domenica 1 settembre 2013

DALLE ANDE ALLE ALPI

ALEC CORDOLCINI, “GS” APRILE 2012:
Figlio di un profugo cileno in fuga dalla dittatura di Pinochet, cresciuto in Svizzera, calciatori di discreto successo nel Lugano. Edo Carrasco, una volta ritiratosi, ha deciso di dedicare l’esistenza ai più deboli. È il romanzo di un uomo che ha vissuto tra vite in una.

Una vita da mediano, quella di José Eduardo Carrasco. Con un lampo passato alla storia.
26 settembre 1995, stadio Meazza di Milano, ritorno dei trentaduesimi di Coppa Uefa. Contro ogni pronostico, il suo Lugano sta bloccando l’Inter sullo 0-0. Ma non basta per passare il turno, perché due settimane prima in Ticino era finita 1-1. A cinque dal termine una punizione per gli svizzeri. La calcia proprio il centrocampista cileno: la palla sfila tra Fontolan e Mauro Galvão e si infila in rete. San Siro è sotto shock, per il secondo anno consecutivo l’Inter esce al primo turno. Questa volta però l’avversario non si chiama Aston Villa, bensì Lugano. La differenza è enorme.
Anche per Carrasco, la cui vita non è più stata la stessa. «Senza quei due maledetti goal all’Inter (aveva segnato pure all’andata, nda) non avrei potuto realizzare ciò che è sempre stato uno dei principali obiettivi della mia vita: aiutare concretamente gli emarginati, i deboli. Perché se la richiesta di aiuto arriva dal Carrasco eroe di San Siro, riceverà un’eco ed un’attenzione ben diverse da quella del Carrasco semplice cittadino svizzero con un passato da emigrato. Allora perché definisco maledetti quei goal all’Inter? Perché sono interista».
Carrasco ha vissuto sulla propria pelle i problemi dell’emarginazione e dell’integrazione in terra straniera. In Canton Ticino è arrivato ancora in fasce, in fuga con la propria famiglia dal regime di Pinochet, il sanguinario generale andato al potere dopo il golpe militare dell’11 settembre 1973, che costò la vita a Salvador Allende, presidente legittimamente eletto, e ad almeno altri 3.000 cileni. Gli arrestati furono circa 150.000 e di diversi non si seppe più nulla.
Suo padre José, studente liceale, dopo il golpe era stato arrestato e torturato, come migliaia di altri cileni. Carrasco senior però era riuscito a fuggire dai propri aguzzini, per poi lasciare il Paese grazie al programma “posti liberi” del pastore evangelico Guido Rivoir, che portò in Svizzera centinaia di profughi cileni in fuga dalla dittatura. Un anno dopo José Carrasco venne raggiunto dalla moglie e dal piccolo Edo.
Iniziava una nuova sfida, altrettanto difficile: «Già a quei tempi l’integrazione in Ticino costituiva un grosso problema. Per un bambino forse era più facile: c’era l’asilo, la scuola, i nuovi amici, molti dei quali immigrati come il sottoscritto. Io poi ho sempre avuto un approccio positivo: quando giocavo a calcio, ad esempio, più mi davano del cileno di merda, meglio giocavo. Ed ho scoperto che non esiste un veicolo di integrazione più efficace dello sport».
Carrasco è uno di quelli che ce l’hanno fatta. Non è diventato una stella, ma si è tolto le meritate soddisfazioni. E quando a ventotto anni appese le scarpe al chiodo, contava 240 partite nella massima serie svizzera (ottenute con Lugano, Losanna, Stade Nyonnais e Sion) e 16 in Coppa Uefa: «Ero un mediano dai piedi buoni, cercavo di impostare l’azione, non solo di distruggere quelle degli avversari. Ma non posso certo affermare che il goal era uno dei miei pezzi forti, perché ho sempre segnato poco. Eppure sono state proprio due reti a consacrarmi, tanto che arrivò pure la chiamata della Nazionale cilena. Ero contento, mi piaceva l’idea di prendermi una rivincita sul campo rispetto alla sorte di esule che il mio Paese aveva riservato a me ed alla mia famiglia. Purtroppo qualche settimana più tardi il Cile cambiò Commissario Tecnico e non se ne fece più niente».
È un’Inter in piena crisi quella che affronta il Lugano nella Coppa Uefa 1995/96. Ventiquattro ore prima era stato dato il benservito all’allenatore Ottavio Bianchi, sostituito dal traghettatore Luis Suarez. Il Lugano di Morinini si affida alla classe ed all’esperienza del sontuoso centrale brasiliano Mauro Galvão. E quando Carrasco pesca il jolly, la festa è completa. L’avventura degli svizzeri si conclude il turno successivo contro lo Slavia Praga, che s’impone 2-1 in trasferta ed 1-0 in casa: «Squadra fortissima quello Slavia, c’erano Pobòrsky, Suchoparek, Smicer, Bejbl, che l’estate successiva con la maglia della Repubblica Ceca arrivarono a giocarsi la finale dell’Euro ‘96».
Carrasco lascia il Lugano durante quell’estate. Accanto al calcio, cresce la voglia di impegno nel sociale. Frequenta la facoltà di Scienze Sociali all’Università di Ginevra, avvia a Losanna quattro progetti di aiuto all’integrazione e di supporto alle persone in difficoltà, tra questi una banca alimentare ed un centro fitness: «Lo sport è dignità, perché quei clandestini che venivano al fitness hanno potuto ricevere una tessera che li riconosceva con un nome ed un cognome».
Non a caso al Lugano per i compagni era il “filosofo-sindacalista”, perché quando c’era da chiedere qualcosa, da difendere delle idee, era lui l’incaricato per andare a trattare con allenatori e dirigenti. Dal 2005 Carrasco, rientrato nel frattempo in Canton Ticino, dirige la Fondazione Il Gabbiano, comunità di recupero con sede a Camorino, nei pressi di Bellinzona, che si occupa del recupero di persone con problemi di tossicodipendenza, alcolismo e disadattamento sociale.
La struttura ospita circa una dozzina di persone, inserendole in un programma di riabilitazione professionale e reintegrazione sociale: «I soggetti più deboli sono i giovani. Sembrano così spavaldi, ma dietro si nasconde tanta fragilità, perché mancano i punti di riferimento ed i valori sono sempre più sbiaditi. Quella al Gabbiano è un’esperienza unica, appagante. Qui la terapia non è chimica, ma vita. Una sfida con noi stessi che, contrariamente ad una partita di calcio, non ci possiamo permettere di perdere».


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