«Sono stato, in certo senso, un ragazzo precoce, calcisticamente parlando – raccontò di se stesso – perché, dopo aver militato nelle squadre giovanili del Brescia, all’età di sedici anni ero già titolare della squadra azzurra che a quell’epoca disputava il campionato di Serie B. Ero agile, scattante, dotato di un tiro non fortissimo, ma molto preciso. Giocavo centrattacco e, per qualche stagione, nessuno pensò mai a cambiarmi ruolo.
Il Brescia era stato promosso in Serie A nella stagione 1933-34 e fu proprio in quell’anno che feci conoscenza con i grandi campioni della Juventus dell’epoca d’oro. Non avevo giocato la gara del girone di andata a Torino a fine novembre, gara conclusasi con una secca sconfitta per 5-1 delle Rondinelle; ma nell’incontro del girone di ritorno, disputato il 15 aprile sul vecchio campo di Brescia, andai in campo anch’io, nel ruolo di centrattacco. Me la vidi con il mastodontico Monti, giocatore di incredibile potenza e grande classe. Il Brescia, nelle cui file giocavano ottimi atleti, come il portiere Peruchetti e i due fratelli Frisoni, uno mediano, l’altro attaccante, disputò una gagliarda partita, ma non riuscì a spuntarla».
Nella stagione seguente Ugo Locatelli fu ceduto in prestito all’Atalanta, in Serie B, per poi tornare a Brescia, dove si era trasferito, trovando, nel doppio ruolo di giocatore-allenatore, l’indimenticabile Umberto Caligaris. Fu proprio Caliga a cambiare il ruolo al giocatore, spostandolo da centravanti a mediano. «Un’esperienza positiva, perché mi consentiva di partecipare in modo più completo alla partita giocando in difesa, a centrocampo e sfruttando occasionalmente le mie doti di uomo di attacco. Nel gennaio 1936 tornai a incontrare la Juventus a Brescia, e ancora una volta gli azzurri vennero sconfitti, per 1-0. Realizzò Gabetto, uno dei pochi giovani in quella squadra di autentici vecchioni. C’erano ancora Rosetta, Monti, Varglien II, Borel, mentre Foni e Depetrini erano al massimo dello splendore tecnico».
Ugo esordì nella Nazionale Olimpica in occasione del vincente torneo calcistico delle Olimpiadi di Berlino, il 3 agosto 1936: aveva appena vent’anni, come il suo grande amico Piero Rava. Quattro partite drammatiche e molto combattute, con Stati Uniti, Giappone, Norvegia e Austria prima di cogliere il grande trionfo all’Olimpia Stadion di Berlino. L’esordio in Nazionale A, avvenne il 5 dicembre 1937 a Parigi, contro la Francia, che presentò tra i due pali un insuperabile Di Lorto: ragione per cui l’incontro si chiuse con il risultato di 0-0.
Poi nel 1938 la grande e gloriosa avventura dei mondiali in terra di Francia, durante i quali, Locatelli fu protagonista: «Ricordo più volentieri la vittoria olimpica, piuttosto che quella mondiale. A mio parere, infatti, vincere un’Olimpiade, primeggiare davanti ad autorità e pubblico non solo amante del calcio, ma dello sport in genere, essere premiati sotto quel fuoco di Olimpia, ti dà una sensazione particolare. Per avvalorare ancora di più la mia tesi, che può essere personale, sta il fatto che, quando siamo tornati in Italia, appena messo piede dentro il confine, abbiamo trovato migliaia di persone ad attenderci e acclamarci, anziché i quattro gatti del Mondiale. E voglio ancora precisare una cosa; la vittoria alle Olimpiadi mi ha assicurato una specie di tessera con ingresso a vita in ogni tribuna d’onore italiana, per tutti gli sport. Una tessera su cui sta scritto Campione Olimpico e non Campione del Mondo di calcio».
Nel 1941, Ugo fu acquistato dalla Juventus. Con lui arrivò anche Olmi. Se la Juventus avesse potuto disporre di forti attaccanti, gli scudetti sarebbero piovuti in grande quantità; la società bianconera, infatti, poteva vantare un assetto difensivo e di centrocampo di grande qualità: tra i pali c’era l’intramontabile Peruchetti (rilevato, poi, dal grande Cochi Sentimenti IV) e come terzini due Campioni del Mondo, Foni e Rava. La mediana era formata da Depetrini (che Locatelli considera tra i migliori mai visti in Italia), Parola e Locatelli. Sei giocatori, sei autentici campioni.
Ugo indossò la maglia bianconera sino al 1949, dopo aver disputato 181 partite e realizzato otto goal. Si ritirò dall’attività agonistica per qualche eccessiva preoccupazione, suggerita da un elettrocardiogramma non proprio pulito; la Juventus, però, non volle privarsi di un uomo tanto prezioso, di un tecnico così raffinato e lo confermò come capo del settore tecnico giovanile. Tanto prezioso era stato l’apporto di Ugo come giocatore, ugualmente fu il contributo da tecnico e osservatore.
Ugo Locatelli disputò, in totale, ben 360 partite di campionato di Serie A, alle quali vanno aggiunte le quaranta di Serie B, senza dimenticare le ventidue presenze in Nazionale e i due prestigiosi trofei: Olimpionico a Berlino, Campione del Mondo a Parigi.
DA “HURRÀ JUVENTUS” DELL’APRILE 1964
Come juventino, sono un uomo da spiegare, me ne accorgo. Se uno sa dove sono nato e dove ho giocato per tanti anni, nei miei anni internazionali, conclude novanta su cento che io, almeno nel cuore, debbo sentirmi interista. E invece, vedete, sono profondamente juventino. Ora vi racconto.
Sono un gardesano, di Toscolano Maderno, lombardissimo. Ed ho incominciato a giocare, seriamente, in Lombardia; direte che era ovvio e forse è così. Ho incominciato nel Brescia, a sedici anni, nel 1932. Il Brescia faceva la B, io ci giocavo come centravanti. Non era quello il mio ruolo definitivo, ma a quindici anni un calciatore non è ancora formato, praticamente è giusto che vada a spasso per i ruoli in cerca del suo ruolo.
Maturavo si capisce, e maturava con me anche tutto il Brescia, tanto è vero che nel 1935 siamo stati promossi in Serie A. È stato quello il mio ultimo campionato per quella squadra, il mio primo campionato di mediano. Mediano dal 1935 in poi, sino alla fine. Mi aveva adocchiato l’Inter e all’Inter sono stato trasferito nel 1936. Cinque stagioni in neroazzurro, titolare del ruolo di mediano destro. Insomma ero un mediano destro che, guardate il caso, nelle occasioni più importanti giocava mediano sinistro. Le occasioni più importanti erano le partite in Nazionale. Una media di cinque all’anno. Infatti, sono stato azzurro venticinque volte, nei miei cinque anni di permanenza all’Inter.
Un’Olimpiade, un Mondiale, sempre titolare, sempre mediano sinistro, io che all’Inter giocavo mediano destro. C’è una ragione precisa. In Nazionale, a destra giocavano sempre, in quegli anni, Depetrini e Serantoni. Punto e basta. A me, in fondo, la cosa non interessava. Oggi ci sono dei calciatori, giovani o anziani che siano, i quali fanno tragedie se un allenatore li impiega in un ruolo che a loro non va. Sono tutte storie che bisognerebbe non ascoltare. Uno deve abituarsi a giocare dappertutto, e con il sorriso sulle labbra.
Figuratevi io, in quell’epoca là, negli anni d’oro, se a queste cose ci badavo! I miei amici e compagni di squadra erano Monzeglio, Foni, Rava, Andreolo, Biavati, Meazza, Piola, Ferrari, Depetrini, Serantoni, faccio soltanto qualche nome. Con questi compagni si vinceva sempre, era una cosa meravigliosa! Ed io mi sentivo profondamente interista e profondamente nazionale. Per forza, come facevo, altrimenti? Eppure non mi sentivo ancora un giocatore maturo, completo. Eppure ero già in Nazionale. Pensavo: quando diventerò ancora più forte, chissà cosa faccio, in Nazionale!
Mi sbagliavo, nettamente, ma ero in buona fede. Dopo la venticinquesima partita in azzurro e i due scudetti vinti all’Inter, mi ha acquistato la Juventus, esattamente nella stagione 1941-42. E sono rimasto alla Juventus, in attività normale, sino al 1948-49. È un bel po’ e il fatto è che, proprio in quest’ultimo periodo, sono riuscito a completarmi, sul piano atletico e su quello dell’esperienza. Ma di Nazionale non se n’è più parlato. Ora giocavo titolare mediano sinistro nella Juventus, magari sarei potuto essere il titolare mediano destro della Nazionale, per capovolgere quella vecchia storia, che vi ho raccontato, che mi riguardava quand’ero all’Inter. Ma nulla, invece, soltanto Juventus. E c’è una ragione. Io ho giocato per la Juventus negli anni in cui è esploso il Grande Torino. Il Torino andava praticamente in blocco in Nazionale, si può dire che il Torino era diventato la Nazionale. Ed io giocavo nella Juventus, ho giocato anche con Borel.
Senza Nazionale, allora, ma con tanta Juventus che mi riempiva prima il cervello e poi le vene e che pian piano cacciava fuori dalle mie vene lombardo-interiste i ricordi lombardo-interisti. E qui sono diventato juventino sempre di più. Tanto è vero che, quando a trentaquattro anni, nel 1949, ho smesso di giocare, sono rimasto con entusiasmo alle dipendenze della Juventus. Dal 1952, per dieci anni, ho avuto l’incarico di istruttore del settore squadre minori e mi son venuti fuori, per esempio, Mattrel, Vavassori, Emoli (che per metà, debbo riconoscerlo, è anche di Bertolini), Stacchini, Leoncini, Robotti. Sono stati anche questi anni di soddisfazioni. Ho mollato quest’attività nel 1962 pur restando a disposizione della società come osservatore e come responsabile delle sezioni minori. Ora io faccio queste cose e tutte le altre che la società mi comanda di fare.
Se dunque ricapitolo i miei trascorsi, superficialmente potrei dividermi fra Inter e Juventus. Ma sono alla Juve oramai da ventidue anni, che sono quasi una vita. I cinque dell’Inter non li ho più addosso, non c’è nulla da fare. Mi sento un gardesano tutto juventino.
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