giovedì 28 gennaio 2021

Sandro PUPPO

 

«Puppo era un tecnico adorabile – racconta Angelo Caroli – colto e ricercato sulla parola. Il giorno prima di ogni partita portava su una 1100 Fiat i suoi “puppanti” lungo tragitti collinari. Raccontava aneddoti, spiegava segreti del calcio e della vita per tenerci al riparo da tensioni e polemiche, come un efficacissimo parafulmine».

ANGELO CAROLI, “STAMPASERA” DEL 17 OTTOBRE 1986
Aveva 68 anni. Si è spento in una clinica di Piacenza, dove era ricoverato da alcuni giorni Sandro Puppo, ottimo giocatore di calcio, era stato convocato perfino nella squadra azzurra nel 1936, l’anno del successo alle Olimpiadi di Berlino. Figlio di un violinista, da bambino aveva seguito i destini artistici del padre in Cina, a Shanghai, dove cominciò a dare i primi calci a un pallone.
Appena tornato in Italia, il giovane Puppo viene ingaggiato dal Piacenza, per poi essere tesserato, in successione, dall’Inter, che allora si chiamava Ambrosiana, dal Venezia e dalla Roma. Un brutto infortunio a un ginocchio ne interrompe la carriera. L’inclinazione all’insegnamento lo porta presto alla professione di tecnico. Allena infatti una squadra turca, poi la Juventus e il Barcellona, prima di rivestire il ruolo di segretario del settore tecnico federale presso Coverciano. Torna, nel 1968, al suo vecchio amore, il Piacenza, prima di partecipare ai mondiali messicani del ‘70 in qualità di consulente federale.
Sandro Puppo segna un’epoca nella Juventus, con il lancio di un gruppo di giovanissimi pieni di speranze, chiamati «Puppanti», da Garzena a Stacchini, da Emoli a Colombo, da Donino a Mattrel, da Bartolini a Dell’Omodarme. Anche il sottoscritto debutta in serie A per suo desiderio. Era un tecnico squisito, un uomo delizioso, colto, dai toni garbati e dalla parola ricercata. La sua Juventus cerca di continuare il discorso della squadra che con Boniperti, Praest, Martino, John Hansen, Manente, Viola, Corradi e Carletto Parola raccoglie nel ‘49/50 l’eredità del Grande Torino, tragicamente scomparso nel rogo di Superga.
Quando Puppo allena il club bianconero, presidente è il dottor Umberto Agnelli, un giovane molto competente che sarebbe diventato presidente della Federcalcio e che in quegli anni (55/56 e 56/57) stava gettando le basi per ricostituire quello che sarebbe diventato uno squadrone con Boniperti, Charles e Sivori.
Quello del «puppanti» è un manipolo di «boy» con tanta buona volontà e con poca esperienza, perde molte partite ma si batte al limite delle possibilità, lasciando intendere che la strada percorsa è quella giusta e che per i successori si tratterà soltanto di raccogliere quanto è stato seminato dal «filosofo». Così lo chiamavano, per quell’aria incantata e meditativa, per quello sguardo docile e buono, per la discrezione con la quale affrontava i problemi, per gli occhiali che lo facevano sembrare più un professore universitario che un allenatore di calcio. E oggi ne piangiamo la morte.

ANGELO CAROLI, “STAMPASERA” DEL 22 NOVEMBRE 1988
L’allegrezza con la quale i bianconeri realizzano e subiscono i gol preoccupa i tifosi e crea problemi inquantificabili a Dino Zoff. È una Juventus, concepita per lo spettacolo, con il baricentro spostato pericolosamente in avanti. I numeri parlano un linguaggio nitido: 13 gol fatti e 11 subiti in 6 partite di campionato. La statistica, filosofia dei numeri che si diverte a collegare il passato al presente, va a riesumare vecchi capitoli nella vita della Signora. E scopre che nel ‘55/56 la Juve percorre un analogo cammino. Era una squadra «colabrodo», ed io c’ero.
Il calcio viveva in pieno romanticismo, si guardava molto allo specchio e prestava poca attenzione al domani. Le formule tattiche restavano nei laboratori del pensiero degli allenatori e non erano ancora realizzate sul campo. Era un calcio spettacolare, per certi versi ingenuo e impietoso con i club meno competitivi. Quella Juve attraversava un periodo di congiuntura e poneva le fondamenta per una ricostruzione con una politica basata sui giovani, dopo gli scudetti (stagioni ‘49/50 e ‘51/52) ottenuti dalla squadra presieduta dall’avvocato Giovanni Agnelli.
Il raffronto statistico tra la Juventus di allora e quella di oggi è imposto dalle cifre, ma non è assolutamente proponibile in chiave tecnica e tattica. La Juventus di allora era una miscellanea di anziani (Viola, Nay, Oppezzo), di uomini maturi (Corradi e Boniperti, allora elemento di maggior carisma del calcio italiano), di giovani in germinazione (Garzena, Emoli, Colombo, Montico) e di bambini che uscivano dall’adolescenza e che erano tutti da svezzare (Stacchini, Dell’Omodarme. Frateschi, Donino, Mattrel e il sottoscritto). Quest’ultima era una covata di «puppanti», visto che l’allenatore si chiamava Sandro Puppo, uomo di una certa cultura, saggio e meditativo, colpevole solo di poter preparare la minestra in base agli ingredienti, non proprio piccanti, che aveva in cucina.
Gli stranieri, Colella e Vairo, non furono di alcun aiuto al collettivo e si smarrirono presto in una geografia anonima. Ma su giocatori solidi come Garzena, Emoli, Colombo, Stacchini e sulla maturità di Boniperti, il dottor Umberto Agnelli stava edificando gli scudetti degli anni 57/58, 59/60 e 60/61.
La Juventus di oggi aspira al vertice, esibisce campioni e fuoriclasse, giocatori di grosso rendimento e gente esperta, ma la sua struttura fisiologica e la spiccata melinazione offensiva la costringono spesso al rischio. E quando a certi squilibri costituzionali accoppia l’errore dei singoli le capita, come domenica contro il Napoli, di servire ai tifosi frittate dal gusto amaro. Nel ‘55/56 la Juve si tolse dalla testa certe idee scapigliate, fece leva sulla vecchia generazione, centellinò l’esibizione dei giovani in vetrina, rinforzò i cardini e ottenne la salvezza. La Juve costruita nell’estate scorsa guarda giustamente a posizioni di vertice e non è certo una sconfitta, seppur condita da cinque gol, a ridimensionarla. A patto che riveda i principi troppo spregiudicati e, soprattutto, inviti i suoi difensori a non distrarsi più.

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