David Andrew Platt – scrive Maurizio Crosetti su “Hurrà Juventus” del luglio/agosto 1992 – è il tredicesimo juventino di madrelingua inglese ed è costato tredici miliardi: Giampiero Boniperti, da sempre attento a cabala e scaramanzia, ha deciso che quello sarà un numero fortunato. Del resto era scritto che Platt sarebbe arrivato a Torino, lo era da oltre un anno. Da quando, cioè, il Bari specificò sul contratto del giocatore che in caso di cessione sarebbe stata interpellata subito la Juventus. Trattativa complessa ma abbastanza scontata: alla fine Trapattoni ha avuto il giocatore dinamico ed eclettico che cercava.
È già scattato il meccanismo della suggestione, del paragone È inevitabile. E Platt è diventato «il Tardelli di Chadderton»: simile forza agonistica, simile rapidità di esecuzione. «Sono nato attaccante» dice lui, in un italiano «rodato» dall’anno trascorso a Bari «e il gol rimane la componente del calcio che preferisco. Però so adattarmi a ogni circostanza e mi ritengo valido anche in fase di copertura. Il raffronto con Tardelli mi lusinga: è stato un grande campione, magari la mia carriera potesse davvero assomigliare alla sua».
Platt ammirò Tardelli dal vivo, nove anni fa: «Ricordo come fosse oggi la magnifica Juventus che nell’83, in Coppa dei Campioni, venne a vincere a Birmingham contro l’Aston Villa. Reti di Rossi e Boniek, e di Cowans per noi. Posso dire che da quella sera ho sognato i colori bianconeri».
Fascino di un ricordo. Ma se la fine della storia è facile, comoda e piacevole, non altrettanto si può dire degli inizi. Perché Platt ha fatto parecchia fatica per sfondare, per convincere i più scettici che il suo fisico non proprio mastodontico poteva produrre un campione. «Ha i muscoli e il cervello di un criceto», scrisse un giornale britannico. E in maniera non troppo dissimile la pensava l’allenatore Ron Atkinson. Fu proprio quel tecnico rude a convincere David che il Manchester United non avrebbe mai puntato su di lui. E difatti il neo-juventino verme dirottato in quarta serie, nel Crewe Alexandra: sembrava la fine, invece era l’inizio. In quella specie di jungla agonistica, Platt imparo a lottare e non solo in campo. Fino ad allora, la vita non gli aveva negato nulla: una famiglia ricca, l’autista per la scuola, la governante brasiliana. Diciott’anni comodi e piacevoli, vissuti tra campi di calcio e scuola: e sui libri andava forte, Andrew, tanto da essere considerato quasi un latinista in erba.
Il Crewe Alexandra gli regalò le prime vere soddisfazioni: 127 partite di campionato, 65 gol. Sul ragazzo si posarono gli occhi di Graham Taylor, destinato a diventare selezionatore della Nazionale. Taylor lo portò all’Aston Villa e il suo intuito fu presto ricompensato: ottimi campionati, molti gol, un titolo della «Big League» sfiorato, la convocazione nell’Inghilterra, infine il Mondiale italiano: «Devo ringraziare Italia ’90 se oggi sono qui, se tutti mi hanno apprezzato. Devo ringraziare soprattutto quel gol al Belgio nei tempi supplementari: una girata al volo utile a me, al mio futuro e alla squadra».
Che, ricordiamolo, venne sconfitta solo in semifinale dalla Germania (ai rigori) e si piazzò poi quarta, battuta anche dall’Italia nella «piccola finale» di Bari. Già, Bari. Un destino: «Purtroppo è andata male e quella delusione non l’ho ancora dimenticata. La retrocessione si poteva evitare, siamo stati sfortunatissimi. Ma sono sicuro che i miei ex compagni sapranno tornare subito in Serie A».
Dopo la mazzata della B, quella degli Europei: «È stata durissima. Pensavamo di poter conquistare il titolo, invece siamo tornati a casa al primo turno. In Svezia ho vissuto la più grossa delusione della carriera, però nello sport come nella vita è necessario guardare avanti. La Juventus mi offre questa e altre possibilità».
Platt ha raggiunto Torino con un notevole carico d’ottimismo. L’inglese non ha dubbi: per lui, la rinnovata Juventus è già pronta. «Sulla carta abbiamo raggiunto il Milan e credo che lo scudetto sarà una questione a due. Vialli e Baggio sono due dei migliori giocatori italiani, la squadra è forte ed equilibrata. Troppi attaccanti? Non credo proprio. E anche andato via Schillaci... Sul mio futuro sono tranquillo, non farò la fine di Rush che comunque resta un campione. Ma per un attaccante è molto più difficile inserirsi nella realtà del vostro calcio; io ho modelli diversi, gente che in questo Paese ha lasciato il segno: Brady, Wilkins, Souness. Non a caso centrocampisti».
Il «nuovo Tardelli» ha conosciuto la Juve in giorni un po’ particolari. Prima della sua presentazione alla stampa, qualche imbecille aveva infatti imbrattato il monumento di piazza Crimea con scritte non proprio amichevoli. Un atto becero, che nelle intenzioni anti-inglesi dell’autore doveva collegarsi alla tragedia di Bruxelles. O, forse, un gesto di puro teppismo senza bandiera. Comunque Platt non si è lasciato condizionare da questo episodio extra sportivo: «Sono venuto a Torino da straniero, ma conto di diventare presto un amico di tutti. Perché lo sport è amicizia».
In questo senso le referenze sono ottime. A Bari ricordano David come un tipo socievole e allegro; a Birmingham si dilettava registrando improbabili segreterie telefoniche a sfondo osé: i suoi amici raccontano di una sensuale voce femminile che rispondeva «David non può venire all’apparecchio; in questo momento è molto, molto occupato». Un altro messaggio era «letto» addirittura dalla... regina Elisabetta.
Non si tratta, comunque, di un buontempone eccessivo. Nulla a che vedere, tanto per intenderci, con quel «matto» autentico di Gascoigne. Nonostante lo spiccato e assai britannico senso dell’humour, David Platt è un tipo tranquillo e riservato. Trascorre la maggior parte del tempo con la sua Rachel, una biondina sposata prima di raggiungere il ritiro di Macolin. E appassionato di musica rap, gioca spesso a snooker (il biliardo inglese), ama i cavalli da corsa (ne ha persino posseduto uno, General Sulky, che però vinceva pochino), adora gli hamburger e la salsa ketchup, tanto che in Inghilterra lo chiamavano MacDonald. Comunque la passione per il fast-food gli è passata presto, dopo pochi giorni di cucina pugliese. Ora prova il Piemonte, terra di infinite tentazioni gastronomiche: e Platt di appetito – anche in senso metaforico, cioè sportivo – ne ha parecchio...
«Che cosa mi riprometto di fare e di essere? – confessa il giorno della presentazione – Se dico che segnerò tanti goal partirei con il piede sbagliato, e se poi non sapessi mantenere la promessa? No, meglio dire che cercherò di giocare come so, a tutto campo. I goal saranno una conseguenza del mio movimento. Bisognerà inoltre vedere come Trapattoni intenderà utilizzare tutti i campioni a sua disposizione. Io per ora conosco tutti di faccia, fra due settimane, dopo il ritiro, sarà più facile per me esprimere dei giudizi tecnici. Con Roberto Baggio, Vialli e Casiraghi spero che si riesca a giocare anche per divertirsi, perché è questo il bello del calcio. In questo momento, guardando l’organico, dico che dobbiamo partire per vincere tutto sapendo che in Europa non sempre arriva in fondo la squadra migliore, troppe sono le incognite. Ma in campionato, su 34 partite, i valori emergono più netti. Sapremo battere il Milan? Io dico che per noi non sarà facile, ma altrettanto difficile sarà per il Milan ripetere lo straordinario cammino del campionato scorso. Troppi stranieri potrebbero creare problemi in casa rossonera? Vado controcorrente. Dico che la concorrenza in questi casi non è negativa. Chi gioca sa che il posto è sempre in pericolo e farà di tutto per conservarlo, quindi si batterà sempre al massimo. Anche alla Juve c’è uno straniero in più, ma ci sarà spazio per tutti».
David fallisce con pochissime colpe e viene venduto alla Sampdoria; in maglia bianconera raccoglie il misero bottino di 22 partite e 4 goal. Giocatore sveglio, intelligente, mobile, grintoso, molto bravo sotto porta; poiché il campionato italiano si rivela spesso molto e troppo complicato tatticamente per quasi tutti i calciatori britannici, poteva stare alla Juventus da protagonista (com’è ovvio che sia, essendo il capitano della Nazionale inglese) solo in un contesto a lui propizio, anziché in uno a lui assolutamente sfavorevole.
«Mi sono dovuto piegare alle esigenze della squadra – accusa alla fine della stagione – ma non sapevano chi ero e come giocavo! A Bari sì che hanno gustato un po’ del vero Platt, a Torino quasi mai. E non solo per colpa mia. Comunque sia, la Juve mi ha insegnato molto, me ne vado in amicizia. Ho un ottimo rapporto con tutti. Evidentemente la Samp era nel mio destino: dovevo venirci due anni fa, ci arrivo adesso con la prospettiva di giocarci un’altra stagione importante».
In blucerchiato andrà meglio, anche perché l’ambiente doriano è molto più rilassato di quello juventino. Venivano dai successi di Mantovani, quindi pubblico sazio e accomodante; la Juventus, invece, era nel pieno del periodo di vacche magre che sembrava non aver fine. Fallita la rivoluzione di Maifredi, era stata operata la restaurazione targata Boniperti con esiti deludenti e poi perché, a Genova, fu fatto giocare nel suo ruolo: un organizzatore di gioco dietro di lui, Jugović; nessun compito sulle fasce, riservate a Lombardo e Serena; due punte, Gullit e Mancini, mobili, capaci di creargli spazi e con i piedi fatati, in grado di innescarlo nelle sue incursioni nell’area avversaria, una delle sue qualità.
1 commento:
Comunque qualche zampata la diede sia in campionato che in coppa con il goal qualificazione con il Panathinaikos. Platt, Jarni e Boban al Bari... davvero altri tempi! Come fece a retrocedere... vedi pure con Protti ed Andersson qualche anno dopo... boh!
Posta un commento