Massimiliano Allegri e la Juventus si separano – scrive Sandro Scarpa su Juventibus.com del 17 maggio 2019 – con fischi, insulti e una terribile e raggelante sensazione di fragilità iniziò il suo percorso in bianconero. Con fischi, insulti e una terribile e raggelante sensazione di insoddisfazione si temeva potesse proseguire. In mezzo, Allegri è stato l’allenatore più vincente, in termini di vittorie sul numero di gare disputate, della storia della Juventus FC. L’allenatore che ha consolidato il dominio in Italia, proseguendo e allungando la striscia degli scudetti con 5 campionati di fila per un’impresa che ha reso EPICO il probabile e lo scontato, ci ha aggiunto 4 Coppe Italia, con quella stella (la decima) che mancava a una Juventus dominante.
Soprattutto, Allegri ha preso lo straordinario lavoro di Antonio Conte e ha saputo farlo suo e poi gradualmente adattarlo e modificarlo alle sue idee, dando fiducia e “halma” alla squadra soprattutto in Europa. Siamo così passati da una squadra ai margini dell’impero europeo (quel ristorante troppo costoso) che Conte aveva provato a fronteggiare con armi troppo spuntate, ai vertici della montagna più alta da scalare, fin da subito. A Berlino.
Con 7 uomini diversi da quel manipolo di underdog del primo anno, la Juventus di Allegri, ancora più forte e dominante in Italia, si era ripresentata, due anni dopo, di nuovo alle vette dell’Olimpo, questa volta con voce autorevole, cammino autoritario, per quanto non spettacolare, e la fiducia di un popolo pronto ad assaporare una gioia diventata ossessione dopo 20 anni. A Cardiff.
Da lì in poi Allegri ha perso quasi tutto: il calore, l’entusiasmo e la fiducia della gran parte dei tifosi, la capacità quasi prodigiosa di inquadrare un modulo perfetto durante l’anno, in grado di valorizzare tutti gli elementi di talento in squadra senza perdere in efficacia, e probabilmente anche il credito e la fiducia illimitata di una Presidenza che lo aveva elogiato (memore di quei fischi del 15 luglio 2014).
Soprattutto, negli ultimi 2 anni Allegri ha perso quella voglia di una ricerca di un calcio più qualitativo, ripiegandosi invece sulle altre sue doti: la gestione dei momenti, dei tempi, delle fasi di gara e l’adattarsi all’avversario – tatticamente e fisicamente – purtroppo anche nella mediocrità.
Così Allegri ha continuato a vincere, seppure di “corto muso” contro Sarri (o Pochettino) ma ha preso la china di un’involuzione tattica, o meglio, di una mancata evoluzione, che ha avuto due abbaglianti momenti di illusoria bellezza e fierezza: Real-Juventus (1-3) e Juventus-Atletico (3-0) e una brevissima – davvero troppo – stagione di gran calcio, iniziata a Valencia e terminata, 2 gare dopo, sempre col Valencia in casa, dopo le picconate di Mourinho.
Nell’anno dello shock più potente della storia del calcio – Cristiano Ronaldo alla Juventus – arriva non solo il primo flop in termini di risultati (l’eliminazione da parte dell’Ajax) ma soprattutto la sensazione di una incapacità di Allegri di rigenerare se stesso, di ricercare un gioco adatto alla spettacolare qualità della rosa in suo possesso. Non è tanto l’essere usciti dalla Champions, ma il modo, il come e il perché.
La Juventus ha deciso: cambiare prima di essere costretti.
In modo altrettanto certo e senza dubbi, Massimiliano Allegri va ringraziato per 5 meravigliosi anni, con 2 grandissime illusioni e 2 stagioni opache ma pur sempre vittoriose. Va ringraziato per i 5 Scudetti, sia quelli mai in discussione, sia le due rimonte con Zaza a Napoli e Higuain a Milano, per le 4 Coppe Italia. E va ringraziato per Dortmund e Berlino, per Monaco e Montecarlo, per le vittorie in casa dei due Manchester e a Wembley, per le imprese – realizzate o sfiorate – al Bernabeu e per i 3-0 rifilati al Barcellona e all’Atletico.
Se ne va un grande Allenatore, che ha rivaleggiato con Klopp, Ancelotti, Enrique, Guardiola, Emery, Zidane, Pochettino, Mourinho e Simeone, a volte vincendo altre perdendo, grazie ad una squadra sempre più forte e consapevole. Se ne va al momento giusto, perché la Juventus è diventata più grande di qualsiasi allenatore che non riesca, per più di due anni, a stare al suo passo.
Se ne va un Mister a suo modo unico ai microfoni, istrionico e cazzeggiante, lucido e ironico, con qualche scivolone legittimo, mai polemico su alibi arbitrali o fatturati o altri mezzucci cari ad altri mister, sempre perfetto nell’aderire a uno stile Juventus inappuntabile, con un calo – coincidenza – nell’aplomb e nel livello delle argomentazioni negli ultimi 2 anni.
Se ne va, tra gli applausi – speriamo – sia di chi non apprezza questa scelta, sia di chi – speriamo – aveva il timore di una sua permanenza.
Grazie Mister. Grazie Andrea.
Andiamo avanti e applausi!
MARCO D’OTTAVI, ULTIMOUOMO.COM DEL 26 MARZO 2019
Se dal Porto di Livorno proseguite verso sud, lungo i marciapiedi assolati di Viale Italia, superata la suggestiva terrazza Mascagni e la storica Accademia navale troverete sul lato sinistro della strada, quello che guarda al Mar Tirreno, l’Ippodromo Federico Caprilli. Se ne sta lì immobile dal 1894, gigantesco tra i villini in stile liberty del quartiere Ardenza, anno in cui fu realizzato sui terreni un tempo occupati dal parco di Villa Letizia. Oggi è chiuso, fallito, ma sbirciando tra le sbarre dei cancelli mangiati dalla salsedine, si può ancora respirare un pezzo di Livorno, un pezzo di Massimiliano Allegri.
È proprio qui, all’Ippodromo Caprilli, che l’allenatore toscano passava le sue giornate da bambino: «Le mie memorie più felici erano di mio nonno che mi portava alle corse di cavalli a Livorno», ha scritto recentemente in un articolo per The Players’ Tribune. Una passione che gli è rimasta appiccicata addosso e di cui non fa mistero, tutt’altro. Allegri quando può – se riesce – parla di cavalli, dell’ippodromo, di Livorno.
Nel 2000 Allegri è ancora un calciatore. Sta chiudendo una carriera non troppo brillante nella Pistoiese, in serie B. Il 20 agosto per la terza e ultima sfida del girone di Coppa Italia la sua squadra affronta l’Atalanta. La partita scivola via come tante sfide estive, un 1-1 con gol di Luciano Zauri e Girolamo Bizzarri, ma alcuni mesi dopo torna prepotentemente sulle pagine dei giornali: le due squadre vengono accusate di aver combinato il risultato.
Tra gli indagati c’è anche Allegri, colpevole secondo la procura di aver organizzato l’affare qualche sera prima, in una cena con altri sette giocatori. Il processo si tiene il 22 novembre a Milano, dura quattro ore. Ad attenderlo all’uscita ci sono alcuni giornalisti a cui Allegri rivela la sua passione: «Faccio giornalmente scommesse solo sui cavalli, ma ciò mi è permesso», continua «seguo l’ippica da quando ho cinque anni, proprio come molti altri toscani. Sapete in quanti scommettono su questo sport?». Allegri verrà prima condannato a un anno di squalifica, ma in seguito prosciolto dalle accuse.
Allegri cresce, diventa un allenatore vincente, sovrastando l’immagine di calciatore scapestrato, però non rinnega mai il suo passato. Le scommesse sui cavalli sembrano far parte di questa aura un po’ nebulosa che si porta dietro, ma che rivendica con un certo orgoglio, come in questa intervista in cui a una vaga domanda riguardo in quale stagione della vita si trovasse, «dopo aver vissuto a mille all’ora» (la narrazione costruita intorno ad Allegri lo descrive come uno fumantino, sciupafemmine, un talento sregolato) risponde così: «Per un lungo periodo lo sono stato: sport, soldi, donne. Avevo cinque anni quando mio nonno mi portò all’ippodromo. Nacque una passione travolgente per le corse. Ho scommesso, ho vinto, perso. Sono stato anche proprietario di cavalli. Mai puntato un soldo però sul calcio, mai indirizzato un risultato. Nel 2001 mi beccai un anno di squalifica per un presunto illecito che non avevo commesso. Prosciolto qualche mese dopo. Ma la ferita ancora mi offende».
In un paese che riserva agli scommettitori sui cavalli l’immagine di traffichini un po’ pezzenti, ben raccontata da Steno nel film Febbre da cavallo, senza però quel carattere tragico dei personaggi col trench bucato di Bukowski, Allegri sembra un po’ vergognarsi di questa sua passione, ora che è un uomo di successo. Ne parla al passato in un’intervista del 2012: «Io nasco a Livorno, città dove si gioca, si scommette. Avevo una passione per giocare ai cavalli. Ma un conto è rischiare il proprio denaro, un altro è vendere o comprare le partite».
Possiamo presumere che a un certo punto Allegri abbia smesso di scommettere sui cavalli, forse, non lo sappiamo con certezza, ma quello che sappiamo è che l’ippica, i cavalli, il loro correre e soprattutto il suo scommetterci sia uno degli argomenti di conversazione preferiti dell’allenatore toscano. Proprio una scommessa su un cavallo è l’aneddoto che più ha portato alla ribalta questa sua passione.
È il 13 maggio 2018 e la Juventus ha appena vinto il suo settimo scudetto consecutivo grazie a un pareggio a Roma, contro la Roma. È la vittoria più sudata per Allegri, arrivata dopo un serrato confronto con il Napoli di Sarri, e nella conferenza stampa post-partita l’atmosfera è particolarmente rilassata. Un giornalista gli chiede di tornare indietro di dieci anni, di ipotizzare una risposta a chi gli avesse pronosticato tutti questi successi da allenatore. Allegri ha appena detto che se ne vuole andare al mare, a casa, staccare la spina.
Prima di rispondere si prende qualche secondo, guarda in alto verso sinistra, dove di solito guardiamo quando vogliamo ricordare qualcosa ed esordisce «e allora, e allora vi dico una cosa…», si sdraia sul gomito destro perfettamente a suo agio, «vi faccio un esempio di un caro amico che è mancato un anno e mezzo fa…» intervalla momenti in cui tiene la mano sotto il naso e altri in cui alza l’indice, come se fosse un accento, «che faceva l’allibratore dei cavalli, che io ho una passione per i cavalli», questa cosa che è una passione, Allegri la ripete sempre, come fosse una giustificazione a un comportamento altrimenti deprecabile; alza un’altra volta l’indice e continua «una volta andai a giocare un cavallo, ti parlo di quarant’anni fa e lui faceva l’allibratore. Si chiamava Minnesota». A nominare il cavallo “Minnesota” la faccia di Allegri si apre come una vecchia persiana, lasciando entrare il sole.
«Ed io andai là e gli dissi “voglio giocare Minnesota” e lui mi rispose “è più facile che tu alleni in serie A che vinca questo cavallo”». A questo punto noi sappiamo già come andrà a finire la storia, ma Allegri ci tiene davvero a metterci al corrente delle sue fortune da scommettitore: con l’indice puntato alla sua sinistra scandisce «vinse il cavallo» e subito dopo con l’indice che va invece a destra «ed io sono arrivato ad allenare in Serie A».
La veridicità della storia è dubbia (abbiamo provato a contattare l’ippodromo, ma senza successo) e neanche necessaria dopotutto. Il giornalista però – da giornalista – ci tiene a far notare l’incongruenza temporale: «Quindi tu a dieci anni scommettevi sui cavalli? Hai detto quaranta anni fa». A noi sembra ovvio che la storia, se accaduta davvero, vada inserita in un tempo diverso, magari al tempo in cui era appena diventato allenatore dell’Aglianese, perché già credere a un bambino di 10 anni con un proprio allibratore è difficile, ma addirittura ipotizzare che possa avergli predetto un futuro da allenatore di Serie A è semplicemente assurdo.
Eppure non lo è per Allegri, che può ricordare ancora una volta la sua storia preferita: «Sì, anche a cinque, perché andavo con mio nonno ai cavalli. Avevo cinque anni e andavo alle corse dei cavalli. Purtroppo ora l’ippica è andata in disarmo… e invece era tanto bello per i bambini, per le cose. A Livorno c’è una grande passione, ora hanno chiuso anche l’ippodromo, così non ci si può più andare. Però quel mio amico lì mi disse questa cosa qui».
La passione per i cavalli, oltre ad essere un modo in cui Allegri racconta se stesso, è entrata anche nel suo linguaggio da allenatore, specialmente da quando è alla Juventus. Ed effettivamente deve essere questa la sensazione che gli dà allenare una squadra estremamente fisica e predisposta alla disciplina, se anche Cuadrado intervenendo di soppiatto in una diretta di JTV dice «e adesso si corre come cavalli».
Sempre nella conferenza stampa successiva alla vittoria del suo quarto scudetto consecutivo, pungolato ancora dallo stesso giornalista sulle analogie tra cavalli e calciatori, Allegri risponde sicuro «molte», poi continua acuendo ulteriormente l’accento toscano: «infatti Benatia l’ho mandato al prato. Perché i cavalli dopo un po’ che vincono si mandano al prato a riposare». Non si capisce bene se – arrivati a quel punto – Allegri stia prendendo in giro il giornalista o se lo pensi per davvero. Quel che è certo è che Benatia, dopo essere stato titolare per tutta la stagione, è stato lasciato in panchina per le fondamentali partite contro Inter e Bologna.
La scelta di Allegri, di preferirgli Rugani e Barzagli, era sembrata un declassamento dovuto alle disattenzioni commesse contro il Napoli, dove in occasione del gol vittoria di Koulibaly che aveva ribaltato i rapporti di forza in campionato, si era perso la marcatura del senegalese, e Real Madrid, dove è lui a commettere il fallo da rigore su Vazquez (anche se qui le colpe sono da dividere tra più giocatori). Poi però Benatia era ricomparso nella finale di Coppa Italia, dove aveva segnato due gol, prima di accomodarsi nuovamente in panchina contro la Roma.
Nel mondo dell’ippica si dice mandare un cavallo al prato per due motivi: o perché si decide che è arrivato per lui il momento della pensione o per concedergli un po’ di tempo nel paddock, un’area all’esterno recintata dove il cavallo da corsa può sgranchirsi le gambe, mangiare un po’ d’erba e muoversi in uno spazio più largo per qualche ora.
Allegri deve averlo usato in questo senso, prendendo una metodologia di allenamento dei cavalli e applicandola a Benatia. Avendolo visto distratto, lo ha mandato al prato: come il cavallo ha bisogno di svagarsi un po’ rispetto a una routine fatta da allenamento, gare e vita nel box; un calciatore dopo tante partite e tante vittorie deve avere la possibilità di staccare un po’ la spina.
Non sappiamo se questo metodo abbia funzionato con Benatia, che però meno di un anno dopo se ne è andato al prato da solo, optando però per la pensione in Qatar (dove però non dovrebbe esserci molta erba).
Qualche mese dopo, nella conferenza stampa prima di Empoli-Juventus, Allegri ha risposto a chi gli chiedeva di Mandzukic e Khedira, dicendo semplicemente «Mandzukic è al prato, mentre Khedira sta uscendo dal prato», come se questo modo di dire fosse ormai entrato nell’uso comune.
Allegri è molto attento nella gestione fisica dei suoi calciatori. Difficilmente chi torna da un infortunio, più o meno lungo, riesce a trovare spazio nella formazione titolare da subito, anche a costo da preferirgli giocatori fuori ruolo. Una visione facilitata anche dalla profondità della rosa, che gli offre diverse soluzioni alternative. All’inizio di questa stagione abbiamo scoperto però che esiste una categoria di calciatori che non ha bisogno di rodaggio: i cavalli vecchi.
Nella conferenza stampa precedente la sfida in casa con il Bologna, ad Allegri chiedono di Barzagli, se è recuperato fisicamente dopo un infortunio che gli aveva fatto perdere la prima parte della stagione. Allegri che dopo quindici minuti di risposte va avanti col pilota automatico, risponde che «Barzagli è completamente recuperato e…» fa una pausa «può giocare dall’inizio» a questo punto Allegri incalza, una piccola scossa lo attraversa e tutto emozionato, quasi mangiandosi le parole continua «perché Barzagli… se no io faccio sempre l’esempio dei cavalli… i cavalli vecchi quando devan correre non c’è bisogno di tanto allenamento, si buttano in camp…», per un attimo Allegri confonde davvero Barzagli per un cavallo, un animale a cui basta lasciare le redini per vederlo correre, ma per rispetto deve correggersi: «si fanno e gli fanno fa la corsa e Barzagli ha fatto degli allenamenti giusti e può tranquillamente giocare».
Barzagli è uno dei pretoriani di Allegri, che pur avendone ridotto l’impiego nelle ultime stagioni, ne ha sempre elogiato l’impegno e la bravura (a margine della partita col Bologna ha detto «purtroppo Barzagli ha 37 anni, ma vi assicuro che è un giocatore di un’altra categoria»). Affermando che i cavalli vecchi non hanno bisogno di tanto allenamento, Allegri sottolinea l’importanza per un calciatore dell’esperienza e della capacità di “sentire” il proprio corpo, cosa che invece manca ai giovani calciatori, a cui Allegri non manca mai di lanciare qualche frecciata, come ad esempio a Kean, che ha 19 anni deve imparare tutto del calcio.
Per Allegri i cavalli sono come la madeleine di Proust: gli ricordano un tempo passato, se non migliore, più sereno. Citarli nelle interviste, trovare le analogie con i suoi calciatori, gli permette di allentare le pressioni enormi del suo lavoro, tornare con la mente al tempo dell’infanzia dei ricordi felici, che per Allegri sono strettamente legati ai cavalli, così tanto che voglio chiudere con un’ultima citazione dell’allenatore toscano in cui si parla di questi bellissimi animali e che forse spiega il tutto meglio di queste ventimila battute.
«Il mio primo ricordo di Natale da bambino? Non me lo ricordo, però ricordo una foto su un cavallo a dondolo, con me tutto biondino».
DALLA PAGINA TWITTER “LA MAGLIA BIANCONERA” DEL 18 MAGGIO 2024
Erano in tanti, tre anni fa, a pensare che se Allegri avesse accettato l’Inter (per sorvolare sulle altre opzioni), i nerazzurri avrebbero rivinto da subito, essendo una squadra già strutturata, da «gestire» nella maturità acquisita dopo lo stress contano, un po’ come avvenne nel 2014 con la Juve. Max invece scelse la Juve, dove aveva, paradossalmente, tutto da perdere.
La scelta di Andrea Agnelli sembrò una decisione «post Covid». Con la botta economica della pandemia, Agnelli diede l’impressione, personalmente parlando, di non voler più rischiare di non entrare in Champions dopo lo scampato pericolo con Pirlo, «salvato» da Faraoni. In quel momento storico contava troppo non fallire quell’obiettivo (lo scopriremo meglio negli anni successivi), e Allegri sembrava una certezza in merito: «Mi tolgo il pensiero dell’allenatore, mi garantisco l’entrata in UCL che in questi anni mi serve come il pane, e richiamo un tecnico vincente» (all’epoca rivoluto da tanti tifosi). Decisione poco comprensibile, però, quella di fargli quattro anni di contratto, invece di lavorare a una formula più malleabile. Ma tant’è!
Allegri probabilmente credette di ereditare una forza che non c’era già più, o comunque una squadra che poteva ancora contare su Ronaldo, vale a dire una trentina di gol stagionali d’ufficio. Due fattori che gli fecero proclamare, in estate, di puntare allo scudetto, come chi, con l’entusiasmo del ritorno a casa, non si rende ancora conto di quanto sia cambiato l’arredamento. E il pezzo più pregiato di quell’arredamento cambierà casa proprio negli ultimi giorni di mercato: via Ronaldo, dentro Kean (non esattamente la stessa cosa).
Da lì un inizio stentato, i gol che fanno fatica ad arrivare (Morata che ne sbaglia una vagonata), Chiesa che inizia in autunno con i primi infortuni, prima di culminare col crociato di gennaio. Ma dopo quell’inizio mediocre, e superato il girone di Champions, la Juve inizio in realtà a raccogliere risultati, ancora di più con l’arrivo di Vlahovic a fine gennaio, arrivando clamorosamente a giocarsi il rientro nella lotta scudetto nel big match contro l’Inter di aprile allo Stadium. Vincendo, la Juve avrebbe superato i nerazzurri, arrivando a due punti dal Milan che poi si laureerà campione. La Juve stradominerà la partita, giocandola alla grande, prendendo l’Inter a pallate, ma perdendola per gli episodi che ricordiamo tutti, una costante di quell’annata contro i nerazzurri (persa sia una Supercoppa al centoventesimo, stranamente giocata a San Siro, per un errore di Alex Sandro, ma con topiche arbitrali precedenti, sia la finale di Coppa Italia, con altre cialtronate assurde di arbitro e VAR). Sconfitta in quella partita, la Juve mollerà mentalmente. Non sarà l’unica volta che succederà. La vera delusione, a ogni modo, sarà l’eliminazione casalinga agli ottavi contro il Villarreal: in Spagna una buona ora di gioco, per poi abbassarsi e subire il pari. A Torino alcune occasioni sbagliate prima di un tracollo inaccettabile.
Come detto, la finale di Coppa Italia già citata, sancirà, col rigore per i nerazzurri (ancora assurdamente in undici contro undici) inventato a pochi minuti dalla fine, la chiusura della prima stagione.
L’inizio della seconda (anche questa sarà falcidiata dagli infortuni, su tutti Chiesa ancora sotto recupero dal crociato e Vlahovic in perenne pubalgia) sarà forse il peggior momento di Allegri in questo triennio. Perché se per i tre mesi di quest’anno può valere (ma non per un tempo così prolungato) la scusante dell’obiettivo venuto meno e del vantaggio sulla quinta, in quel caso eravamo a inizio stagione, a obiettivi aperti! Anche a livello comunicativo non sembrava lo stesso Allegri, con quell’intervista fantasma rilasciata a Sconcerti, che era già un primo segnale di sfogo. Inizio pessimo dunque, anche nella gestione dei giocatori (per sua stessa ammissione forzò tre volte il rientro di Di Maria dagli infortuni contro il parere dei medici, ammettendo poi l’errore, nonostante qualcuno pensi ancora che fosse Di Maria a trattenersi, quando di fatto rischiò di saltare il Mondiale per essersi messo a disposizione). Soprattutto, un girone di Champions indecoroso (nonostante la Juve abbia giocato le due migliori partite contro l’avversario più forte, il PSG), sfociato nella figuraccia col Maccabi. Ma proprio dopo il Maccabi sarà ancora Agnelli a dare una sferzata a tutta la Juve, parlando di vergogna, ma ribadendo la fiducia ad Allegri, che da quel momento sembrerà molto più tranquillo e a suo agio.
Difatti la Juve inizio a recuperare punti su punti con una serie di vittorie consecutive a cavallo del Mondiale, prima che i punti diventassero un optional «ceferiniano» col terremoto che conosciamo, l’assassinio sportivo di chi sappiamo, e una società totalmente ribaltata! Fuori Agnelli, Nedved, Arrivabene, tutti! Dentro una dirigenza «contabile», che, eccetto l’ultimo arrivato Giuntoli, fa fatica ancora oggi a far presa sui tifosi. Allegri, in pratica, rimane l’ultimo baluardo di vecchia Juve a difesa dei colori, vergognosamente calpestati ancora una volta da soggetti di ogni tipo: cariche istituzionali, procuratori odiatori e rei confessi, ex-groupies dell’Avvocato, eccetera. Quei mesi di guida su una nave in tempesta sono un merito assoluto, di quelli che restano, ne accrescono ancora di più la figura presso la tifoseria organizzata (che a queste cose tiene) e gli saranno riconosciuti anche da tanti nemici.
In Coppa Italia si esce in semifinale contro l’Inter, in uno scontro di aprile che sarà nuovamente una «sliding door». Alla gara di andata si arriva con Simone Inzaghi quasi esonerato. La Juve al novantesimo sta vincendo 1-0, ma una palla sfiorata da Bremer in area all’ultimo secondo varrà il rigore di un Lukaku in crisi, e il pandemonio mediatico che scaturì dagli insulti successivi (molto diverso rispetto ad altri casi analoghi). Da quel precise momento l’Inter risorge, chiude alla grande la stagione, arriva persino in finale di Champions, e su quella scia dominerà il campionato successivo. La Juve invece diventa quasi una squadra fantasma (perderà al ritorno senza quasi neppure giocare), provando a dare tutto nella rimanente Europa League, ma uscendo in semifinale contro l’inenarrabile buona stella del Siviglia in questa competizione.
La Juve chiude terza, e senza l’episodio più assurdo e inappellabile della storia del VAR (in Juve-Salernitana), sarebbe seconda, in un’annata in cui chiunque sarebbe crollato, qualsiasi squadra avrebbe mollato... ma l’ultima penalizzazione (arrivata a un quarto d’ora dal fischio d’inizio di Empoli-Juve) la priva dell’ingresso nelle coppe, come da volontà di Ceferin, anticipataci più volte dal primo quotidiano sportivo nazionale!
E infine l’ultima stagione, che inizia con due defezioni «tafazziane» (doping di Pogba e squalifica per scommesse di Fagioli) che minano definitivamente i1 centrocampo. Campionato a due facce, con un girone di andata a ritmo scudetto (a cui, francamente, si continuava a fare fatica a credere), un gennaio scintillante, per poi crollare dopo il pareggio interno con l’Empoli in dieci contro undici e la sconfitta di San Siro (alibi ammesso anche dai giocatori, che però può giustificare forse un mese di risultati mediocri, non per tre e mezzo di pessimi, giocati a un ritmo punti da provinciale). La Juve da lì è sembrata proprio un’altra squadra. Non che prima rubasse l’occhio, ovviamente, ma era difficilissimo tirarle in porta, mentre adesso è fin troppo semplice. Prima non giocava «bello», ma faceva il suo «bene». Ora non fa bene nemmeno il suo. Questo accresce sempre più l’impazienza dei tifosi, che non vedono gioco (da tanto tempo), né voglia, cattiveria (salvo in un paio di big match), e assistono ad alcune scelte poco comprensibili e sempre conservative (senza contare alcuni commentatori che fino a prima di Juve-Empoli parlavano di un «Allegri credibile quest’anno», e che al primo passo falso hanno vomitato di tutto). Da rimarcare però come questa sia una Juve con pochi giocatori veramente rappresentativi, pochi sopra un certo standard, con lo storico nucleo italiano molto decimato, con pochissimi leader, con tantissimi giovani spesso provenienti dalla Next-Gen, quindi da un campionato di Serie C, e ancora poca personalità.
A ogni modo i piani della società indicavano la qualificazione in Champions e la finale di Coppa Italia, e i piani, nonostante tre mesi e mezzo assolutamente pessimi, sono stati rispettati, vincendo la finale da sfavoriti.
Ma in quei minuti finali (e nel post) è saltato quel tappo che già precedentemente aveva mandato segnali chiari. Le divergenze con la società, il silenzio della stessa di fronte ad alcuni torti molto pesanti (un modo di fare «silenzioso» che è da valutare per il futuro, perché di porgere l’altra guancia gli juventini si sono stufati), la diversità di vedute sul mercato di gennaio, l’essere stato esautorato (nei fatti) a febbraio, attraverso spifferi, voci di corridoio, rivelazioni altrui (mai accertate), forse anche quel suo sentirsi immagine della Juve stessa (più volte si è discusso su un suo futuro da dirigente), sfociate nella reazione contro arbitro e designatore (per un arbitraggio da sicari) che ha infiammato la quasi totalità del tifo, ma soprattutto contro dirigenza (e qui non puoi mai pensare di vietare a un dirigente di scendere in campo, o decidere di allontanare il tuo capo) e giornalisti (a più riprese), segnano un punto di non ritorno.
Una coppa vinta, con relativi record, ma con una post che non rende merito né ad Allegri (per quanto sia possibile essere comprensivi verso la sua «solitudine» societaria), né alla stessa società, che chiude i rapporti con un comunicato troppo freddo e troppo duro (almeno per chi vede le cose dall’esterno), forse unico nella storia, senza un grazie, parlando di «finale» e non di Coppa Italia vinta, che forse ci fa capire che in questo film ci sono tante cose irrisolte che non conosciamo, di cui lo sfogo post finale di Coppa Italia è solo un fotogramma.
Un susseguirsi di eventi pressocchè unici per qualsiasi altro club (in un tempo così ristretto) defluiti in una polveriera di emozioni trattenute e incomprensioni mai sopite, che affondano le radici negli anni addietro, quando qualcuno trasformo l’«allegrismo» in uno scontro ideologico senza limiti, e proseguite navigando in ogni genere di mare, compreso quello in tempesta.
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