sabato 20 luglio 2013

Luigi MAIFREDI


«Stavamo andando a Roma, sull’aereo di Agnelli. Eravamo io, lui, Cesare Romiti, il presidente Montezemolo, Henry Kissinger». – racconta Giuseppe Pastore su ultimouomo.com del 1° agosto 2019 – In un bel giorno di primavera del 1990, sui cieli limpidi della Capitale, l’ex rappresentante di panettoni e champagne Luigi Maifredi si ritrova a spiegare all’Avvocato perché sta rifiutando tre anni di contratto per allenare la Juventus. Il ragionamento pare sensato: gliene basta uno, se farà bene il rinnovo sarà automatico, altrimenti grazie e arrivederci. L’uomo sembra tranquillo, sicuro del fatto suo, con la serenità del venditore di successo. Ma dopo aver firmato secondo i desideri del suo nuovo tecnico, Agnelli lo guarda e gli dice: «Ma allora lei, Maifredi, è uno di quelli che abbandona la nave che affonda?». E Luigi da Lograto, 3mila abitanti a 16 chilometri da Brescia, per un istante smarrisce la sua proverbiale parlantina.
«Il contadino in campagna porta gli zoccoli, ma quando entra nel palazzo si mette le scarpe pulite». Sarebbe potuta tranquillamente essere una frase a effetto con cui Maurizio Sarri avrebbe inteso ripulire l’immagine da buttero maremmano, appena messi i piedi sulla moquette della Continassa; invece fu il biglietto da visita di Maifredi, tolto il cappello e sfoderato il completo verdino al primo giorno di scuola nella novecentesca sede juventina di Piazza Crimea. 
In questi giorni in molti hanno spolverato i faldoni e rilucidato i file della disgraziata stagione 1990-1991 della Juventus, e uno scaramantico di platino come Sarri potrà senz’altro sistemare le mani dove meglio crede. Ma tra Maurizio e Luigi non ci sono troppi punti in comune: Maifredi non aveva secondi posti in serie A né trofei internazionali in curriculum, né cinque anni di abitudine ai grandi giocatori e agli spogliatoi problematici, né la pressione di dover vincere e basta in un ambiente dove non si fa altro da otto anni. Anzi, nel 1990 la Juventus ha smarrito da quasi un lustro la strada maestra che conduce agli scudetti, finiti due volte a Napoli e due volte a Milano, e ha potuto consolarsi solamente con le pur ottime Coppa UEFA e Coppa Italia. 
Uomo dell’ancient régime, legato a triplo filo al ventennio di Boniperti, Dino Zoff è stato sacrificato sull’altare della modernità e del calcio-champagne, inteso esso in senso letterale: il nuovo presidente Luca Cordero di Montezemolo affida le chiavi della rivoluzione al parvenu Maifredi, che ha un cursus honorum degno della tratta di un Regionale della Bassa Padana: Lumezzane, Orceana, Ospitaletto e poi la grande città, Bologna, «dove cantavo all’Osteria dei Poeti fino alle 3 di notte con Dalla, Morandi, Guccini, Luca Carboni… cavallo di battaglia, Sapore di Sale».
Dopo un inizio di carriera da commesso viaggiatore in giro per la Lombardia, Maifredi era diventato il principe del Veuve Clicquot Ponsardin – marcando in questo una prima decisiva differenza con l’Avvocato Agnelli, che com’è noto andava matto per il Philipponnat millesimato. Ha scalato le gerarchie della Serie A trascinato dall’entusiasmo di fine decennio, che sconfina in una fiducia cieca verso il sistema di gioco più sexy e divertente che ci fosse, la Zona, che secondo una dottrina leggermente deviata di Casa Agnelli è alla base delle fortune del Milan di Berlusconi e del ribaltone rossonero sulla Juventus in chiave internazionale. All’inseguimento di Sacchi, allora, scegliendo un tecnico dal medesimo pedigree, ma con molta più joie de vivre rispetto all’Omino di Fusignano con tendenze da Savonarola (e uno dei più azzeccati soprannomi di Maifredi sarà, per contrasto, l’Omone). Contrariamente a tanti suoi colleghi che, smaniosi di diventare vittime consapevoli della seduzione degli squadroni, non hanno esitato a falsificare i diari dell’adolescenza, Maifredi da ragazzo era genuinamente tifoso juventino, uno di quelli che «aveva pianto per una foto di Sivori». La Juventus lo ha scelto su input dell’Avvocato prima ancora del cambio della guardia, tanto che un primo contatto risale addirittura al 1988. «Una mattina squilla il telefono, risponde Bruna, mia moglie. “Pronto, sono Giampiero Boniperti”. E lei: “Certo, ed io sono Grace Kelly”. E riappende. Il giorno dopo suonano alla porta, è il fiorista con un gigantesco mazzo di rose. C’è un biglietto: “Sono davvero Boniperti”. Ma Maifredi è un audace e la fortuna lo assiste: il treno bianconero ripassa due anni dopo, e questa volta non montarci sarebbe un delitto. Dopo due meravigliose stagioni in A col Bologna, coronate da un’indimenticabile qualificazione in UEFA, l’Omone è pronto al grande salto.
Maifredi è il tassello più in vista di una rivoluzione culturale che a Piazza Crimea non ha risparmiato neanche i ficus benjamin: saluta dopo quasi un ventennio Giampiero Boniperti nei secoli fedele, escono di scena con lui collaboratori strettissimi come il direttore generale Pietro Giuliano e il ragionier Sergio Secco (padre di Alessio, futuro ds di un’altra Juve dimenticabile), fa le valigie in silenzio anche Dino Zoff nonostante una coppa UEFA e una coppa Italia (vinta proprio contro il Milan!), in una stagione segnata dalla terribile notizia della morte di Gaetano Scirea. L’homo novus si chiama Luca Cordero di Montezemolo e sta governando il Comitato Organizzatore dei Mondiali di Italia 90, in quei mesi felici in cui tutto il Paese è ancora convinto che i Mondiali di Italia 90 stiano andando alla grande. Nuovo lo stadio e nuovo il centro d’allenamento a Orbassano, che sostituisce il vecchio “Combi” in via Filadelfia. C’è un nuovo presidente, l’austero avvocato Vittorio Caissotti di Chiusano. Da Roma arrivano il direttore sportivo Nello Governato ed Enrico Bendoni, capoufficio stampa proprio a Italia 90, più l’outsider Maifredi che ha facoltà di scegliersi due cavallini di razza da portarsi da Bologna. Proprio come Sacchi si era portato da Parma a Milanello Roberto Mussi, Walter Bianchi e un’ampia scorta di VHS di movimenti difensivi di Gianluca Signorini da mostrare a Franco Baresi, la scelta di Maifredi cade sui difensori Gianluca Luppi e Marco De Marchi, tutto sommato gli acquisti meno in vista di un mercato estivo da oltre quaranta miliardi di lire che ha già sparato in primavera il colpo più pregiato.
Dell’affaire che porta di sottecchi Roberto Baggio dalla Fiorentina alla Juventus si sa ormai tutto. Ai fini di questa storia, per meglio chiarire le cause che portarono al clamoroso naufragio del Maifredismo, è bene aggiungere che una trattativa così velenosa e malmostosa, in grado di portare gli ultras viola sull’orlo della guerra civile, guasta un’altra trattativa in piedi per tutta l’estate, quella che nei desideri di Maifredi porterebbe alla Juventus anche il brasiliano Dunga, mastino di centrocampo essenziale per rimpolpare un reparto mediano consistente come il famoso tonno che si taglia con il grissino. Invece i Cecchi Gori, appena arrivati alla presidenza della Fiorentina, non se la sentono di esacerbare gli animi, Dunga prova a tirare un po’ la corda (con l’aiuto, anche qui, del volpone Antonio Caliendo) ma alla fine deve rassegnarsi a restare a Firenze. La Juve rimane un po’ con il cerino in mano, se è vero che rimane vacante anche il posto del terzo straniero. Via i sovietici Alejnikov e Zavarov e il portoghese Rui Barros, ne arrivano solo in due: dal Colonia il nanerottolo tedesco Thomas Hassler, titolare della Germania di Beckenbauer campione del Mondo, e in difesa l’elegante brasiliano Julio Cesar, miglior difensore di Messico 1986 prima di un leggero rammollimento in Francia tra Brest e Montpellier. 
La campagna acquisti si completa con Di Canio, elettrica seconda punta della Lazio, il regista bresciano Eugenio Corini e il giovane Massimo Orlando dalla Reggina, che a novembre sarà girato in prestito alla Fiorentina e non tornerà mai più indietro.
Arriva dunque Maifredi, con etichette e procedure che nel calcio di oggi, con allenatori abituati alla fluidità e all’adattamento come unica ragione di sopravvivenza, farebbero sorridere: «Sono un portatore di zona!», afferma con voce squillante durante la presentazione. Subito abiura il libero, per carità, tutti in linea e tutti all’attacco, con Baggio, Hassler e due punte: il giovane torello Casiraghi, che di testa incornerebbe senza paura anche dei frigobar, e naturalmente Totò Schillaci, sensazione planetaria nell’estate delle Notti Magiche. 
C’è entusiasmo, persino lo slogan della campagna abbonamenti ammicca alla rivoluzione tattica: «Scegliete la vostra zona». Cosa potrebbe andare storto? Beh, magari puntellare un centrocampo che vada oltre la coppia Galia-Marocchi, specialmente se la difesa Napoli-Bonetti-Julio Cesar-De Agostini, più che una linea, sembra un metro pieghevole da geometra. I nodi vengono tutti drammaticamente al pettine la sera della prima, al San Paolo per la Supercoppa Italiana, coppetta ancora “minore” di cui la stessa dirigenza minimizza l’importanza («È una competizione che è stata inventata come la festa del papà»). «E già qui avrebbe dovuto suonare un campanello», dirà Maifredi, «mi avevano insegnato che la Juventus lottava sempre e solo per vincere». E invece all’intervallo è il Napoli che vince, e 4-1, con capitan Tacconi costretto a esibirsi da libero e già colto da numerosi attacchi di labirintite che l’hanno condotto ben oltre la trequarti; finisce 5-1 e rimarrà per distacco, senza tema di essere smentiti, l’esordio più disastroso nella storia degli allenatori della Juventus.

ADALBERTO BORTOLOTTI, “GUERIN SPORTIVO” DEL 29 MAGGIO – 4 GIUGNO 1991
Poche rivoluzioni si sono rivelate tanto funeste quanto quella che la Juventus ha programmato e ostinatamente realizzato nel sacro nome dell’immagine. Vi si può vedere, volendo, una nemesi del calcio, dei suoi valori antichi, tradizionali e probabilmente immutabili. Non è un discorso di retroguardia, ma una constatazione dettata dal buon senso: ogni settore va governato da specialisti e competenti. Diffidate dai «troppo bravi»: quelli che trasferiscono disinvoltamente il loro proteiforme talento da una branca all`altra, fra loro diversissime. Che si riempiono la bocca di paroloni, dietro i quali nascondere una desolante impreparazione.
La stagione della Juventus, fallimentare oltre ogni limite di previsione, rappresenta un capolavoro alla rovescia. È stata ereditata da solide e patriarcali strutture, un bilancio sportivo invidiabile, due Coppe vinte e un terzo posto in campionato. La si è voluta rivoltare dalle fondamenta, recidendo il cordone ombelicale con un passato gloriosissimo. Vi si è investita una somma colossale, dai sessanta ai settanta miliardi, con maggiori attenzioni alla risonanza che all’attendibilità tecnica delle operazioni. La si è tolta a un collaudato e amatissimo uomo dell’apparato come Zoff, per affidarla a un’affascinante (quanto imprevedibile) incognita quale Maifredi. Per poi lasciare il prescelto solo, esposto a tutte le intemperie, offerto con scherno al ruolo di esclusivo capro espiatorio.
La Juventus è stata eliminata dalla Coppa Italia, dalla Coppa delle Coppe, è arrivata settima in campionato, ha perduto il diritto a partecipare alle competizioni europee, che frequentava ininterrottamente da ventotto anni. I suoi giocatori si sono lacerati in polemiche, il tiratore scelto dei Mondiali ha perduto la quotazione e la Nazionale, il più costoso giocatore di ogni tempo, Baggio, è diventato un orpello da salotto.
Il popolo bianconero è scorato e attonito. Credo che una giornata così, con la volatilizzazione dell`ultimo possibile traguardo di consolazione, abbia creato un contraccolpo pari a quello della Coppa dei Campioni perduta contro l’Amburgo, nel 1983 ad Atene. Ma allora, almeno, il senso della disfatta era attenuato dalla solida convinzione di avere, in ogni caso, una grande squadra prossima alla rivincita. Ora, ogni opinione affonda nelle sabbie mobili del dubbio. Quanto vale questa Juventus, che ha fatto quindici punti nelle diciassette partite del girone di ritorno (media da salvezza risicata)? Quali dei suoi molti presunti fuoriclasse sono ripresentabili? Come potrà muoversi un pur navigato stratega come Trapattoni in una società che non è più quella che ha lasciato cinque anni fa, che non ha il punto di riferimento di Boniperti, mai tanto rimpianto, che pare governata più dal capriccio che dalla razionalità?
Forse soltanto oggi ci si accorge quali immensi meriti avesse accumulato il grande Giampiero. In grado di filtrare i desideri e le volubili smanie del suo potente padrone, di opporsi silenziosamente ma fermamente a operazioni suicide o azzardate, anche se ispirate dalla real casa. Quel filtro è caduto e la Juventus è diventata una società ricca di quadri, di nomine, di funzionari, ma irrimediabilmente lontana dal calcio vero.
Viene istintivo e automatico, forse crudele e neppure inedito, un parallelo con la Ferrari, dalla stessa politica portata a uno dei punti più bassi della sua parabola. Li paga Fiorio, qui Maifredi: ma non è questo il punto, non sono questi i rimedi. Trapattoni è uso meditare attentamente le sue scelte. E infatti raramente le sbaglia. Al suo solido pragmatismo sono ora legate le speranze di rivedere la vera Juventus, dopo la caduta.

MATTEO DALLA VITE, “GUERIN SPORTIVO” DEL 26 GIUGNO – 2 LUGLIO 1991
La quiete dopo la tempesta ha il sapore di una passeggiata a Casteldebole e di due risate in santa pace con gli amici del centro. La quiete dopo la tempesta parla di una Bologna da riabbracciare e di un’avventura a «rughe» bianconere da catalogare nella biblioteca dei sogni incompiuti. Gigi Maifredi torna a casa e lo fa con la voglia e la lucida consapevolezza di chi sa di poter dimostrare ancora tantissimo. Un ritorno annunciato? Annunciatissimo.
Quando ha cominciato a frullarle in testa l’idea di poter tornare a Bologna? «Prestissimo, molto ma molto tempo addietro. Anche perché era abissale la differenza fra ciò che avevo lasciato e ciò a cui sono andato incontro fino a qualche settimana fa... Si sono poi concretizzati certi discorsi, ed eccomi qui, felice di esserci e di poterlo dire».
Il primo impulso qual è stato, al pensiero del ritorno? «Mi son quasi sentito rinascere, ero felice. E non poteva essere altrimenti».
In certi momenti a Torino le veniva di pensare a Bologna come a un’oasi felice? «È naturale fare paragoni e raffronti, ed è altrettanto automatico vedere in Bologna una città completamente diversa – o addirittura opposta – da Torino. Ho vissuto un’esperienza travagliata, amara ma anche formativa; sì, in certi momenti non vedevo l’ora di andarmene. E anche al più presto».
Ma lassù, nel senso di Juventus, è poi tutto oro ciò che straluccica? «Che discorsi, è sempre una grande società. Tutto verte sul fatto che la stagione passata è stata una stagione cominciata male e finita peggio. Nient’altro».
A mente fredda tornerebbe indietro? «Rifarei ogni cosa».
Maifredi è cambiato? «Sono sempre lo stesso. E non cambierò mai».
Cosa le è rimasto, di quella esperienza? «Ho capito che il calcio ha varie facce, tutte diverse e tutte imprevedibili...».
E cosa le ha insegnato? «Che contro la fortuna non esiste nulla. Tutti hanno cercato di dare spiegazioni additando questo e quello come i principali responsabili. La verità è che già dal primo giorno si era messa male e che non ne girava una nel verso giusto. E in questo caso ci puoi mettere tutto l’impegno che vuoi…».

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