Luigi Gigi Meroni nasce a Como il 24 febbraio del 1943 e proprio a Como inizia la sua carriera calcistica nel campetto dell’oratorio di San Bartolomeo, dove gioca la squadra Libertas. Cresce nel vivaio del Calcio Como insieme all’amato fratello Celestino, ma la sua carriera nella formazione lariana è breve ed, a soli diciannove anni, è trasferito al Genoa.
A portare Meroni alla corte rossoblu era stato un dirigente talent scout, Aldo Dapelo, grande amico di Gianni Brera. L’aveva acquistato dal Como per 40 milioni e gli era stato suggerito dal dottor Giulio Cappelli, che allora guidava i lariani. Pochi mesi prima Meroni era stato bocciato da Manlio Scopigno per il Vicenza. L’aveva segnalato a Roberto Lerici, un suo amico genovese Amilcare Palotti, scopritore di talenti. Poi frate Roberto era stato licenziato ed il suo sostituto, che era poi il suo allievo, dopo aver dato un’occhiata a Meroni disse che non valeva la pena di acquistarlo. Troppo abatino per giocare al calcio.
Nel primo anno genoano Meroni non ebbe molta fortuna. L’allenatore Renato Gei, gli preferiva quasi sempre il più esperto Bean se non, addirittura, il brasiliano Germano. Poi il Genoa era stato affidato a Beniamino Santos, ex del Torino. Il tecnico argentino aveva subito capito l’immenso talento di Meroni e l’aveva lanciato in orbita. E qui il destino mosse il suo primo passo, perché anche il povero Santos morì per Meroni. Era andato a passare le vacanze in Spagna, gli avevano assicurato che Meroni non sarebbe stato venduto. Invece l’ultimo giorno del Gallia, il presidente Giacomo Berrino non seppe resistere all’offerta di Pianelli, circa 300 milioni, e Meroni passò al Torino.
A Genova, in piazza De Ferrari ci fu la rivolta dei tifosi, perché Gigino era il loro beniamino. Appena lo seppe, Santos decise di interrompere le vacanze. Salì in macchina per raggiungere Genova e dare le dimissioni. Ma era troppo nervoso per guidare. La sua automobile andò a schiantarsi contro un albero. Sua moglie e le figlie se la cavarono con qualche ferita, per lui non ci fu nulla da fare.
Per quei 300 milioni, che allora fecero scandalo, Orfeo Pianelli venne descritto come il Bonaventura del calcio italiano, sembrava pronto a distribuire milioni a tutti, come il personaggio di Sergio Tofano. Nessuno capì che, invece, l’amministratore delegato della Pianelli & Traversa era il primo presidente che ragionava da manager. Per la precisione i milioni non furono trecento, bensì duecentosettantacinque e nel conguaglio c’era pure un giocatore, lo spagnolo Peirò.
Giglio Panza ha rivelato nel suo volume “Il Torino e la sua leggenda”: «Meroni faceva gola a tanti, Juventus compresa. Quando Gianni Agnelli seppe che Meroni era passato al Torino, telefonò a Giordanetti manifestandogli il suo corruccio. All’avvocato, Giordanetti (vicepresidente bravissimo, juventino innamorato, uomo prudente e corretto) ricordò garbatamente che in quel periodo i cordoni della borsa bianconera non consentivano in vestimenti massicci. E così Gianni Agnelli, per godersi Meroni, dovette assistere alle partite del Torino più di quanto fosse nelle sue intenzioni».
Poi Agnelli tornò alla carica e Pianelli stava per cedere, anche se appena si sparse la voce delle trattative gli ultras tappezzarono i cancelli della sede e della sua azienda di Rivoli, accusandolo di aver tradito il Torino. Ma Pianelli, nel suo libro “Il mio Torino” che ha scritto in collaborazione con Bruno Perucca, ha precisato: «La richiesta dell’avvocato Agnelli, per Gigi Meroni, era stata fatta con uno spirito che nessuno aveva capito in quel momento. Ricordo che l’avvocato mi disse: “Io avrei piacere che tutte e due le squadre cittadine fossero ad un alto livello, che il football a Torino arrivasse di nuovo a dominare e ad offrire spettacolo ogni domenica”. Eravamo in piena fase di recupero in quanto la situazione economica del sodalizio, le difficoltà finanziarie erano all’ordine del giorno. Avevamo parlato della cessione del povero Meroni su una base vantaggiosa, sfido chiunque a giudicare: 500 milioni subito e 50 milioni l’anno per cinque anni, totale 750 milioni, anche se una parte dilazionata nel tempo. Se era importante per loro avere un giocatore che piaceva in modo particolare, come piaceva a noi del resto, per certe caratteristiche, per la fantasia ed il dribbling, per noi l’affare era importante. La cifra era grossa, reinvestendola anche solo in parte si potevano combinare buoni affari. Inoltre l’avvocato Agnelli mi aveva detto: “Se avete qualche giocatore che vi piace, noi siamo disposti a darvi una mano a livello di trattative affinché possiate assicurarvelo”. Notare che io non avevo, non ho mai chiesto nulla a nessuno. Capisco che il sacrificio era grosso, ma la cifra che ne avremmo ricavato ci avrebbe consentito di impostare un programma che già avevamo in mente».
Ma l’affare andò a monte, perché Pianelli chiese tempo per pensarci e mentre il presidente del Torino stava meditando, la Juventus si tirò indietro. Agnelli era spaventato perché anche il suo giornale, “La Stampa”, l’aveva attaccato in prima pagina. Non volle dare l’impressione di essere lo squalo che inghiotte il pesce piccolo. Lasciò Meroni a Pianelli e, nel Torino, Meroni ritrovò quell’Edmondo Fabbri che in Nazionale gli aveva detto chiaro e tondo che, per meritarsi la maglia azzurra, doveva tagliarsi i capelli e vestire bene. Ma Meroni era un anticonformista nato. Viveva in una mansarda con Cristiana, moglie divorziata di un regista allievo di Fellini. Sul comodino aveva un teschio, che avrebbe dovuto portargli fortuna, era un personaggio.
E Vladimiro Caminiti scriveva di lui: «Noi non siamo per i capelloni, ma ne conosciamo uno e si tratta di un gran bravo ragazzo uguale a tantissimi della sua età. In più ha i capelli ed i ghiribizzi. Si disegna i vestiti eppoi li porta al sarto personalmente seguendone la confezione. Dipinge ma non sa dire fino a che punto è artista. Si chiama Meroni, gli amici lo chiamano Gigi. Dice di ammirare soltanto Sivori fra tutti i campioni del calcio, senza volerlo imitare. Anche questa predilezione si capisce».
Era il beniamino dei tifosi e del presidente. A Pianelli non piacciono i ragazzi con i capelli lunghi, la barba ed i vestiti stravaganti (in seguito non ha potuto sopportare i giocatori che cercavano di scimmiottare Meroni) ma a Gigino permetteva tutto. E quando Meroni, che pure era così geloso della sua privacy, gli disse: «Presidente, se lei mi dice di recidermi la chioma e di radermi la faccia, lo farò senza aspettare un minuto».
Era il beniamino dei tifosi e del presidente. A Pianelli non piacciono i ragazzi con i capelli lunghi, la barba ed i vestiti stravaganti (in seguito non ha potuto sopportare i giocatori che cercavano di scimmiottare Meroni) ma a Gigino permetteva tutto. E quando Meroni, che pure era così geloso della sua privacy, gli disse: «Presidente, se lei mi dice di recidermi la chioma e di radermi la faccia, lo farò senza aspettare un minuto».
Pianelli si commosse e non gli impose il sacrificio. Poi la tragedia. E Pianelli ricorda con sincera commozione: «Eravamo in sede quando ci telefonarono dal Mauriziano. Le prime notizie, come sempre, davano adito a speranze. Corremmo all’ospedale con Fabbri, il massaggiatore Colla, altri dirigenti. Restammo muti, impietriti di fronte ai volti aggrottati dei medici. Non c’era più nulla da fare. Fuori, una folla di tifosi in silenzio. Molti piangevano, come noi del resto. Pensai per un attimo che erano gli stessi che avevano protestato contro le intenzioni di cederlo. Pensai persino che se fosse passato alla Juventus sarebbe stato in trasferta, non avrebbe attraversato quel corso, sarebbe ancora vivo».
Ma ragionando si convinse che ognuno di noi, quando nasce, ha il destino segnato. Il destino di Meroni prevedeva quel terribile urto, contro un’automobile guidata da un suo tifoso diciannovenne, che si chiamava Attilio Romero: diventerà presidente del Torino.
C’è chi non crede ancora al destino?
tratto da: http://www.storiedicalcio.altervista.org/index.html
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