovo per ex giocatori della Juventus. «In quel salotto ho conosciuto Lorenzo Valerio Bona, centravanti degli anni Dieci, implacabile goleador. Ho chiacchierato con Silvio Piola, con Baldo Depetrini. Ho fatto amicizia con Felice Borel, uno dei più forti centravanti bianconeri, una persona simpatica con idee moderne: proprio con Borel il nonno parlò addirittura di creare un museo della Juve. Molte volte mi portava allo stadio, vidi con lui l’ultimo derby prima che il Toro cadesse a Superga. Se ricordo qualcosa? No, quel giorno sfogliavo “Topolino”, mi raccontava il nonno».
Dottor Hess, con quale spirito Giuseppe Hess visse il passaggio del calcio da momento ludico di aggregazione per pochi giovani, all’attuale fenomeno di massa, con tutte le punte di imbarbarimento che conosciamo (tifo malato, ingaggi folli, ecc.)? «Lo visse male. Al nonno il calcio aveva smesso di appassionare fin dagli anni Sessanta, quando oramai questo sport stava prendendo la strada del professionismo. Comunque continuava a seguirlo, a tifare per la sua Juve (gli piaceva sentire le partite alla radio) ma senza mai nutrire odio per le altre squadre, Torino compresa (era molto amico di Enrico Marone Cinzano, presidente della società granata negli anni Venti)».
Giuseppe Hess, dopo essersi laureato in legge (ma senza avere mai esercitato la libera professione) fu rappresentante di commercio e quindi industriale nella ditta impiantata dal padre, originario della Germania. «Era un uomo di un’assoluta rettitudine. Piuttosto che fallire con la sua azienda, nel 1951 pagò di tasca propria il mensile a duecento operai. Al mattino mi accompagnava a scuola dopo una colazione con acciughe salate e burro. Era burbero e severo. In politica era un antifascista convinto, è stato lui ad avermi avvicinato ai principi del liberalismo. Viveva la sua fede religiosa come un fatto privato: scoprii che fosse protestante quando vidi il pastore Ayassot al suo affollato funerale. Infine, amava la sua famiglia e aveva una passione sconsiderata per il vino del Reno, che aveva scoperto grazie alla sua origine tedesca. E amava lo sport, come tutta la nostra famiglia…».
Adolfo, il fratello più vecchio di otto anni di Giuseppe Hess, è stato tra i precursori dell’alpinismo senza guida, ha fondato lo Ski Club Torino (il primo d’Italia) e il Club Alpino Accademico Italiano, oltre a essere stato il primo direttore del Museo Nazionale della Montagna di Torino. Adolfo Hess era anche molto amico di Paolo Kind, figlio di quell’Adolfo Kind che, primo in Italia, aveva importato dalla Norvegia, a fine Ottocento, due paia di assi in legno: gli odierni sci. Quanto a Luciano Hess, padre di Umberto, è stato un buon giocatore di baseball, prima negli Stati Uniti (dove era stato mandato per motivi di lavoro dal padre dopo la fine della seconda guerra mondiale), poi in Italia: ha giocato fino a quarant’anni e arbitrato oltre i cinquanta.
E lei, Umberto Hess, che sportivo è stato? «Ho cominciato nei pulcini della Juve, ma ben presto il mio istruttore Mario Pedrale, uno dei più grandi istruttori di calcio, ha chiamato il nonno e gli ha consigliato di farmi fare un altro sport, diceva che ero negato per il calcio. Però ho giocato fino a quarantasette anni, anche se non ad alti livelli. Ero uno stopper molto ruvido e scorbutico, al mio confronto Montero o Chiellini sono difensori raffinati! Se il metro di arbitraggio di oggi, l’avessero applicato al sottoscritto, avrei giocato solo cinque minuti a partita. Nel 1966 ho fatto parte della rappresentativa universitaria torinese, e ho dovuto marcare, con le buone o con le cattive, un certo Giorgio Chinaglia, un bestione di diciannove anni che allora giocava nell’Internapoli».
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