In molti continuano a domandarsi chi effettivamente sia, calcisticamente parlando, Pietro Fanna da Moimacco – scrive Gianni Giacone su “Hurrà Juventus” del maggio 1982 – ventiquattro anni e ormai cinque stagioni di Juve sulle spalle. In pochi, molto pochi a dire il vero, almeno crediamo, possiedono la risposta sicura, quella con tanto di prova. Il ragazzo di cinque anni fa è diventato uomo, ha messo su famiglia, ma queste, forse, son cose che riguardano assai più il personaggio che non il calciatore. Che differenze, e quali similitudini eventualmente, ci sono tra quel Fanna, quello di Bruges tanto per esemplificare, e questo, contraddittorio eppure vivo, altalenante eppure consistente, in una parola difficile da capire e ancor più da spiegare?
Poiché non siamo tra quelli che hanno la risposta sicura, andiamo per approssimazione, e intanto ne parliamo, convinti che a molti interessi cercare vie magari nuove di avvicinamento al personaggio. Che davvero rischia di essere lontano, dagli occhi come dal cuore.
Il ragazzo che approda a Torino da Bergamo, dove è idolo autentico, una specie di bambino prodigio capace di destare entusiasmi antichi, è già un tipo assai speciale, caratterialmente non ben definibile. Il primo impatto con i cronisti lascia interdetti personaggi navigati e abituati a fare i conti con ogni genere di giovin talento. Il ragazzo «c’è», si capisce che ha personalità e voglia di arrivare, ma è quasi spaventato dall’attenzione che lo circonda, sembra quasi chiedere il permesso di ritirarsi in santa pace e di uscire allo scoperto solo quando si sentirà pronto, caricato il giusto. Si intuisce al primo assaggio col terreno di gioco, al primo allenamento vero, che le doti ci sono, che il giovanotto mastica calcio come pochi altri, ma con una convinzione che va e viene, e più spesso la convinzione non c’è. Occorrono momenti particolari, climi speciali, per esaltare il ragazzo, la cui disarmante timidezza conquista comunque larghe fette di simpatia tra i supporters.
La stagione dell’arrivo di Pierino, del resto, ribadisce il legittimo intendimento della Juve a dominare la scena nazionale: la squadra sembra continuare sullo slancio dei cinquantuno punti strappati l’anno prima, e molte cose notoriamente difficili riescono invece facili, quasi automatiche. Fanna è ala destra, ha sempre giocato ala destra ed ha le caratteristiche tecniche dell’ala destra classica. Con la maglia numero sette gioca un certo Causio, all’apice della condizione, e Causio proprio non si discute, ci mancherebbe altro. Allora Fanna ha chiuso prima ancora di cominciare? No, perbacco. Il calcio moderno richiede universalità, adattamento a più ruoli, a diverse incombenze. Fanna trova spazio al centro o a sinistra, e gli inizi sono assai incoraggianti. A Pescara, i suoi dribbling e le sue serpentine in progressione scardinano una difesa intera e regalano una vittoria di slancio. In casa, con la Roma, su un terreno infame, Pierino scavalla nel fango e va a segnare un gol antologico a Paolone Conti. Un gol che lo consacra beniamino dei fans, che gli dà fiducia, convinzione.
E poi, c’è la Coppa Campioni. La notte di Bruges.
Per la stragrande maggioranza dei tifosi juventini, Bruges si identifica con un arbitro svedese in serata di cattiva vena che dà una grossa mano alla Juve per non consentirle di avere ancora qualcosa da vincere. Per molti, però, quella partita è anche la rivelazione di un talento grande, di uno che farà sicuramente parecchia strada. Di Pierino Fanna da Moimacco, insomma. Su un palcoscenico ostico, e in una serata assai poco favorevole agli exploit individuali, Fanna disegna una prestazione assolutamente da incorniciare, senza sbavature, con momenti lirici, di tecnica assoluta. Una specie di magia, forse irripetibile o forse no, chi lo sa. Certo, una gran bella serata, un contrasto stridente con l’esito della gara, che rimanda la Juve a casa a rimpiangere e meditare rivincite.
Bruges resta un episodio isolato, ahinoi. Ma è Fanna stesso un personaggio isolato, alle prese con sbalzi di umore che ne condizionano il rendimento nell’ambito magari di una stessa partita.
Il 1978-79 ripropone eccellenti momenti di calcio alternati a fasi di involuzione anche tecnica. Qualcuno comincia a mugugnare, a dire che, con quel fisico, con quei mezzi tecnici, se non sfonda è solo e unicamente questione di carattere, di maturità. Ma si è maturi, a vent’anni? Si può esserlo o non esserlo. In passato, ci furono campioni grandi e maturi a diciassette anni e altri che non maturarono mai, pur avendo quella dote strana e indefinibile che si chiama classe. Ma Fanna, quel Fanna, ha classe?
Fior di tecnici, Trapattoni compreso, non hanno dubbi. Sissignori, Fanna ha classe, è un fior di campione allo stato semi-latente. Maturerà più tardi di altri, ma maturerà, se lo vorrà.
Nella primavera del 1980, in chiusura di un’altra stagione ricca di contraddizioni, Fanna innesta marce altissime e torna a far sognare. Segna all’Inter un gol da album dei ricordi, scartando tutti sulla fascia e facendo passare la palla tra palo e portiere, con millimetrica precisione. Perché Fanna sa dribblare su una moneta da cento lire, ma anche tirare. E quelle poche volte che si decide a tirare sono gol d’autore, come contro l’Avellino, in una strana partita di fine stagione, finita 3-3 con alcuni numeri d’alta scuola del friulano.
La partenza di Causio potrebbe rappresentare qualcosa di decisivo, per il destino di Pierino. Ma tutti sanno che non è così. Fanna, forse, per primo. La stagione del diciannovesimo scudetto ha avuto bisogno di parecchio Fanna, in ruoli e incombenze diverse. E Fanna è stato diligente, bravo o almeno bravino, ma sempre tentennante: un dribbling di troppo, un tiro col contagocce. Esplode Marocchino, che ha in partenza gli stessi problemi di Fanna, morde poco, anche se tiene piedi ottimi, ma alla fine vince Marocchino la sfida con Fanna, e la vince con la forza, la determinazione con la quale sradica il pallone dai piedi degli avversari e lo deposita a centro area per le giocate che decidono.
Fanna è meno potente di Marocchino, ma potrebbe essere più rapido, più veloce, più essenziale. Lo stesso Marocco, in tutta sincerità, lo ammette davanti a stuoli di cronisti.
E la storia si ripete, è roba di questi ultimi mesi, con l’esplosione di Galderisi, che ha cinque anni meno di Fanna, ma sembra che ne abbia dieci in più, quanto a determinazione, e, perché no, furore agonistico. La partita domenicale è una battaglia, dove si prende e si dà. Galderisi incarna alla meglio questo modo di vivere il ruolo offensivo. Fanna si approssima a incarnarlo, e magari presto lo riprodurrà al meglio: non mancano premonizioni, segni concreti. A ventiquattro anni, non sogna più gli svolazzi romantici sui campi dell’onor, ed ha capito qual è l’unica, sicura strada per arrivare alla meta. Crederci, fortissimamente, e considerare la panca come un trampolino di lancio, da cui decollare appena se ne presenta l’occasione.
Inutile recriminare o rimpiangere quel che poteva essere e non è stato, inutile anche appigliarsi alla sfortuna.
VLADIMIRO CAMINITI
Sfortunato o presago, Pierino Fanna soggiorna cinque anni nella Juventus senza andare d’accordo col Trap. Forse, l’allenatore si incaponiva nel disegno tattico che certe divagazioni del ragazzo frastornavano; Furino ne parlava benissimo, come dell’attaccante più evoluto della squadra: «In tutti i punti del campo è utile, sa giocare in qualsiasi posizione».
I tifosi di Madama sono abituati al meglio. Hanno ancora negli occhi i traversoni barocchi di Causio e conquistare la Juventus non è facile. Non basta avere un’anima cerulea, come ha gli occhi Pierino, e una moglie che gli ritaglia tutti gli articoli dei giornali e ne fa album per posteri; un tornante per Trapattoni, che riusciva a trovare difetti perfino in Causio, deve rispondere a certe esigenze, chiudere, coprire, aderire alla fascia di competenza, insomma sono continui rabbuffi, le guance di Pierino si imporporano, a casa si sfoga con la mogliettina bruna «ritagliera».
Ora, dico la mia. Per la Juventus, nel quinquennio in cui vi ha militato, Pierino Fanna è stato un’occasione sprecata. Trapattoni non l’ha capito; si è attardato sui difetti tecnici e non ha messo il ragazzo a suo agio. Si sbaglia, tutti, e queste sono briciole per un tecnico virtuoso quanto il Trap; ma i fatti dicono di un Fanna che nel triennio veronese si mette a disegnare partite favolose, partecipando in primis alla conquista di quello scudetto che adorna indelebilmente il gonfalone gialloblù. E forse, voglio dire, più circostanze casuali, e il carattere un po’ troppo introverso e complicato del ragazzo, impedirono che con la Juventus sbocciasse vero amore.
Come cronista non ho rimorsi. Io lo accettai sempre all’altezza delle sue doti tecniche superlative e del suo plafond atletico più che buono; in fondo, rimaneva il miglior allievo del padre, che avrebbe rimpianto non fosse ancora vivo a vederlo trionfare; il padre che gli aveva insegnato bambino a portare palla nella salita del paesello, per poi tenerla tra i piedi correndo in discesa; e fu un insegnamento basilare per il tornante superbo che sarebbe diventato, a tratti, solamente a tratti, anche nella Juventus del Trap.
NICOLA CALZARETTA, DAL “GUERIN SPORTIVO” DEL 27 APRILE – 3 MAGGIO 2004
«Dovevo andare via dalla Juventus per ritrovare me stesso, per capire se potevo continuare ancora a pensarmi calciatore di un certo livello. Mi proposero alcune soluzioni interessanti, ma scelsi Verona, una neopromossa. Passavo dalla Coppa dei Campioni alla lotta per la salvezza. Poteva sembrare l’inizio di una parabola discendente: per questo Verona per me ha rappresentato una scommessa. Ma io volevo giocare, avevo il bisogno di giocare. Così quando per la prima volta ho indossato la maglia gialloblù, quella con il sette, il mio numero di sempre, l’ho baciata e mi sono detto: questa qui diventerà la mia seconda pelle».
La confessione, delicata nei toni, è del friulano di Moimacco Pietro Fanna, quarantasei anni, una buona fetta dei quali trascorsi lungo la linea destra dell’out al servizio di Atalanta, Juventus, Verona e Inter. Per la cronaca la scommessa è stata vinta. «È andata di lusso. Per il Verona, che ha vissuto stagioni stupende arrivando a conquistare lo storico scudetto nel l985, e per me. Sono rifiorito, ho ripreso fiducia, sono tornato a divertirmi. E come gradita sorpresa sono arrivate la maglia azzurra e la parentesi all’Inter con altro tricolore. Quindi sono tornato a Verona dove ho piantato le tende».
Curiosa la traiettoria della carriera di questo giovanotto cresciuto tra le montagne friulane. La leggenda narra di un ragazzino dalla testa bionda che porta palla nella salita del paesello, per poi tenerla tra i piedi correndo in discesa. «Nonostante sia nato in un piccolo paese sperduto nei boschi, mi sono subito innamorato del pallone. A dodici anni sono entrato nel settore giovanile dell’Udinese e l’anno dopo mi sono trasferito all’Atalanta. È stata dura. Dal paesino di montagna, andavo in città. I miei li vedevo tre volte all’anno, però ero anche orgoglioso di far parte del migliore vivaio italiano».
L’escalation è fulminea: l’esordio in B a diciassette anni, l’Under 21 e poi la promozione in A da protagonista, nel 1976-77. Giocava all’ala destra e aveva messo in bella mostra tutto il suo precocissimo talento: una perfetta miscela di tecnica, velocità e fantasia. Arrivò alla corte della Vecchia Signora a diciannove anni, con giustificate speranze e con la zazzera bionda che quasi gli copriva gli occhi celesti. Se ne andò cinque anni dopo. Con molta amarezza e con parecchi capelli in meno. «Magari li avrei persi comunque. Di certo gli anni alla Juventus mi hanno provato. Ero giunto a Torino con enorme felicità e con tante aspettative, ben sapendo che non avrei dovuto aver fretta. Nel mio ruolo, ad esempio, Causio era il top a livello internazionale. Ma a me all’inizio andava bene così. Il guaio è che, più passavano le stagioni, e più mi immalinconivo. Non sfondavo e non sapevo il perché. Causio andò via, ma nel frattempo esplose Marocchino. Giocavo poco e, quel poco, non nel mio vero ruolo. Ho iniziato a perdere fiducia, a demoralizzarmi, nonostante i compagni, specie Tardelli e Furino, non abbiano mai smesso di incoraggiarmi».
È l’estate 1982. All’euforia nazionale per il terzo titolo mondiale conquistato in terra di Spagna, fa da contraltare il muso lungo e l’animo dolente di Pierino Fanna, all’epoca appena ventiquattrenne, ma con il morale sotto i tacchi. «Dovevo cambiare aria, anche se lasciare la Juventus mi pesava. Vennero fuori, tra gli altri, i nomi di Avellino e Cagliari. Ma io scelsi Verona, anche per non andare troppo lontano da casa».
I gialloblù erano appena stati promossi in A. «Lo sapevo. E difatti per me quella scelta rappresentava il massimo del rischio. Però sapevo anche che in panchina c’era Bagnoli e che l’ambiente era tranquillo. In quel momento, sinceramente, desideravo potermi allenare e giocare senza grossi stress».
Fanna si veste di gialloblù, anche se la Juve non lo svende. «Fui l’acquisto più caro di quel Verona che aveva cambiato molto rispetto all’anno precedente: arrivarono Zmuda e Dirceu, i due stranieri. In più Volpati, Sacchetti, Spinosi e Marangon».
A dire il vero la campagna acquisti non suscitò grossi entusiasmi nei tifosi scaligeri: qualcuno parlò senza tanti giri di parole di scarti delle altre squadre. «Ed io in questo caso ero il primo a essere chiamato in causa. L’ho già detto: era un grosso rischio quello a cui andavo incontro. Ma quella era la strada per il mio rilancio. Ed era obbligata».
Bagnoli porta tutti in ritiro a Cavalese. «Per diciassette giorni pedalammo di brutto. Non sono mai stato determinato come in quei momenti. Davo il centodieci per cento, volevo convincere Bagnoli che davanti ai suoi occhi c’era un calciatore vero anche perché, comunque, non ho mai dubitato delle mie capacità tecniche».
Le prime amichevoli portano buone notizie per Fanna. «Il mister mi schierava sempre tra i primi undici. L’arrivo di Dirceu lo aveva convinto a giocare con Penzo unica punta centrale, dando il nove a Di Gennaro, il regista. Io avevo il sette: partivo dalla destra, ma potevo andare dove volevo. L’unico guaio è che non riuscivo a terminare le partite: spingevo sempre al massimo e alla fine mi vincevano i crampi».
Ma tutta la squadra nel precampionato appare imballata. «Perdemmo di brutto con la Roma. Il pubblico mugugnava. Ma dalla nostra avevamo Bagnoli. Un giorno venne da me dicendomi di non farci caso e che lui aveva cieca fiducia in me».
Il morale dello scarsicrinito Fanna riprende decisamente quota, mentre si arriva alla vigilia della sua prima volta in campionato che sarà in casa contro l’Inter il 12 settembre 1982. «Il sabato della rifinitura. Bagnoli prende una lavagnetta con undici pedine e disegna lo schema tattico chiedendo anche a noi giocatori di intervenire. Lascia trapelare qualcosa sui nomi e c’è anche il mio. La sera ci troviamo in albergo. Sento già forte l’emozione. Al mattino, colazione alle 8,30. Mangio qualcosa anche alle 11,00. Poi stop. Mi si chiude lo stomaco dalla tensione, anche perché ho saputo ufficialmente che sarò in campo dall’inizio. Si va al Bentegodi, nello spogliatoio appesa al mio armadietto la maglia gialloblù con il sette. La bacio. Me la metto e inizio a corricchiare, più per scaricare la tensione, che per riscaldare i muscoli. Ho già tante partite alle spalle, ma questa sento che conta di più».
Si va in campo, fa caldo. L’Inter parte in quarta con due reti nei primi venti minuti. «Eravamo ancora appesantiti dalla preparazione. Io fui sostituito sempre per colpa dei crampi».
Gli occhi azzurri di Pierino si velano di tristezza. «Alla fine della partita ero piuttosto giù: la mia prima volta al Verona l’avevo sognata diversamente».
Ma a dare la spallata decisiva a tutte le malinconie di Fanna, ci pensò la sua vecchia Juve. «Dopo la sconfitta con l’Inter e con la Roma alla seconda giornata, vincemmo in casa contro la Juventus di Boniek e Platini». Finì 2-1 per i gialloblu. Il primo gol? Di Pierino Fanna da Moimacco.
1 commento:
Pierino Fanna ovvero il Krasic odierno...
la Juve dell'epoca lo teneva in panca..
se tanto mi da tanto la Juve di oggi a confronto di quella e' un offesa a 14 milioni di tifosi
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