venerdì 19 gennaio 2024

Claudio MARCHISIO


«Mille pensieri e mille immagini mi hanno accompagnato per tutta la notte. Non riesco a smettere di guardare questa fotografia e queste strisce su cui ho scritto la mia vita di uomo e di calciatore. Amo questa maglia al punto che, nonostante tutto, sono convinto che il bene della squadra venga prima. Sempre. In una giornata dura come questa, mi aggrappo forte a questo principio. Siete la parte più bella di questa meravigliosa storia, per questo motivo tra qualche giorno ci saluteremo in modo speciale. D’altronde l’8 non è altro che un infinito che ha alzato lo sguardo».

FABIO ELLENA, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL DICEMBRE-GENNAIO 2007
Ha appena mosso i primi (splendidi) passi nel calcio che conta. Eppure Claudio Marchisio ha già fatto 13! Sì, 13 anni di militanza nella Juventus. Un dato straordinario, se si pensa che il giovane centrocampista di Andezeno (a due passi da Chieri, sulla collina torinese) non spegnerà le 21 candeline prima del prossimo gennaio. Eppure, la sua, sembra la storia di un predestinato. Basta farsela raccontare.
«La mia famiglia è sempre stata juventina ed io lo sono in pratica da quando sono nato. Quando a 7 anni sono entrato nella Scuola Calcio e ho potuto indossare la maglia bianconera è già stato il coronamento di un piccolo sogno. Ricordo ancora la prima volta che sono andato allo stadio Delle Alpi, nel 1994, era il famoso Juventus-Fiorentina vinto 3-2 grazie al fantastico gol al volo di Del Piero, il mio idolo da sempre. Figurarsi cosa vuol dire per me, oggi, dividere con lui lo stesso spogliatoio e aver esordito in prima squadra nel giorno della sua festa per il 200° gol!».
La macchina dei ricordi torna in fretta al presente. Ai tempi nostri. Al 28 ottobre, per la precisione. Giorno in cui per Marchisio arriva il debutto. All’Olimpico sale il Frosinone. È un incontro che passerà alla storia, proprio per il 200° sigillo bianconero di Alessandro Del Piero. Claudio è a bordo campo quando il capitano mette dentro il gol partita e pochi minuti dopo arriva il suo turno. In campo al posto di un altro mostro sacro juventino: David Trezeguet.
«Devo ammettere che ero molto emozionato prima di scendere in campo. Al contrario della sfida con il Brescia, benché fosse un’altra giornata speciale per tutti considerata la grande festa per i 109 anni della Juventus e per la caratura degli ospiti presenti in tribuna. Eppure ero tranquillo, forse perché ero preparato al fatto di giocare fin dall’inizio. Il mister è stato molto bravo a tranquillizzarmi e così anche i miei compagni che mi hanno aiutato durante tutto l’incontro. In particolare Matteo Paro, per me è stato un po’ come un fratello maggiore».
E l’autorità con la quale il ragazzo ha affrontato il match contro i lombardi è stata una delle note liete. Autorità e personalità bissate poi anche nella grande sfida del San Paolo con il Napoli: 70mila persone e non accorgersene. Doti che gli esperti della Primavera juventina conoscevano bene e che ben presto sono diventate di dominio pubblico.
«Non è da molto che gioco nel ruolo di centrocampista centrale. Nei miei primi anni nelle Giovanili, giocavo come seconda punta. Poi, nell’annata con i Giovanissimi Regionali, mister Maurizio Schincaglia tentò di arretrarmi durante un’amichevole di metà settimana. L’esperimento riuscì e da allora non ho più cambiato. Anzi, credo che sia stata la mia fortuna».
Una fortuna, vero. Ma in sostanza l’occasione sfruttata al meglio. E adesso per Claudio Marchisio si stanno spalancando le porte del futuro. Un futuro che significa stagione 2006/07, quella in corso, ma anche quelle prossime. Una cosa è certa: il giovanotto ha le idee chiare.
«Per quest’anno l’obiettivo è quello di crescere, soprattutto fisicamente, e di imparare il più possibile. Gioco a fianco di gente molto esperta come Giannichedda e Zanetti che mi riempiono di consigli. Senza dimenticare che come allenatore ho Didier Deschamps, uno dei centrocampisti più forti di tutti i tempi. Dovrò essere bravo a farmi trovare sempre pronto e sfruttare tutte le occasioni che mi verranno concesse. Cosa accadrà alla fine di questa stagione? Il mio sogno è quello di restare qui alla Juventus. Indosso questa maglia da 13 anni, ormai è una seconda pelle».

CATERINA BAFFONI, DA TUTTOJUVE DEL 18 AGOSTO 2018
Dopo 25 anni, entrato nel vivaio bianconero a sette. Il ragazzo che ha incarnato l’essenza di essere juventino realizzando il sogno di un bambino: giocare e vincere con la propria squadra del suo cuore. 
“Tutto ciò che sono, tutto ciò che voglio.”
Dovessi racchiudere in una frase quel che rappresenti e abbia rappresentato la Juventus per Marchisio e viceversa, probabilmente userei questa sua stessa dichiarazione.
Due colori. Una vita calcistica. Un cuore sotto un’unica maglia. Ed è per quella maglia, e per tutto ciò che ne ha simboleggiato, che l’otto bianconero ha deciso di battersi e lottare dimostrando al mondo cosa voglia dire essere parte della Juventus. È difficile, terribilmente difficile scandire e trovare le giuste parole per descrivere la fine di un rapporto calcistico intriso di amore e vivida passione tra una bandiera e la propria squadra. A maggior ragione, se del “cuore”. 
Una favola lunga 25 anni e che lo ha visto entrare di diritto nel vivaio bianconero a soli sette primavere. Il ragazzo che ha incarnato l’essenza dell’essere juventino realizzando il suo personalissimo sogno: giocare e vincere con la propria squadra del cuore. 
Dopo Buffon, l’ultimo baluardo di un calcio romantico, ormai in via d’estinzione.
Alcuni dicono che sia un limite il fatto di non aver mai cambiato squadra. In realtà si tratta di un pregio che pochi al mondo si possono permettere o quanto meno comprendere. Si tratta di una scelta di vita. Una scelta d’amore.
Sì, perché anche quella di lasciare è stata una sua “scelta”, condivisibile o criticabile, palesemente dettata dal suo amore viscerale, che lo ha sempre legato a Madama e alla quale ne riconosce il bene primario. Sopra tutto e tutti. Successi conquistati sul campo da tifoso che non possono essere paragonabili ad altri calciatori. È questa la sua più grande vittoria, che può sembrare misera agli occhi di chi è abituato a veder cambiare maglia abitudinariamente; ma per chi ama il calcio, sa perfettamente che non è così.
Cosa diremo del Marchisio in bianconero, “c’era una volta”? Beh, no. Con lui c’è stato e si è rinnovato quel senso di appartenenza a due colori, quello della “bandiera” nel variopinto mondo del calcio. Il giocatore che ha scelto di legare la propria carriera, la propria essenza e la propria immagine a una sola squadra. Riuscendovi alla perfezione.
Claudio Marchisio, un simbolo che ha saputo resistere al richiamo del denaro e della gloria esercitata nel recente passato da club prestigiosi.
Esempio di fedeltà, ma di quella fedeltà che va premiata e portata a mo’ d’esempio, da illustrare e tramandare alle varie generazioni. Quella di chi è stato capace di resiste alle tentazioni e di prosegue il cammino intrapreso sin da bambino, a partire dal settore giovanile bianconero, con chi l’ha fatto crescere e diventare un campione. Dentro e fuori dal campo.
Nei contorni della nostra vita si sa, il calcio rappresenta un orlo pazzesco perché sa cucire ricordi, emozioni e affinare i pensieri. E il Principino, tutto questo, ha saputo descriverlo in modo pazzesco racchiudendo in ogni suo singolo gesto cosa e chi sia stato l’uomo, quindi il calciatore juventino. Ha dato tutto, per questa maglia. L’ha amata, tanto. Ha pianto e gioito per lei. L’ha onorata, sempre. Ma soprattutto l’ha sognata da bambino, un po’ come tutti. Eppure, la differenza è che Claudio, quella fantasia, ha saputo sostituirla con un pezzo importante di esistenza e tramutarla così in realtà.
25 anni, come condensarli in poche righe? Come racchiuderli in una notte, la notte più lunga di Claudio Marchisio, la notte prima dell’addio alla Juventus. E il comportamento dentro e fuori dal campo, lo stile non soltanto di gioco, gli attestati di stima e la sua storia...
25 anni di amore, di una maglia diventata una prima pelle e non una seconda: Marchisio e la Juventus, una delle ultime storie romantiche del calcio. Un amor cortese che ricorda le liriche e i romanzi cavallereschi e medievali, laddove la donna era messa al di sopra di tutto: un po’ come Madama e quindi la “sua” maglia bianconera.
“Il bene della maglia”, un concetto sempre più desueto di cui Marchisio si fa baluardo, rendendosi conto che in questa Juventus che viaggia veloce proiettata verso il futuro, posto per lui non ce ne sarebbe più stato. Colpa, probabilmente, di quel maledetto infortunio al ginocchio che ha deviato e indirizzato da un’altra parte la sua carriera e dal quale non si è più del tutto ripreso. E questo conta, perché la Juventus ha conosciuto il miglior Marchisio e il miglior Marchisio, oggi, non può essere aspettato da una Juventus proiettata in un’altra epoca, già nel futuro.
Ed è proprio lui a dettare legge, il tempo, oggi tiranno, freddo sovrano, ma per 25 anni dolce, favoloso e custode di un romanzo, quello tra il numero 8 e la sua Signora, giunto alla fine. Una fine probabilmente (si spera) provvisoria, perché certe strade sono destinate sempre a ricongiungersi: fianco a fianco per tutte queste stagioni, dai primi calci al pallone di quel bimbo biondo dagli occhi di ghiaccio e smilzo che quasi si perdeva dentro la larga maglia col colletto e a maniche lunghe della Vecchia Signora. Fino agli anni e alle vittorie con la Primavera e il debutto in prima squadra in una stagione che non può essere considerata normale, quella della Serie B, da cui paradossalmente tutto ebbe iniziato.
Sì, perché Marchisio ha saputo reinventarsi, costruirsi, rinnovarsi e resistere alla selezione naturale, conquistandosi un posto negli anni non indimenticabili post risalita in A, dei quali ne ha rappresentato una rara nota lieta: il primo gol su assist di Del Piero, con il 19 ancora sulle spalle, è un primo segno del destino. Ne arriveranno altri, splendidi ma non legati a delle vittorie, come quelli contro l’Inter o l’Udinese, con il numero 8, invece. Con quell’infinito che ha alzato lo sguardo.
Poi l’inizio di una nuova era e Marchisio ne è uno degli attori decisamente protagonisti. Gli anni di Conte, che coincidono con prestazioni esaltanti e prolifiche: adesso i gol contano e portano trofei, e lui è lì pronto a formare con Pirlo, Vidal e Pogba uno dei centrocampi più forti della storia bianconera: lui è quella mezzala scheggiata, che si inserisce e copre gli spazi. Imprescindibile per il futuro CT, anche negli anni di Allegri Marchisio conserva la sua importanza: complice l’addio di Pirlo, arretra il suo raggio d’azione e mette al servizio dei compagni non più l’esplosività dei primi anni, ma una sapienza tattica e un’intelligenza superiore rispetto agli altri. E nel frattempo, si erge sempre più a simbolo della Juventus: dentro e fuori dal campo, senza mai un comportamento fuori dalle righe o una parola inopportuna fuori posto. Lui, che ha rappresentato a pieno il DNA bianconero. Colui il quale i tifosi ne hanno sempre identificato lo stile Juventus, perfettamente rappresentato dal Principino italiano, piemontese e soprattutto juventino.
Poi il crack, di quel fatidico pomeriggio in un insolito Aprile del 2016: nel mentre di un risultato acquisito contro il Palermo, non si rompe solo il ginocchio di Claudio, ma probabilmente anche un equilibrio fin lì perfetto. La Juventus lo aspetta, lo ritiene ancora importante, ma il ruolo (in campo) di Marchisio è destinato a perdere di grado e centralità per una Juve che non può aspettare e sempre più proiettata nel futuro. Il percorso di ripresa infatti è lento e le ricadute non mancano. Ciononostante Marchisio resta lì, a lottare anche dalle retrovie e a sfruttare le poche occasioni che gli vengono concesse. È lui l’uomo spogliatoio. Il collante fisso tra passato, presente e futuro.
Eppure, tra lacrime, i sorrisi e le esultanze in un palcoscenico che sia stato l’Allianz Stadium in una notte di Champions o un polveroso campo di provincia, dopo una sfrenata corsa tra bambini, per Marchisio e i suoi tifosi poco importa. L’amore ha varie sfumature e questo è stato capace di racchiudersi in un abbraccio indissolubile tra lui e il suo popolo bianconero.
La fascia di capitano l’ha indossata poche volte, quando i mostri sacri davanti a lui riposavano o non erano a disposizione. Ma Marchisio capitano della Juventus lo è stato da sempre, non ha avuto la necessità di simboleggiarlo con un pezzo di stoffa al braccio. Lo è stato da dentro. Sì, perché discende dagli Scirea e dai Del Piero, da chi ha cucito nella pelle il senso della Juventinità.
E posso assicurarvi che Marchisio è stato molto di più di un semplice calciatore con la fascia sul braccio. Probabilmente il suo numero, da egli stesso definito come “un otto sdraiato che guarda l’infinito” più si avvicina all’esaustività. A quell’ideale di perfezione che non esiste ma a cui ne viene data la testimonianza. Perché il pallone, e soprattutto la passione che muove i suoi tifosi, contempla dinamiche ben lontane dall’essere definitivamente esplorate. “Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”, chiosava Pier Paolo Pasolini. Ecco, si badi bene, è proprio la parte sacra che qui si vuol prendere in considerazione, ché di eventi profani  le cronache calcistiche ne sono fin troppo piene. 
Marchisio ha saputo dunque creare qualcosa di più col suo popolo, qualcosa capace di andare oltre il semplice “tifo” e rapporto passionale. Ha saputo creare quel qualcosa che si scorge solo se sei con gli occhi chiusi, seduto sugli spalti dello stadio della tua squadra del cuore, in cui non puoi soltanto osservare le magie dei tuoi beniamini, ma può “sentirle”. “Non si vede bene che col cuore”: ha spiegato così il suo segreto, il Piccolo Principe. Perché nel calcio l’essenziale è invisibile agli occhi. E chiamiamolo “caso”, o “destino” come volete, ma lui, proprio lui, nominato da sempre e per sempre “il Principino” ha saputo creare e trasmettere tutto questo.
Strano a dirsi in un’epoca in cui l’immagine e la spettacolarizzazione la fanno da padrone. Ma sono le emozioni quelle che contano. E quelle che restano. Nonostante tutto.  
E dunque siamo “noi”, tifosi e narratori di calcio che dobbiamo unirci magari proprio così “a occhi chiusi” in un doveroso “grazie” a Claudio Marchisio per averci saputo regalare questa sensazione, questa emozione. Eterna e di rara contemplazione. Per questo legame indissolubile e viscerale che ha saputo coltivare e donare a un intero popolo.
La parte vera, quella pura e nobile. Quella che si sente a occhi chiusi. Quella senza tempo. Senza addii. 
Quella intramontabile: come la storia tra la Juventus e Claudio Marchisio.
GRAZIE, PRINCIPINO.

ALEX CAMPANELLI, DA JUVENTIBUS DEL 17 AGOSTO 2018
Ci eravamo abituati a vederlo fuori dall’11 titolare, avevamo iniziato a escluderlo dai campetti estivi e dalle probabili formazioni prima dei big match, praticamente nessuno di noi pensava fino in fondo che sarebbe tornato a essere un uomo importante per la Juventus. Eppure, la notizia dell’addio di Claudio Marchisio non può lasciare indifferente neanche il più pragmatico e realista degli juventini. Marchisio risveglia la nostra parte più vulnerabile e irrazionale, più umana e bambina insieme, Claudio è quella ragazza che pensavi che ormai ti fosse indifferente ma di colpo, quando sai che non la rivedrai più, ti rigetta spietatamente in un passato che non hai mai dimenticato.
C’era Marchisio nell’annus horribilis della Serie B, unico dei giovani saliti alla ribalta nel campionato cadetto ad aver resistito nella rosa bianconera fino ad oggi, e unico, con buona pace di De Ceglie e Giovinco, a essersi dimostrato un calciatore da Juventus a qualsiasi livello, dai settimi posti agli scudetti e alle finali di Champions League.
C’era Marchisio in quel preliminare con l’Artmedia Bratislava, in quel Juventus-Fiorentina che lo vide segnare il primo gol in Serie A su geniale palla del Capitano, un Marchisio giovanissimo con un anonimo numero 19 sulle spalle, il cui sorriso rivive in video pieni di pixel che sembrano appartenere alla preistoria.
C’era Marchisio negli anni di Ferrara, Zaccheroni e Delneri, c’era un Marchisio già pronto a sacrificarsi per i compagni, da falso esterno di centrocampo per permettere a Krasic (...) di sprigionare la sua corsa sul versante opposto.
C’era Marchisio a cercare di strapparci un sorriso in quegli anni nerissimi, con la sua voglia di spaccare il mondo e con colpi mai dimenticati come la rovesciata all’Udinese, unico lampo nell’ennesima serata da dimenticare.
C’era Marchisio alla guida della prima Juventus di Conte, anche qui messo in dubbio dagli arrivi di Pirlo e Vidal, anche qui decisivo dall’inizio alla fine, killer implacabile delle milanesi, uomo simbolo della rinascita bianconera, volto nuovo di una Juve costruita a immagine e somiglianza del tecnico, su quei principi cardine di sacrificio, unità e senso di appartenenza che Claudio, ora con uno scintillante numero 8 sulla schiena, incarnava meglio di chiunque altro.
C’era Marchisio anche nei trionfi degli anni seguenti: nonostante gli infortuni, l’esplosione di Pogba, le difficoltà nel recuperare la condizione e un’asticella sempre più alta, lì in mezzo al campo c’era sempre lui, slittando pian piano da mezzala a regista, intelligente e fondamentale nel rendere indolore il lento tramontare di Pirlo. C’era Marchisio sempre in campo, e a volte ce ne scordiamo, nella Juve finalista di Champions contro il Barcellona, vero tassello imprescindibile e multiuso del rombo della nuova Juve di Allegri.
Poi pian piano Marchisio c’è stato sempre meno; l’infortunio dell’aprile 2016 ne ha di fatto consegnato anzitempo agli archivi la carriera in bianconero, alle ricadute sono seguiti ritorni sempre applauditissimi e colmi di speranza, ma settimana dopo settimana sempre un po’ meno convinti. Nonostante le esclusioni sempre più frequenti ne preannunciassero di fatto l’addio, la notizia della rescissione resta un fulmine a ciel sereno.
Dopo 389 presenze e 37 reti da professionista, da sommare a tutte le gare giocate nel settore giovanile, dopo 25 anni complessivi in bianconero, Marchisio lascia la Juventus; con lui se ne va la piccola parte di noi che non vuol smettere di credere alle bandiere, che nonostante tutta la retorica spicciola e stucchevole legata all’amore per la maglia e ai giocatori simbolo, esiste e resiste ancora.
L’addio di Marchisio è l’addio dell’ultimo erede di una dinastia di Uomini, sommariamente riuniti in quello che una volta eravamo soliti chiamare “Stile Juve”, ora divenuto poco più di un cliché, di campioni veramente pronti a mettere prima il collettivo, la squadra e la società rispetto all’interesse personale, di individui capaci di prendersi in carico responsabilità altrui, di fungere da parafulmine, di abbassare i toni e spegnere le polemiche anche quando avrebbero avuto tutto il diritto di alzare la voce. L’ultimo erede di una dinastia che inizia chissà dove e termina con Del Piero e con lui, con buona pace degli altri grandissimi che hanno vestito la maglia bianconera ma che, per un motivo o per l’altro, non possiamo riunire in tale categoria.
In bocca al lupo Claudio, qualsiasi strada tu scelga di intraprendere.

«Ho passato gli ultimi 25 anni della mia vita ad immaginare quello che sarei voluto diventare e i sogni che avrei voluto realizzare insieme alla Juventus, ma non c’è stato un solo attimo durante il quale ho pensato che avrei dovuto vivere un momento come questo. A prescindere da quello che saranno le prossime tappe della mia vita, professionale e non, sarebbe inutile e scorretto nascondere che il mio cuore e il mio DNA hanno e avranno sempre e solo due colori. Ho indossato per la prima volta la maglia della Juventus all’età di 7 anni e da quel momento non l’ho mai tolta, neanche per un istante. Sono cresciuto con la sua filosofia e ho cercato prima di assorbirla e poi di esserne ambasciatore, sia sul campo che nella vita di tutti i giorni.
Si dice che alla Juventus: “Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”. Dietro questa frase, all’apparenza così semplice ma così amata da noi tifosi (sì perché anche se continua a sembrarmi impossibile, oggi io sono questo), detto dal Presidente Giampiero Boniperti, si cela il significato più profondo del nostro modo di vivere.
Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta.
Quando un bambino con un sogno, un bambino fra tanti. Sai che per quella maglia dovrai essere il migliore. Sempre. 
Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta.
Quando cresci, quando il tuo sogno dietro la collina è quasi realtà, ma non ti monti la testa e lavori duro all’ombra dei tuoi idoli di sempre. E dai il meglio di te ogni giorno, per quella maglia, perché quelle strisce una volta cucite addosso sono orgoglio, gioia e responsabilità.
Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta.
Quando quegli idoli diventano finalmente i tuoi compagni e devi essere più forte delle gambe che tremano all’idea di entrare in campo in fila indiana, come uno di loro, in mezzo a loro. Del Piero, Nedved, Buffon, Trezeguet, Camoranesi e tutti gli altri. Perché ognuno sa che, per onorare questa maglia, deve fare la propria parte. E questo discorso non vale solo per noi calciatori ma anche per ogni singolo tifoso. La Juventus vince perché è più forte in campo e fuori.
Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta.
Quando tieni fede al patto con te stesso di fare tutto il possibile per non deludere mai quei tifosi, i più fedeli, i più sinceri, i migliori che ci possano essere al mondo».

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