Rio de Janeiro, quartiere della Gàvea – scrive Alessandro Penna sul “Guerin Sportivo” del 22-28 novembre 2000 – la serata è dolce, il clima tesissimo. Il Flamengo celebra i suoi centocinque anni di gloria, ma più che una festa sembra una veglia funebre: a inizio stagione la società aveva investito faccia e miliardi (una sessantina: noccioline da noi, un record in Brasile), in pochi mesi la squadra ha perso la prima e scialacquato i secondi, bucando tutti i traguardi a disposizione. Nel salotto del Mengão, musi lunghi, sorrisi falsi. Fuori, rabbia vera, contestazione che monta.
A tre ore e qualche chilometro da questa intervista. Athirson Mazolli de Oliveira si sdraia sul lettino dei massaggi: mezz’ora di frizioni per sciogliere una contrattura, poi una rapida visita alla sede sociale, giusto il tempo di raccogliere i documenti personali e il gelo dei dirigenti rubronegri. Pochi passi dopo, il neo juventino viene accerchiato da un gruppuscolo di tifosi (?): spintoni, insulti («Dimmi tu, è un venduto uno che lotta per realizzare un sogno?»), minacce incomprensibili. Alla fine, una sberla atterra sulla guancia di Athirson.
L’aggressione della Gàvea è l’ultima tappa di un incubo lungo sei mesi. Dopo la firma di maggio con la Juventus sono arrivati, nell’ordine: un doping misterioso («organizzato ad arte da chi mi vuole male»), un contratto fantasma (il rinnovo con il Flamengo siglato dall’ex procuratrice Marlene Mattos), gli avvertimenti da piromane del presidente Edmundo Silva («se da Torino non ci versano quaranta miliardi, brucerò in piazza le macchine di Agnelli») e la proposta indecente di Luxemburgo, ex tecnico della Seleção («o ti fai rappresentare da chi dico io o ti scordi la Nazionale»).
«Ma ne è valsa la pena: so ancora vivo e arriverò in Italia con la carica giusta» chiarisce Athirson.
Flashback. Quartiere Catete, Rio de Janeiro. Pomeriggio grigio, aria di pioggia: un anticipo della Torino che verrà. Adonías, il fratello del campione, ci accoglie nell’ufficio della Jamit, l’impresa di marketing sportivo che cura gli interessi di Athirson. «Facciamo tutto noi – spiega Adonías – programmiamo il futuro, concordiamo gli ingaggi e abbiamo appena messo a punto il suo sito internet ufficiale» (www.athirsonline.com. davvero niente male). Alla faccia di Marlene Mattos.
Athirson arriva puntuale e mi sorprende con un italiano quasi decoroso: «Sotto con le domande, amico».
– Partiamo dall`inizio.
«Sono nato a Urca, la zona più bella di Rio, una collina proprio sotto al Pan di Zucchero. Papà è un tenente in pensione, mamma una calabrese vecchio stampo: fa la radiologa e non smetterà mai di lavorare. Io sono arrivato nel 1977, ultimo di quattro fratelli, tutti pazzi per il pallone».
– Un’infanzia tranquilla.
«Direi di sì. Certo, non nuotavamo nell’oro, spesso mancavano i vestiti e non potevamo permetterci lussi come la televisione o le scarpette da calcio, ma il pane, quello a tavola c’era sempre».
– Quando hai deciso di fare il calciatore e quando hai capito che il pallone sarebbe stato il tuo mestiere?
«L’ho deciso prestissimo. Avevo cinque anni e andavo al bar a vedere la Seleção di Zico, quella del futebol-arte, quella disintegrata da Paolo Rossi. Papà mi riempiva le orecchie con le storie di Garrincha, ma io guardavo Zico e dicevo: da grande voglio giocare come lui... Ho sempre saputo che avrei lavorato con il calcio: se non avessi sfondato come giocatore, avrei fatto il raccattapalle, il magazziniere, il medico sportivo: qualsiasi cosa pur di stare su quel rettangolo».
– Chi sono stati i tuoi maestri?
«Mio padre e mio fratello Allisson, che era un fenomeno ma non ha avuto fortuna. Sono stati i primi a credere in me, a “coprirmi” quando marinavo la scuola e mamma s’infuriava. E stato Allisson ad accompagnarmi al Flamengo per il provino».
– Preso seduta stante, immagino.
«Già. Per me fu come sognare a occhi aperti. Sono sempre stato “flamenguista” e d’un tratto mi trovavo nella casa di Zico, di Junior, di Renato... Avevo tredici anni e mi fecero cominciare dal calcetto, come pivot offensivo, una specie di “centravanti boa”. Non ero un granché, a essere sinceri: non potevo sfruttare la mia velocità, la mia progressione».
– Quindi sei passato al calcio vero.
«Esatto. A sedici anni, giocavo con gli juniores, ala sinistra. Più tardi Joel Santana, l’allenatore che mi ha lanciato in prima squadra, decise di arretrarmi: diceva che i miei polmoni e la mia falcata erano sprecati lì in avanti».
– A diciannove anni, l’esordio.
«Contro l’America di Natal: mi tremavano le gambe, ma feci la mia figura. Fu una gioia immensa, capii che ce l’avevo fatta».
– Nel 1998 ti spediscono al Santos. Una bocciatura?
«No, una decisione che presi per accontentare mio padre, che è un santista fanatico, per via di Pelè... Scherzi a parte, la verità è che quell’anno mi infortunai e al rientro trovai la strada sbarrata da Zé Roberto, che giocava in nazionale. Santana mi prese in disparte e mi fece capire che non avrei avuto molto spazio. Allora colsi la palla al balzo e feci le valigie».
– Una scelta azzeccata.
«Sì, perché trovai un grande allenatore, quel Leão che ora è il CT della Seleção. Con lui ho fatto grandi progressi: mi ha insegnato a marcare, a difendere. Ha fatto di me un giocatore completo».
– Poi di nuovo il Flamengo.
«Questa volta da protagonista. In due anni, abbiamo vinto una coppa Mercosul e due campionati dello Stato di Rio. Nell’ultimo ho pure segnato dodici reti!».
– E a maggio, il sì alla Vecchia Signora. Perché proprio la Juve?
«Perché è una grande società e una grande squadra. Hanno creduto in me ed io credo in loro. In corsa c’era anche il Barcellona, poi è cambiato il presidente, hanno cacciato Van Gaal e non se n’è fatto nulla. Dopo la firma con Moggi, mi hanno cercato anche Inter e Deportivo La Coruña, ma io ho una sola parola e l’ho data alla Juve».
– Torino e Rio de Janeiro: difficile immaginare due città più diverse. Il tuo compatriota Muller non seppe resistere alla saudade: tu ce la farai?
«Non credo che ci saranno problemi. Roberta, la mia fidanzata, verrà con me e ad aprile nascerà la nostra bimba, Maria Eduarda. Starò in famiglia e i miei potranno raggiungermi quando voglio: mi mancherà l’oceano e il samba, ma non è un dramma. E poi in Italia ci sono tanti brasiliani: conosco Cafu e Zago, mi farò nuovi amici...».
– La Juve è in crisi: già fuori dall’Europa, a singhiozzo in campionato.
«Ma è solo un momentaccio. Presto tomeremo protagonisti, perché abbiamo grandi giocatori: stravedo per Zidane, Del Piero e Davids, che mi sembra un duro. Spero di andare d’accordo con l’olandese».
– E se Ancelotti ti relegasse in panchina?
«Ci andrei senza fiatare, anche se naturalmente punto a una maglia da titolare. In questi mesi ho guardato parecchie partite della Juve e credo di potermi inserire benissimo negli schemi dell’allenatore».
– Se potessi portare con te un giocatore brasiliano, chi sceglieresti?
«Non ho dubbi: Juan, il centrale del Flamengo. È giovane, forte fisicamente e ha piedi da centrocampista. Un altro da seguire è Geovanni, l’attaccante del Cruzeiro».
– Chi è il tuo idolo e chi il tuo modello?
«I miei idoli sono Zico e Senna. Il primo è stato tra i più grandi di tutti i tempi ed è una persona fantastica: mi ha detto che posso andare a trovarlo quando voglio, mi spiegherà tante cose dell’Italia... Il mio modello è Leonardo: prima di andare in Europa, giocava sulla fascia sinistra ed era un’iradiddio. Degli italiani, mi piace molto Maldini: se mi darà la sua maglietta, la farò incorniciare».
– In questi ultimi mesi te ne sono capitate di tutti i colori: dal doping ai fischi della torcida, dai piccoli infortuni alle grandi minacce. Come hai fatto a resistere?
«Solo due parole: fede e famiglia. Dio è con me perché non ho fatto nulla di male e mi sono sempre comportato con onestà. I miei familiari mi hanno sempre appoggiato, senza di loro avrei commesso qualche sciocchezza».
– Ora hai un mese di vacanze davanti. Programmi?
«Penso che farò un viaggetto con la mia fidanzata e ne approfitterò per allenarmi: sto entrando in forma. Intanto stasera vado alla festa del Flamengo: tira una brutta aria, speriamo bene».
«È il nuovo Roberto Carlos!». Dicono in patria; queste voci arrivano a Omar Sivori che, nella primavera del 2000, lo segnala a Luciano Moggi. Dopo appena una settimana di trattative, è trovata l’intesa con il giocatore, che firma un contratto fino al 2005, ma non col Flamengo. La Juventus ha fretta, vuole avere il giocatore a disposizione già da settembre, per l’inizio del campionato, ma la società brasiliana non ne vuole sapere e così i bianconeri devono aspettare che il terzino si svincoli, il 31 dicembre 2000, per poi prenderlo a inizio del 2001.
A quel punto il Flamengo tira in ballo un accordo precedente con il procuratore del giocatore, ma a seguito di un contenzioso legale lungo e travagliato, la Juventus ottiene dalla FIFA un transfer provvisorio, grazie al quale il 23 febbraio Athirson diventa un giocatore bianconero a tutti gli effetti.
A Torino, appena sceso dall’aereo, lo accoglie la neve. «Non l’avevo mai vista dal vivo», racconta il brasiliano, che compera una casa appena fuori città e un’Alfa 166: comincia in questo modo l’avventura italiana! «Se ora mi sento pronto per l’Italia e per la Juventus è perché sono stato due anni nel campionato paulista. Lì si gioca un “futebol” europeo. C’è più organizzazione, il calcio tatticamente è evoluto, si picchia, si fa pressing, non si lascia spazio agli avversari. A Rio il calcio è più lento, più romantico, più tecnico, ti lasciano fare delle cose impensabili. A São Paulo ho capito che potevo fare strada. Con Roberto Carlos abbiamo alcune caratteristiche comuni ma non siamo proprio uguali. Lui è un campione, io lavoro per diventarlo. Come stile di gioco mi paragonerei al milanista Serginho».
Moggi è entusiasta: «Athirson è il giovane adatto a ricoprire il ruolo di esterno sinistro. Non dovrà essere soltanto un difensore, ma anche un difensore. Con lui non abbiamo più ruoli scoperti». Anche Ancelotti si allinea: «Non lo abbiamo preso per sostituire Pessotto, che può giocare anche in altre posizioni, a destra, ad esempio, o a centrocampo. E, in ogni caso, la concorrenza è importante. Credo che Athirson possa dare qualità a tutto il gruppo e che possa rappresentare una valida pedina in più nel finale di stagione».
Al termine di un periodo di riabilitazione per curarsi da un infortunio precedente, Athirson scende in campo per la prima volta il primo aprile 2001 al Delle Alpi, sostituendo Zidane al 29° minuto del secondo tempo, con la Juventus comodamente in vantaggio per 1-0 sul Brescia. Dopo venti minuti le Rondinelle pareggiano con Roberto Baggio e la gara termina con il risultato di 1-1; considerata la contemporanea vittoria della Roma sul Verona, i bianconeri si complicano terribilmente le cose in chiave scudetto.
Il brasiliano avrà altre poche occasioni di scendere in campo: qualche spezzone contro il Lecce, la Fiorentina, il Perugia e l’Atalanta e il suo rendimento è spesso insufficiente. Nella stagione successiva ritorna Marcello Lippi sulla panchina bianconera. Di Athirson si perdono completamente le tracce: non gioca proprio mai, nonostante in estate Moggi avesse rifiutato un’importante offerta da parte del Celta Vigo.
Nel gennaio 2002 la Juventus lo manda in prestito, al Flamengo, in attesa di riportarlo un giorno a Torino. Quel giorno non arriverà mai, perché il 2 ottobre 2003 i bianconeri rescindono il contratto con il giocatore pagandogli, peraltro, una penale di più di due milioni di euro. Nel luglio 2002, Athirson balza agli onori della cronaca, anche se per meriti non sportivi; scoppia il caso “Viva Lain”, il centro di massaggiatrici a luci rosse per vip, scoperto nel capoluogo piemontese: sulla lista dei clienti stilata dagli inquirenti, compare anche il suo nome.
Il brasiliano resta al Flamengo fino a dicembre 2004, fatta eccezione per una breve parentesi al CSKA di Mosca (da febbraio a giugno dello stesso anno). Dall’estate del 2005, il Pappagallo, questo il suo soprannome dovuto alla sua loquacità e all’innata simpatia, entra a far parte della rosa del Cruzeiro, per poi trasferirsi in Germania, a Leverkusen.
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