giovedì 6 maggio 2021

DANI ALVES


Il re dei social tra i calciatori di Serie A – scrive Antonio Barillà, sul “Guerin Sportivo” del dicembre 2016 – il top player che la Juventus ha strappato al Barcellona per inseguire il sogno della Champions, Dani Alves ha vinto da solo più titoli internazionali (dodici) di tutti gli altri bianconeri ed è capitano del Brasile con cui ha disputato novantasette partite, ma i tifosi non ricordano soltanto discese, dribbling e cross: ne amano classe o carisma in campo quanto estro, solarità e generosità fuori, qualità a portata di smartphone o tablet attraverso Instagram, Facebook e Twitter. Accanto alle figurine classiche d’ogni campione, il web propone una galleria di look eccentrici, danze e canzoni, post ironici e riflessioni profonde.
Dani Alves è sempre stato così, sopra le righe e fuori dagli schemi, sin da quando, piccino, si alzava all’alba per aiutare papà Domingues a coltivare meloni, pomodori e cipolle nel terreno che oggi gli appartiene: considerava un fratellino ogni melone che nasceva e aveva un amico immaginario di nome Melao. Lasciò la campagna a tredici anni per trasferirsi al Juazeiro a cercare fortuna nel calcio. Voleva diventare famoso, fingeva sempre di firmare, partecipò come comparsa al film “Guerra de canudos”, ripeteva che sarebbe diventato calciatore o musicista: è diventato calciatore, ma non ha mai accantonato l’altra grande passione, difatti suonar la chitarra in ritiro per i compagni e sui social per milioni di seguaci. «In un’altra vita deve essere stato cantante, non c’è altra spiegazione», sospira la compagna Joana. Musicista è divento Ney, il fratello che divise con lui le speranze della scuola calcio: compositore di Forrò, danza popolare diffusissima nel Nordest del Brasile.
Dani Alves ama i tatuaggi, i colori accesi, le acconciature originali, gli accessori vistosi, l’abbigliamento stravagante. Ma non è la moda scontata dei calciatori personaggi, è la spontaneità di un personaggio che conosce l’arte del pallone. «Odio tutto ciò che circonda il calcio – confessò una volta – vivo in questo mondo, ho un ruolo, ma non ne faccio pienamente parte, non sempre sono a mio agio. Ho i miei difetti, ma sono onesto. Non mi vedo nel calcio dopo il ritiro, non farò l’allenatore: ho altri interessi, la mia intenzione è quella di mettermi uno zaino in spalla e andare in giro per il mondo. Una vita normale mi annoierebbe. Il mio modo di vestire mi rispecchia, così come la mia auto».
Mai banale, il terzino venuto dal Barcellona. Spesso stupisce, spesso commuove. Come quella volta in cui, a pochi minuti dal derby con l’Espanyol, notò un tifoso non vedente seduto vicino a Joana: Io prese in braccio e Io portò con sé in campo, inserendolo nella rituale foto di squadra. Joana filmò e pubblicò tutto, i social impazzirono. «La possibilità – commentò – di rendere reale il sogno di Carlos (il nome del ragazzo, ndr) mi dà la carica per andare avanti a combattere in questo mondo. L’animo nobile di persone come Carlos è un esempio dei veri valori della vita, una dimostrazione di come bisogna godersi tutto ciò che abbiamo, le piccole cose che potrebbero essere enormi se solo noi non fossimo così avidi. Dobbiamo comprendere quanto siamo fortunati soltanto a detenere tutti i sensi e le capacità di una persona senza handicap. Mi ha emozionato così tanto vedere questo ragazzo con la faccia piena di lacrime perché era in mezzo ai suoi idoli, campioni che purtroppo è in grado di seguire soltanto alla radio. Grazie Carlos, per averci mostrato che la felicità è così semplice da raggiungere». Inutile descrivere il diluvio di like e di commenti entusiasti, gli stessi sbocciati quando Abidal svelò che Dani Alves si era offerto di donargli parte del suo fegato per il trapianto, o quando, al Madrigal di Vila–Real un tifoso lanciò una banana al neo bianconero: poteva inveire, adombrarsi, ignorare, invece la mangiò e andò a battere l’angolo tranquillo. «Papà mi diceva sempre: “Mangia banane per evitare i crampi”». Questa storia la sanno tutti, molti ignorano il successivo capitolo: l’autore del gesto, un ragazzo di ventisei anni, fu infatti bandito dallo stadio, accusato di discriminazione, odio e violenza per motivi razzisti e pure licenziato. Allora Dani Alves intervenne e chiese di restituirgli il lavoro: «Probabilmente voleva fare uno scherzo e ha scatenato un pandemonio…».
L’altro Alves è dissacrante. Tra le immagini più bizzarre pubblicate su Instangram, quella in cui ha i pantaloni abbassati e grandi occhiali da sole, l’indice davanti alla bocca e l’altra mano a coprire le parti intime. «La vita è un grande gioco ed io sono un piccolo giocatore», il commento, che qualcuno interpretò come messaggio cifrato al Barça che non accettava la sua proposta del rinnovo. Possibile, benché in assoluto non sia tipo da appelli in codice e acrobazie dialettiche: «Col Barcellona – ammise infatti successivamente – ho quasi chiuso. Poco rispetto, merito di più». Come si dice? Senza peli sulla lingua. Così genuino e schietto da precipitare, a volte, nella polemica. Dopo l’eliminazione del Barcellona dalla Champions, postò un video in cui, indossando una parrucca, imitava Joana che lo consolava. I tifosi, amareggiati per l’addio alla coppa, s’infuriarono, ma lui non fece un passo indietro: «Lotta per chi sei e per chi sarai». Istrionico, stravagante, spirito libero, ma sempre se stesso. Uno che al galà del Pallone d’Oro s’è presentato con due foglie di marijuana come toppe sui gomiti della giacca e che ha sorpreso al contrario quando, da ambasciatore del progetto “Tour n’Cure”, che sostiene la lotta all’Epatice C (a proposito: pagherà personalmente i trattamenti a trecento ammalati), ha scelto un banale completo grigio scuro con cravatta in tono.
A Torino, il giorno della presentazione, ha sfoggiato uno smoking nero a pois bianchi, giocando sui colori della Juventus come aveva già fatto, da grande comunicatore, quando il trasferimento non era ancora ufficiale: in posa con Joana che indossava un vestito zebrato, stringendo un paio di cuscini zebrati anch’essi. Negli stessi giorni, con la compagna, aveva interpretato un ballo in costume tribale, poi aveva fatto boom con un video in cui stappava una bottiglia di birra con una… sforbiciata. Joana è una complice perfetta, al di là della passione per il ballo, la musica e i social (ha svelato lei la nuova casa torinese, un attico in centro, immortalandosi… di spalle davanti alla piscina del terrazzo) ne condivide il senso dell’umorismo e l’originalità quotidiana. La prova? Quando lei dichiarò in un’intervista che s’erano sposati e lui smentì, neanche a dirlo attraverso il web, la modella di Tenerife chiarì con un sorriso: «Ci siamo sposati a Parigi, ma non in un modo ufficiale: a modo nostro…».
Chissà com’era vestito lo sposo, e chissà che mise sceglierà quando davvero porterà la compagna all’altare: magari riproporrà quella con cui si presentò al Camp Nou prima di una sfida di Champions con il Bayern (giacca rossa, camicia bianca, papillon e bermuda neri, ciabatte screziate nero–bianco–fucsia) o quella che esibì prima di un Clasico: giacca grigio–lucida, quasi argento, pantaloni neri e scarpe color oro? Oppure la giacca rossa con camicia bianca, cravatta nera a pois bianchi, bermuda di jeans schizzati di vernice e scarpe candide che scelse per andare a trovare l’amico Felipe Massa a Montmelò? Look improbabili, in effetti, ma non addosso a lui, prestigiatore di colori e distillatore d’ironia, giocoliere nel cambiare tagli di capelli e modello di occhiali: primo accessorio, per altro, lanciato dalla sua linea di moda, Bam Bam, che poi è il nomignolo che diede la sorella e cori cui ancora lo chiamano in famiglia.
Attenzione, però, ché la bizzarria del look s’alterna alla profondità del pensiero: «Non perdere mai il focus degli obiettivi – ha scritto qualche settimana fa – Il godimento viene in seguito al grande sforzo, alla grande dedizione e al grande equilibrio… Non solo nella professione, ma anche nella vita quotidiana, dedicati sempre più di quanto pensi vada bene, perché quando il tuo talento non riesce il lavoro ti dà una mano. Cerca sempre di capire per cosa siamo fatti in questa vita, tenta di capire qual è il miglior “dono” e sarai una persona realizzata…». E poi: «Sono come un Picasso, sono difficile da capire, ma se si riesce a decifrarmi rendo per il valore che deve avere una grande opera… Voglio arricchirmi di emozioni, perché è quello che fa battere il mio cuore. Non so se sono pazzo o diverso, voglio per la mia vita solo ciò che può catturare la mia mente… So quanto io sia privilegiato, amo la mia professione e sono ancora ben pagato… Mi piacerebbe che tutti un giorno potessero realizzare il proprio talento, avere la soddisfazione di stabilire un atteggiamento positivo per la propria vita, che vada bene per poter scrivere la storia come una grande poesia di Tom Jobim».

SIMONE NAVARRA, JUVENTIBUS.COM 27 DEL GIUGNO 2017
Dani Alves e la sua ragazza, bellissima, vanno via. Il terzino–ala brasiliano ha deciso di cambiare indirizzo, guadagnare un po’ di più e andare dal suo maestro più importante, Guardiola. La Juventus, Torino e l’Italia sono state un passaggio, un momento che poteva pure portare una vittoria in Europa ma è servito comunque ad andare via da Barcellona senza lasciare troppi strascichi. La maglia numero ventitré assume i contorni di una piccola maledizione, dopo l’esperienza di Arturo Vidal, e adesso dovrà trovare un altro indossatore. Si spera più stabile. Le interviste TV rilasciate ad amici carioca non hanno chiarito le reali motivazioni di quanto avvenuto. Alves ha detto e non detto, spiegato e poi nascosto la mano. L’invito a Dybala di cambiare aria è parso quasi un sasso lanciato nello stagno di vacanze ed estate alle porte. I tifosi si sono arrabbiati il giusto e lui ha aggiunto la smentita di prassi e la società ha gettato acqua sul fuoco. Una rescissione non si nega al giocatore arrivato gratis e se si possono mantenere buoni rapporti perché non farlo. Potrebbe sempre accadere di ritrovarsi avversari. Il mondo è piccolo.
Dani Alves è un brasiliano molto europeo che con la maglia juventina ha fatto bene per meno di dieci settimane. Potevano essere fondamentali per raggiungere il traguardo sperato. Sono servite, adesso, solo a lasciare un ricordo meno amaro. Alves non è Diego o Melo. Alves è della famiglia di Tévez, dei giocatori che hanno speso tutto o quasi e provano a spremere ancora un po’ dalla fortuna e dalle loro gambe vestendo panni diversi, cercando di rimettersi in forma e definendo il mondo che gli sta intorno come loro vogliono. Dani Alves certamente meno importante di Tévez, per la società e i tifosi. Ma è quella razza lì.
Questo ragazzo molto tatuato però potrebbe comunque esser stato utile. Perché forse a Torino, nei piani alti di una società con tante questioni da risolvere, è stato compreso che i campioni altrui è meglio lasciarli scivolare altrove, dove si è più abituati alla confusione, ai balletti, ai messaggi scherzosi. Torino non è Milano e queste operazioni non sono ripetibili ovunque e comunque. Mister Allegri a Torino ha il passo di Trapattoni e non di Ancelotti che nel capoluogo lombardo ci aveva lasciato il cuore e molto altro. Alves non sopportava certe limitazioni? Possibile. Quando però la Juventus ha scelto di ridere troppo, di dimenticare l’aspetto militare e sabaudo è diventata una schifezza da settimo posto o peggio. Si chieda a Delneri quel che vuol dire. Lui che ha vissuto la costruzione dopo il disastro. Alves si porta via il divertimento e anche quella spensieratezza che tanto fa bene a quelli seduti sugli spalti. In squadra certe cose forse non vengono molto ben comprese. Se andranno via altri pezzi importanti della difesa come la si conosce sinora significherà che si è intrapresa una strada. Dove porterà? Lo scopriremo solo alla fine di agosto.

LA MAGLIA DELLA JUVE, DEL 28 GIUGNO 2017
Dani Alves ci saluta e ringrazia, chiedendo scusa per qualche atteggiamento da noi mal interpretato (abbiamo equivocato: abbiamo pensato che consigliare a Dybala di approdare in un’altra squadra per completare la sua crescita non fosse un incentivo alla “Joya” a legarsi a vita alla Juve. Abbiamo pensato che mettere in mostra, a stretto giro di posta dalla delusione di Cardiff, le tue scarpe utilizzate nella finale di Berlino non fosse un modo di sottolineare la tua capacità di vincere la Champions senza e contro la Juve, bensì un prezioso omaggio virtuale ai collezionisti di memorabilia bianconera). Siamo stati ingenui, abbiamo interpretato male. O, forse, abbiamo il cuore meno puro del tuo, forse abbiamo familiarità con l’animo cospiratore. La tua classe, non l’abbiamo mai messa in discussione. La tua decisività nel tratto conclusivo della stagione l’abbiamo sottolineata, eccome. Pensavamo che tu ti sentissi grato di appartenere a un club che aveva già vinto tutti i trofei internazionali quando il Barcellona non aveva mai vinto la Coppa dei Campioni. Pensavamo che tu ti sentissi appagato dal far parte di una formazione dalla storia onusta di gloria e da un presente di altissimo profilo. Pensavamo che lo spirito guerriero della Vecchia ti fosse entrato, seppur in minima parte, nel corredo genetico. Pensavamo che tu, proprio perché campione riconosciuto e avviato alla fase discendente della parabola agonistica, ti prendessi maggiormente a cuore la nostra maglia e ci tenessi a onorarla nel migliore dei modi fino alla fine, comportandoti come un maestro, aiutando i giovani a crescere, dando l’esempio. Pensavamo che tu volessi divenire anche una leggenda juventina. Invece no: ci siamo sbagliati e lo ammettiamo, senza vergogna ma con le gote arrossite per l’errore commesso, un errore un po’ grossolano. Ma sappiamo come gira il mondo, e ci rendiamo conto che, in fondo, in questo calcio può succedere di amare una maglia così tanto da pensare che un giocatore che la veste seppur da poco tempo possa affezionarvisi sinceramente. Del resto, è successo qualche anno fa a un vecchio ragazzo di nome Andrea Pirlo; Andrea Pirlo non venne da noi solo per soldi, venne da noi per vincere, per far vedere al mondo che era ancora Andrea Pirlo. E Andrea Pirlo, in quanto a talento, ti è superiore, e non di poco. Ciao, Dani. Ci sono tanti modi per esternare la purezza dei propri sentimenti. Il tuo, a noi non è piaciuto. In tutto e per tutto. Buon proseguimento, ovunque la tua vena romantica ti porterà.

Il suo saluto: «Mi piacerebbe ringraziare tutti i tifosi della Juventus per l’anno vissuto, i miei compagni per avermi accolto e per essere dei veri professionisti. Grazie a loro questo club vince e arriva alle finali. Credo che il mio rispetto verso questo club e la sua tifoseria è consistito nella mia dedizione, il mio impegno, la mia passione e tutto il mio sforzo per far parte di questa squadra, che cresce ogni giorno. Chiedo scusa a ogni tifoso juventino se hanno pensato che io abbia fatto qualcosa per offenderli, mai ho avuto questa intenzione: ho un modo spontaneo di vivere le cose sicché pochi lo capiscono… Anche se sembra, non sono perfetto, ma il mio cuore è puro. Oggi finisce il nostro rapporto professionale e porterò con me tutti quelli che rendono davvero e di cuore la Juventus un grande club. Come sapete ho il difetto di dire sempre quello che penso e che sento… Io sento che devo dire grazie al signor Marotta per l’opportunità che ho avuto di averlo come dirigente, un grande professionista che ama la sua professione. Io non gioco a calcio per denaro, gioco a calcio perché amo questa professione e rispetto chi la pratica. Amo il calcio e mai il denaro mi tratterrà in qualche posto. Grazie mille!».

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