A dodici anni partecipa al campionato Csi nella squadra del Don Bosco, quella del suo oratorio, schierato quasi sempre all’attacco. L’anno dopo entra nel Nacg dell’Alessandria ed incontra l’allenatore Cornara, il primo, forse, ad aver avuto l’idea di formare un centro per giovani calciatori. A scuola nel frattempo, finite le commerciali e (più avanti) terminati i due anni delle tecniche e superato l’esame integrativo della terza ragioneria, deve abbandonare in concomitanza con l’esordio in serie A.
Il calcio prende, completamente, le sue giornate. Nell’Alessandria, come mezzala, gioca diversi tornei giovanili ed a quattordici anni, in un’amichevole, debutta in prima squadra. Alessandria-AEK (squadra svedese) 4-1, amichevole di Pasqua. L’anno successivo, alla penultima giornata di campionato, va a provare per il Milan. Tutto bene: sotto gli occhi di Viani e dell’allenatore Bonizzoni, viene acquistato in comproprietà.
Tre giorni dopo l’allenatore e giocatore dei grigi, Pedroni, gli comunica che esordirà in serie A:«Tocca a te, Gianni. Non riusciamo a trovare un centravanti che riesca a fare dei goal. Prova da punta e speriamo in bene».
Appare puro, cristallino, per certi versi anche sfrontato. Quando il ragazzo è chiamato al provino contro la squadra dei grandi, sono proprio i veterani a coglierne immediatamente il valore ed a giurare sul suo futuro. La società rossonera gli consente di fare ancora un anno di esperienza nella sua Alessandria, per affinare un bagaglio tecnico già di prim’ordine.
Rivera arriva al Milan nell’estate del 1960. La giovanissima età contribuisce a renderlo popolarissimo, i suoi modi garbati e l’eloquio decisamente più forbito rispetto alla media dei suoi colleghi, lo rendono da subito un personaggio. Il Golden Boy piace a tutti, appare come il classico bravo ragazzo adorato dalle mamme e dalle ragazzine. In campo c’è chi lo paragone nientemeno che a Schiaffino, in un rapporto di ideale continuità rossonera tra l’asso sudamericano e il giovane piemontese.
Nel primo campionato all’ombra del Duomo, il ragazzo, che nella sua Alessandria veniva chiamato affettuosamente il Signorino, dimostra di avere la tempra per indossare la maglia da titolare con continuità. Sfiora anche il titolo, quel Milan guidato da Gipo Viani, ed è curioso pensare che sia la Juventus a precederlo, tenendo conto che nei due scontri diretti vince sempre il “Diavolo” ed in entrambi proprio Rivera scrive il suo nome nel tabellino dei marcatori.
La svolta si ha nella stagione successiva, quando sulla panchina rossonera arriva il triestino Nereo Rocco. Inizialmente il Paròn considera il diciassettenne ancora troppo immaturo per militare in una squadra che vuole abitare stabilmente il vertice della classifica. Ma una volta entrato nel blocco degli undici titolari, Rivera non ne uscirà più. L’arrivo del nuovo tecnico coincide con la conquista dell’ottavo scudetto rossonero, il primo per Gianni, che segna dieci reti, risultando fondamentale nella cavalcata vincente.
È l’inizio di un’epoca: Milano diventa la capitale del calcio europeo, come conferma il successo in Coppa dei Campioni, la stagione successiva, grazie al 2-1 sul Benfica, con doppietta di Altafini ed una stratosferica prestazione di Rivera, condita dall’assist decisivo per il la seconda rete di Josè. La platea internazionale rimane incantata dal suo modo di interpretare il gioco: è la sua prima, vera, consacrazione ed i votanti del Pallone d’Oro ne riconoscono il talento facendogli sfiorare il premio (solo il portiere russo Jascin raccoglie più consensi di lui).
Del resto in questo periodo Rivera è il giocatore che, inventate le pagelle sui giornali, riceve addirittura un nove da Gianni Brera per una sua prestazione in un Bologna-Milan. Un riconoscimento ancor più significativo da parte del giornalista che più di ogni altro lo ha criticato, affibbiandogli la qualifica di abatino, a sottolineare una sua presunta scarsa propensione alla lotta.
«Penso che Rivera sia un grandissimo stilista, molto intelligente e, come tale, in grado sempre di intuire quale sia la situazione migliore per sé. Non sa correre, non è un podista, altrimenti sarebbe un grandissimo interno. Invece lui per me è un mezzo grande giocatore».
Queste sono le parole di Gianni Brera, che sottolineano il sempre vivo rapporto odio/amore tra lui e il capitano rossonero. L’intelligenza evidenziata da Brera lo porta a reagire più volte contro le battute della stampa, comportamento per quei tempi assolutamente inedito dal momento che nessun calciatore lo faceva. In azzurro tutto ciò è una materia esplosiva. Non di rado Rivera spesso battaglia con lo staff tecnico, lo critica a voce alta, pagando talvolta prezzi carissimi.
Il più pesante è l’accantonamento nella finale con il Brasile a Messico 1970, con l’umiliazione di essere impiegato per soli sei minuti a sconfitta già maturata, Una decisione incomprensibile, tenendo conto di come sia stato proprio Rivera a portare l’Italia fino in fondo con la brillante prestazione contro il Messico nei quarti ed il memorabile goal del 4-3 contro la Germania Ovest.
Le amarezze azzurre fanno il paio con le gioie rossonere, anche perché se in ambito nazionale non c’è stato un commissario che abbia creduto in lui fino in fondo, nel Milan Nereo Rocco considera il Golden Boy uomo imprescindibile. «Si, non corre tanto, ma se io voglio avere il gioco, la fantasia, dal primo minuto al novantesimo l’arte di capovolgere una situazione, tutto questo me lo può dare solo Rivera con i suoi lampi. Non vorrei esagerare, perché in fondo è soltanto football, ma Rivera in tutto questo è un genio».
Per Rocco, Rivera è come un terzo figlio ed i rapporti sono improntati sopratutto sotto il profilo umano. Sotto l’aspetto tecnico infatti non è mai messo in discussione, la fiducia è totale. Il triestino vulcanico dalle sentenze dialettali urlate e l’alessandrino che non alza mai la voce, ma quando parla lascia il segno. Il rapporto è perfetto ed il primo non sa pensarsi senza l’altro, tanto è vero che quando Rocco torna al Milan (si era dimesso dopo la vittoria in Coppa dei Campioni), per prima cosa vuole sapere se il suo pupillo è d’accordo. Ricostituito il tandem, il “Diavolo” torna ai fasti del recente passato.
C’è da recuperare terreno nei confronti dell’Inter di Herrera e Mazzola, il suo alter ego nerazzurro, con il quale c’è una rivalità che spacca l’Italia in due partiti, alla stregua di quanto Coppi e Bartali avevano fatto nel ciclismo nel dopoguerra. Il Milan vince il campionato 1967/68 con una superiorità schiacciante: il Napoli è secondo con ben 9 punti di distacco. Rivera segna 11 goal e fa la fortuna di Pierino Prati ed Angelo Benedicto Sormani, una coppia di punte che sa sfruttare i suggerimenti del Golden Boy, intuendone le intenzioni anche quando queste sono assolutamente imprevedibili. Ad impreziosire la stagione c’è anche il bis di Coppa delle Coppe con un 2-0 sull’Amburgo in finale.
Nel 1969, con 83 voti di consenso, Rivera vince finalmente il Pallone d’Oro, primo giocatore italiano ad aggiudicarsi l’ambito trofeo di miglior giocatore del continente. Sui giurati, ovviamente, incide moltissimo il trionfo del Milan in Coppa dei Campioni, un 4-1 inappellabile sull’Ajax con Rivera nei panni di assist man di eccezione.
Ed a risposta di chi dubita sul suo temperamento c’è la drammatica finale di Coppa Intercontinentale, quando il Milan, forte di un 3-0 guadagnato a San Siro, si reca in Argentina ad affrontare l’Estudiantes. Il clima è caldissimo. Già a Milano i sudamericani hanno promesso un ritorno da battaglia ma la classe dei rossoneri ha il sopravvento, nonostante la sconfitta per 2-1 con rete iniziale proprio di Rivera in contropiede.
La seconda fase della carriera di Rivera è un naturale rovesciamento delle parti. Il Ragazzo d’oro è cresciuto e si trova a recitare la parte del capitano esperto, spesso con il compito di proteggere e curare la crescita di un gruppo più giovane. Talvolta si traduce in aperte polemiche con la classe arbitrale, come nel 1971/72 quando un contestato rigore al Cagliari, che peserà moltissimo sul verdetto del campionato, lo porta a contestare l’arbitro Michelotti e l’intero sistema, che lo punisce con la squalifica record di 9 giornate.
C’è, però, anche un altro tipo di mutazione significativa che in una stagione particolare porta il numero 10 a frequentare con assiduità la classifica cannonieri, cosa mai successa prima, fino a conquistarne il vertice con 17 reti, in coabitazione con Savoldi e Pulici, nella stagione 1972/73. È quello un Milan spettacolo, una vera e propria macchina da goal. Ma è anche il capolinea della generazione Rocco che, nonostante la vittoria sofferta in Coppa delle Coppe contro il Leeds, perde lo scudetto all’ultima giornata nella fatal Verona. Sfuma così lo scudetto della stella, ma l’appuntamento è rimandato per la stagione 1978/79, con Nils Liedholm a comandare i rossoneri all’assalto per il titoli.
Il cerchio si chiude, come per magia. Il Barone che da giocatore ha accolto Rivera, due decenni dopo è il mister con cui scrivere una pagina indelebile nella storia del Milan. Rivera dice basta dopo 501 partite in Serie A, nell’ultima giornata, con microfono in mano a dirigere i tifosi perché si possano ripristinare le condizioni per disputare la gara, sembra passare il testimone da bandiera del Milan quale lo è stato per un’epoca, al politico che sarà in seguito, con l’assoluta certezza che i finali giusti siano quelli vincenti ed i campioni veri sanno scegliere il momento per deciderli.
Tratto da: http://www.storiedicalcio.altervista.org/index.html
1 commento:
Italo Allodi era un amico di mio zio.
E quando il medesimo era direttore sportivo del Napoli (c'era già Maradona) gli confidò che il suo più grande cruccio era stato quello di non poter prolungare il ciclo della grande Inter di Herrera perchè, dopo la grande delusione della sconfitta coreana ai campionati mondiali in Inghilterra, le frontiere erano state chiuse ai giocatori stranieri.
Infatti sembra che il medesimo avesse già prenotato nientemeno che Pelè e Beckenbauer.
Dopo la vittoria della nazionale nei campionati europei del 1968,Artemio Franchi, da lui pressato, gli promise che entro l'anno le frontiere sarebbero state riaperte.
Ma,poi, non si sa perchè tutto sfumò.
Allodi confidò pure che in quel periodo anche gli uomini del Milan erano pronti ad acquistare alcuni fuoriclasse olandesi dell'Ajax e Fejenoord (Crujff, Kindvall,Haan,Neeskens,Krol). Pare che a Rocco piacesse molto Hulshoff, lo stopper gigante dell'Ajax.
Immaginate un pò Rivera il quale invece di servire Prati,Sormani o Villa, fosse stato affiancato da tre,quattro olandesi volanti ed invece di lanciare i menzionati italiani avesse lanciato Crujff,Neeskens e simili.
Con Rocco in panchina. A mio avviso il migliore allenatore italiano di sempre.
Capace di vincere una competizione internazionale anche con squadre di non eccelso valore.
Altro che Milan di Sacchi.
O,quantomeno, un Milan stellare.
Rimango sgomento quando visitando i siti di diversi Milan clubs italiani che indicono referendum sul più grande milanista di sempre acerto che Rivera sia da loro posto solo al quarto o quinto posto.
E mi chiedo: ma costoro l'hanno mai visto giocare?
Probabilmente sono molto giovani e non l'hanno mai visto giocare perchè Rivera non solo è il più grande milanista di sempre, ma è il Milan stesso.
Con buona pace del grande mega imperatore Silvio magno.
Che gli italiani, in buona parte popolo di gonzi, completamente rimbecilliti ed abbacinati dalla miriade di baggianate mostruose che il medesimo propala da troppo tempo con sovrumana determinazione e spudoratezza, potrebbero nominare Papa tra qualche anno.
Angelo Balzano.
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