Da quando la Coppa Italia venne istituita, cioè dal 1922 – scrive Dante Grassi su “Hurrà Juventus ” dell'ottobre 1979 – nelle trentuno edizioni che seguirono la Juventus ha fatto naturalmente la parte del leone aggiudicandosene ben sei, vale a dire una percentuale dell’ordine del 19,35. In campionato, e lo aggiungo per gli amanti delle statistiche, la Juventus, nettamente al vertice con i suoi diciotto scudetti su settantasei tornei finora disputati, ha fatto ancora di meglio in quanto la percentuale di successi sale all’incredibile quota di 23,68.
Il perché sono partito dalla Coppa Italia per arrivare poi a parlarvi di Riza Lushta è facilmente spiegabile. Proprio il simpatico attaccante di una romantica Juventus degli anni Quaranta fu infatti, come vedremo, uno dei principali artefici del successo (il secondo della serie) conseguito dalla compagine torinese nella coppa di casa nostra, manifestazione che dal 1960 ha ottenuto una valorizzazione internazionale in virtù della Coppa delle Coppe a cui è collegata.
Innanzitutto Riza Lushta, che trovo al circolo di Galleria San Federico, tiene a precisarmi com’egli non sia affatto di origine albanese, come invece si era sempre pensato, bensì soltanto proveniente dall’Albania, dove ancora nel 1939 figurava nei ranghi dello Sport Club Tirana prima di approdare al Bari. E con lui in quel Club militava un altro elemento molto noto ai calciofili di un tempo, cioè quel Krieziu che nelle file della Roma doveva contribuire al conseguimento del primo e finora unico scudetto della formazione capitolina.
Ma allora, di dov’è esattamente? Chiedo a Lushta: «Sono jugoslavo, nativo esattamente di Mitroca, e da bambino i miei mi portarono in Albania e di qui è sorto l’equivoco. Pensi che anche Krieziu si diceva fosse albanese e invece anche lui, come il sottoscritto, era originario della Jugoslavia. A Tirana frequentai sino al quarto anno di agricoltura ma la passione per il calcio era al di sopra di ogni cosa, così andai allo Sport Club dove ebbi la fortuna di trovare un ottimo allenatore di scuola ungherese. Poi un amico italiano un giorno vedendomi giocare mi disse: “perché non vieni in Italia a provare?” Cosa che feci quasi subito e finii al Bari».
Lushta porta con disinvoltura i suoi sessantatré anni; ha conservato, mi dicono quanti lo conobbero allora, la stessa carica di simpatia, quel pizzico di passionalità mediterranea, la loquacità nel discorrere. È il giramondo per eccellenza, ma ha finito col fare ritorno proprio in quella Torino, dove prese avvio tanti anni or sono la sua notorietà: «Sono qui per godermi un poco di tranquillità, diciamo la pensione – soggiunge con una punta di ironia – ma quanto viaggiare! Dopo la Juve, infatti, andai al Napoli, all’Alessandria quindi in Francia, a Cannes, tre stagioni in serie A. Poi gli Stati Uniti ma non più come calciatore bensì per lavoro nel settore degli ascensori, Quando tre anni fa decisi dl rientrare fu naturale per me fermarmi definitivamente in questa città che sento mia».
Così ha ripreso i contatti con la sua vecchia società, l’ambiente di allora: «Sì, ma semplicemente come tifoso e credo di essere tra i più appassionati. Mi agito anche troppo. Per questo doso le mie presenze allo stadio».
L’occasione per rinfrescare i ricordi allacciando il presente al passato: «Certo che la Juventus di soddisfazioni sa offrirtene a getto continuo; ma, e so anche il perché, è stata immensa la mia gioia quando l’ho vista alla TV la sera in cui ha conquistato la sua sesta Coppa Italia battendo il Palermo nei supplementari. Al goal di Causio per me è stato un ritornare indietro di qualcosa come trentasette anni, pensi che bello! Quando vincemmo noi la Coppa, lo rammento bene, eravamo nel giugno del 1942 e non ci fu molto da soffrire. Eravamo, infatti, in vantaggio di quattro reti quando per il Milan Boffi realizzò il goal della bandiera. Segnai tre volte io, quindi Ciccio Sentimenti su rigore. Ah, che giornata!»
Lushta, pur non essendo centravanti di ruolo, se la cavava molto bene con la maglia numero nove sulla schiena, considerato che dopo la sua prima stagione in bianconero quale mezzo sinistro (nove reti) a fianco di Gabetto (sedici), successivamente (1941-42) passò stabile al centro dell’attacco per il fallimento del sudamericano Banfi successore di Gabetto: «Fu quella una stagione positiva per il sottoscritto, anche se finimmo al sesto posto; con sedici reti fui il cannoniere bianconero numero uno ed anche nel mio terzo e ultimo campionato nella Juventus risultati all’altezza della situazione con diciassette reti, due solo in meno di Sentimenti III. Poi l’interruzione bellica».
Come giunse alla Juventus? «Fu un caso fortunato. Io ero nel Bari. Nel maggio del 1940 affrontammo la Juventus e vincemmo per 2-1 e la prima rete per i pugliesi fu mia. Borel II, Farfallino, quel giorno era in tribuna, mi ha seguito con attenzione caldeggiando in seguito il mio ingaggio. Anche il Venezia e la Fiorentina mi volevano ma a spuntarla infine fu il presidente di allora il Conte De la Forest».
E da quel giorno la sua vita si legò allo “Zebrone”: «Sì, mi è subito piaciuta la Juventus, come società, come stile».
Allora si giocava col metodo; quale era il suo compito in quella squadra? «Come già ho detto ero mezzo sinistro ma non mi limitavo a correre e portare palloni. Avevo, infatti, un buon senso della rete che si affinò avendo a fianco elementi della levatura di un Meazza, Borel, Sentimenti III, Locatelli. E prima ancora Colaussi e Gabetto. E con quella difesa che ti trovavi alle spalle era naturale puntare in avanti. Elementi come Parola erano eccezionali. Tutta grande sul piano puramente tecnico quella Juventus ricca di fuoriclasse, se pur la maggior parte avviati oramai sul viale del tramonto. Borel II, Meazza, Colaussi, ad esempio, non erano più quelli di qualche stagione prima. Fu invece un grosso sbaglio la cessione di Gabetto, questo sì. Lui scattava bene, faceva i goal difficili».
E lei? «lo ero più tecnico. Anche allora si giocava duro, però si poteva godere di una maggiore libertà d’azione. Se dovessi trovarmi oggi in un’area di rigore col gioco così stretto è certo che non farei bella figura».
Lasciamoci il passato alle spalle veniamo al dopoguerra. Di grandi Juventus ne abbiamo ammirate almeno tre. Di queste quale collocherebbe al primo posto? «Non possono esserci dubbi, la squadra degli anni Cinquanta. Era uno spettacolo, da Praest a Boniperti, da John Hansen a Martino e Muccinelli. Non ho molto in mente quella che seguì dei Charles e dei Sivori ma non può esserle superiore».
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