«Giocherò fino a che mi sento fresco, scattante, nel pieno della forma fisica e morale. Smetterò, tuttavia, non appena mi accorgerò di non essere più questo Del Sol, il vero. Sarò io il primo a capire quando arriva l’uomo del martello, quello che mi costringerà ad attaccare gli scarpini al chiodo».
VLADIMIRO CAMINITI
“Il pianeta Del Sol”, titolò un giornale, forse per la meraviglia di questo podista sempre impegnato a sgobbare, che il dottor Mauro Sgarbi, medico sociale della Juventus, registrò con queste speciose parole: «A che cosa attribuire la sua eccezionale resistenza fisica e la sua lucidità di mente anche in condizioni di lavoro gravoso? Indubbiamente, l’armonico sviluppo di ogni apparato, la perfetta funzione degli organi del circolo e del respiro e la loro facilità di adattamento alle situazioni più critiche determinate da sforzi notevoli, l’elevata soglia del lavoro aerobico e la facilità di recupero nei brevi momenti di riposo sono fattori della massima importanza nel conseguimento di prestazioni atletiche di altissimo livello».
Ci si chiedeva in quei giorni come avesse potuto il Real Madrid rinunciare a un giocatore del valore di Del Sol. In tribuna stampa, diverse erano le correnti di pensiero. Luis Del Sol di Siviglia, rappresentava nel calcio l’altra faccia della medaglia. Da una parte i fuoriclasse patentati: Di Stéfano e Kopa in testa; dall’altra, quelli che si esprimono faticando: in testa Del Sol; la fatica di chi è meno dotato di genio, di fantasia, di piede e supplisce con il resto. Una tesi di comodo per chi il calcio andava a guardarlo per capire il contributo alla partita, reale e non fittizio, di ciascun giocatore. La tesi di chi eternamente ha confuso stile con classe. In certi momenti della sua recitazione, Del Sol poteva rassomigliare a un botolo ringhioso; ma guardatelo quando va a “matare” il suo nemico Suarez in uno struggente pomeriggio di dicembre al Comunale stipatissimo.
22 dicembre 1963, il capolavoro di Del Sol in maglia bianconera, forse, è questo. Juventus-Inter 4-1. Si sta parlando dell’Inter primatista di tutto. Non dimenticherò mai la sua partita disegnata attraverso corse e rincorse belluine, con un dribbling di possesso reiterato, con finte, contro finte, tocchi e lanci misurati; un piede svelto e protervo; una dedizione assoluta; un estro, una fantasia ribaldi. Ricordo che, nella mia prosa su “Tuttosport”, vedevo piccoli coltelli sivigliani mulinare nella corsa sbalorditiva del podista spagnolo. Luisito Suarez fu affettato per bene. Quella vittoria della Juventus fu il capolavoro di Del Sol. Riassumerne lo stile è facile e al contempo difficile.
Lo scudetto, che la Juventus si meritò sul petto nel campionato 1966-67, fu suo merito nella misura del suo prodigarsi, che era immenso. L’allenatore, convocato da quei dirigenti, per iniziare il dopo Sivori, era un messere stravagante e persecutorio, il paraguaiano Heriberto e si sa come Del Sol ci ebbe qualche volta da ridire. Vicende forse ingrandite dalla fantasia popolare, ma è pur certo che Heriberto arrivava perfino a lamentarsi di un “professional” così puntiglioso e garantito al mille per mille. Che poi anche Luis amasse il grissino o la sigaretta ogni tanto, è pacifico.
Anzolin; Gori e Leoncini; Bercellino, Castano e Salvadore; Favalli, Del Sol, Zigoni, Cinesinho e Menichelli. Fu una Juventus tempestata di rincorse prodigiose, perché l’inseguimento all’Inter, tanto più dotata di tecnica e di favori divini, potesse andare a buon fine.
Infallibilmente, con gli anni, Del Sol dovette arretrare la linea di demarcazione del suo gioco; per dirigere da dietro la pattuglia; e spariva all’inizio dell’era Boniperti, dopo aver giocato 292 volte con appena ventinove goal, molti di più, in conclusione, di quelli che, nella sua carriera di cursore perfino più proficuo, avrebbe segnato poi il suo allievo migliore, che arrivò in tempo ad ammirarlo negli allenamenti.
E mai ne avrebbe scordato l’insegnamento, Furino. Il sivigliano silenzioso e un po’ torvo, la fronte, come gli occhi, sempre bassa, sul pallone da domare, aveva portato nella Juventus il senso del dovere sul piano tattico e della disciplina comportamentale; che diventa alla domenica basilare nel contributo alla fatica di tutti. E naturalmente per chi non confonde stile con classe, Del Sol aveva anche classe; non portava la valigia a Di Stéfano; era stato preminente per fabbricare la grandezza del Real.
GIUSEPPE FURINO
«Professionista impegnato, un compagno nel senso completo della parola, un motore che divora chilometri senza pause, pronto ad aiutarti in caso di necessità. Quando arriva alla Juventus, io sto giocando nelle giovanili. Lo vedo e imparo. È un esempio, un punto di riferimento. Oltre alla gran voglia di correre ha voglia di vivere con intensità i giorni che ha davanti. Gli piace mangiare, fumare e divertirsi. In campo non risente di queste concessioni, peraltro legittime».
ERNESTO CASTANO
«Del Sol è il più grande professionista che abbia conosciuto, fisicamente era un fenomeno. Eppure nel mangiare non si tratteneva per niente, mangiava pesce fritto, salame, paella. Fumava. Ma in campo dal martedì alla domenica correva più di tutti noi. Aveva grinta, non aveva paura di nessuno, avrebbe potuto sfidare a pugni Charles, era un pezzo di marmo. Terribile nell’ira e generosissimo con gli amici. Una volta, a Sofia, contro il Plovdiv, Stacchini era incappato in un terzino che non finiva di menarlo. Finché Gino si ribellò: quello voleva dargli il resto tanto che Stacchini, spaventato, si mise a gridare al soccorso. Chiamò Del Sol che andò dall’avversario e lo sfidò a venire a Torino per la partita del ritorno. Venne, ma al primo intervento, lo prendemmo in mezzo, io e Luis. Uscì azzoppato. Con Del Sol ho giocato otto anni e partite splendide. Eravamo una forte squadra».
GIANNI GIACONE, DA “HURRÀ JUVENTUS” DELL’AGOSTO 1974
C’era in Europa una squadra di super assi che vinceva tutto ed esaltava platee immense, rievocando le gesta dei pionieri, ed era il Real Madrid. Di Stéfano gran centravanti, e Puskás rifinitore dalla classe cristallina, e Gento estrema guizzante e imprendibile. La Coppa dei Campioni, gioco nuovo e affascinante, sembrava fatta apposta per questi tremebondi esponenti del calcio spagnolo. Ma il Real non era soltanto questi tre: se ne accorse, tra le altre, proprio la Juve, che incontrò i madrileni e cedette di misura dopo una drammatica partita di spareggio al Parco dei Principi di Parigi.
Il motore, la fonte del gioco, in questa super squadra, era un sivigliano piccoletto, buona tecnica ma niente di trascendentale se confrontata con quella di certi suoi compagni summenzionati. Si chiamava Del Sol, e tutti lo chiamavano Postino per il suo gran correre a consegnare raccomandate goal ai compagni di punta. Quando la Juve riuscì a vincere la concorrenza di altre società italiane accaparrandoselo per il campionato 1962-63, qualcuno obiettò che si trattava di un giocatore presumibilmente sul viale del tramonto, a ventisette anni, e che tutto sommato sarebbe stato meglio acquistare un uomo goal da affiancare a Sivori piuttosto che un centrocampista per di più già sazio di trionfi.
Evidentemente, i fatti diedero torto a questi criticoni e ragione a quanti caldeggiarono l’acquisto: ma probabilmente neppure questi ultimi si resero conto di quanto sarebbe stato importante Del Sol per quella Juve non più dominatrice della scena calcistica e tenacemente protesa a riconquistare le posizioni perdute.
Ci sono calciatori che, pur bravissimi, male si adattano alla realtà del nostro campionato, e altri che invece sembrano fatti apposta per il clima particolare del calcio italiano. Quel campionato 1962-63 ne propose parecchi, dell’una e dell’altra categoria. Del Sol, un mese dopo aver messo piede in Italia, scoprì improvvisamente origini pedatorie tipicamente piemontesi, e più propriamente vercellesi, e nessuno si ricordò più di Siviglia e del Real Madrid. La Juve aveva trovato un faro capace di pilotare la pattuglia di Amaral in porti tranquilli e di ottenere pure consistenti soddisfazioni.
Del Sol trova Sivori, uno degli ultimi Sivori di ambizioni bellicose e dunque pimpante, e le cose, a queste condizioni, non possono che andare bene. Ci sono problemi di impostazione, di adattamento agli schemi che il nuovo Trainer Pablo Amaral vuole far applicare alla truppa, ma alla fin fine questa Juve, che pure non tiene ambizioni da spaccamontagne essendo reduce da un’annata più che balorda, sa farsi rispettare. Del Sol si presenta ai torinesi in un buio pomeriggio di settembre, buio per via delle nuvole e ancor più per via dell’andamento di quel Juve-Atalanta 2-3, che rievoca ai supporter i fantasmi del recentissimo passato infausto.
E però la sua prestazione è convincente, e alla peggio è pur sempre suo il goal più bello, segno che oltre che a correre Luis è pure buono a risolvere questioni in area di rigore. La squadra si ritrova, quasi bruscamente in occasione del successivo incontro casalingo con la capolista Bologna: 3-1, con applausi per Sivori nelle vesti modeste di suggeritore, e per un certo Siciliano, centravanti di belle speranze chiamato provvisoriamente in squadra in attesa dell’arrivo dal Brasile di Miranda poi detto Mirandone.
E Del Sol che fa? Corre; che diamine, e copre da solo fasce smisurate di campo. Fogli, che dovrebbe incrociare le armi con lui, a un certo punto, si pianta in mezzo al campo e dice basta, e da quel momento la Juve è padrona del campo. Andiamo oltre, il primo campionato in bianconero di Luis sarebbe tubo da chiosare, tant’è nuovo il tipo di “professional” impersonato da questo spagnolo coriaceo, da questo Filippide che probabilmente, arrivato ad Atene e data la notizia che sapete, sarebbe tornato a Maratona per raccontare le accoglienze ai compagni.
La Juve innesta le marce alte e dà la scalata alle prime posizioni, dove Inter e Bologna si sono insediate stabilmente: 28 ottobre, Juve batte Toro 1-0, i granata (che erano stati pure loro in lizza per acquistare lo spagnolo dal Real) ammirano un Del Sol scatenato. 18 novembre, qui la cronaca è affiancata dall’aneddottica, state a sentire. Si gioca Juve-Milan, e i bianconeri disputano un secondo tempo da favola, che la TV diffonde in differita, la sera. Telecronista è Nicolò Carosio, più in forma che mai. Sarà la sua voce a consegnare televisivamente alla leggenda, per la prima volta, il Del Sol juventino.
«Parte in quarta De Sol», urla a un certo punto il buon Carosio, impressionato dal gran ritmo imposto al gioco da questo centrocampista di ferro. Parte e pare non fermarsi mai, tanta è la voglia di giocare. Ma il clou di questa sua grande stagione d’esordio Luis lo raggiunge in occasione di Bologna-Juventus, 10 febbraio 1963. Una prestazione memorabile, premiata da un goal magistrale, per una Juve che magari non vincerà lo scudetto, ma che certo ha fatto dimenticare le amarezze del torneo precedente.
Trentatré presenze ha assommato Luis all’anno primo della sua esperienza juventina. Ancora trentatré ne conterà l’anno dopo, campionato zeppo di malumori e di controsensi tecnici, in cui finirà invischiata persino la grinta podistica del sivigliano. Il quale, comunque, dimostra di saperci fare anche in zona goal: sei reti il primo anno, altre sei il secondo, segno di una costanza encomiabile. La squadra ha sprazzi di grandezza, e in quelle occasioni Del Sol si esalta sino a distruggere la concorrenza, ancorché illustre. 22 dicembre, esempio classico di come si possano capovolgere situazioni tecniche scontate, di come i pronostici siano destinati a saltare di fronte all’imponderabile della classe.
La Juve c’è e non c’è, ma quel giorno, contro l’Inter campione, decide di esserci, e finisce in trionfo per i bianconeri, trascinati da un Del Sol semplicemente mostruoso. Il suo avversario, nonché compaesano, Suarez, finisce in cottura nel disperato tentativo di arginare sul piano dinamico un Del Sol in giornata di grazia, che corre per tutti e segna pure due goal. Il guaio di quella Juve è che di altri cursori non se ne vedono, e che spesso i sacrifici di Del Sol non bastano a tener su la baracca. Ci penserà, presto, il “movimiento” di Heriberto, a risolvere questo problema.
Il 1964-65 propone una Juve diversa, bloccata in difesa e viva a metà campo: non si può pretendere di trovare subito la formula giusta, ma intanto è tutt’altro vedere il gioco juventino. 1965-66, è cominciata bene la stagione, con una Coppa Italia vinta, certo che De Sol ha fatto la sua parte: adesso, a fare coppia con lui, è arrivato Cinesinho, pure lui non più giovanissimo, e si avanzano dubbi sulla tenuta degli interni bianconeri. Dubbi che svaniscono presto, però; il “movimiento” sopperisce alle carenze di fraseggio e di estro della squadra, che può così competere a certi livelli prendendo le misure dell’Inter in vista del grande salto di qualità dell’anno dopo.
Ventinove presenze per Del Sol, i trentuno anni esistono solo sul passaporto, la realtà è un campione con i piedi e i polmoni di un ventenne, Del Sol ha ancora molto da dare ai tifosi della “Zebra”.
Il tredicesimo scudetto è tutto riassunto nelle poderose rincorse di questo sivigliano, nella rabbia e nella determinazione di una squadra che fortissimamente vuole primeggiare. Non c’è pausa nella rincorsa della Juve all’Inter come non c’è pausa, in partita, per le scorribande di Del Sol. Adesso, lo spagnolo ha fatto progressi anche in acume tattico, e le sue mosse, pur condotte sempre su ritmi impressionanti, rispondono a un preciso piano di manovra. Si lucrano risultati decisivi anche senza sommergere gli avversari sotto valanghe di goal, e alla fine i conti tornano: il tredicesimo scudetto è vinto sul traguardo.
Ventotto volte presente, Del Sol ha raggiunto l’apogeo della sua carriera juventina. Lo scudetto va diviso tra tutti, c’è Bercellino e Castano e Anzolin pochissimo trafitto e Cinesinho, ma Del Sol merita riguardo sopra gli altri per l’incredibile continuità d’azione. Ha fatto di tutto, il mediano e l’ala tornante, ha alternato prestazioni sfavillanti ad altre anche più importanti di oscuro lavoro in fase di interdizione. Si ripeterà su questi livelli anche per buona parte del campionato successivo.
Il 1967-68 è ancora anno positivo, c’è un terzo posto in campionato e c’è soprattutto la prima convincente esperienza in Coppa dei Campioni. Episodio chiave quello di Juve-Eintracht, match di ritorno dei quarti: 0-0 a pochissimo dalla fine, significherebbe eliminazione per la squadra bianconera sconfitta 2-3 in Germania.
Del Sol, a questo punto, inventa una delle più pazzesche serpentine, cercando con ostinazione il goal. Oppure il rigore: che diventa inevitabile nel momento in cui gli avversari, che non sanno che pesci pigliare, stroncano con le cattive la sua azione irresistibile. In campionato, si segnala per un eccellente finale, che lo vede più che mai protagonista. Come protagonista era stato all’inizio: chi non ricorda la sua prestazione, nel ruolo di libero per forza, dopo un grave infortunio, a San Siro, contro il Milan?
Ma il tempo vola, il 1968-69 è estemporaneo come la vena di Zigoni o quella di Haller, non bastano i guizzi di Pietruzzo Anastasi. Molto meglio il 1969-70, canto del cigno per parecchi della vecchia guardia bianconera, e per Del Sol segnatamente. Luis chiude alla grande: mediano, mezzala, persino ala, è venticinque volte presente nella squadra che ritrova il gusto del gioco e dei goal. Accanto al vecchio cursore, si affaccia alla ribalta il nuovo podista, e lo stile di Furino detto Furia non si discosta da quello di Del Sol. Dalla tribuna, succede talvolta di confondere i due, l’incedere uguale, la grinta pure.
Furino impara presto e bene, la Juve che alla fine del torneo, per questioni di età ed anche perché Del Sol rientra nel grande giro che porta in bianconero Capello, Spinosi e Landini, dovrà privarsi del suo grande spagnolo, trova in casa, bell’è pronto, il suo erede naturale. Il 1969-70 del passaggio di consegne è per Luis anno ancora denso di soddisfazioni.
Un degno finale per un campione autentico. Le cifre (otto campionati in maglia bianconera, 228 presenze, venti goal) dicono molto poco di questo spagnolo dal grande talento, che di scudetti ne vince in fondo uno solo, essendo quelli per la Juve anni non esaltanti ancorché positivi. Il ricordo, vivo, del supporter può meglio di ogni altra cosa, dare al campione quanto gli spetta.
ANDREA NOCINI, PIANETA-DA CALCIO.IT DEL 19 DICEMBRE 2012
Nato con la camicia o “camiseta” per dirla alla spagnola o con la camiciona, la casacca bianconera degli anni Sessanta, perché esce da una favola (quella del Real Madrid) per entrare in un’altra (quella della Juventus di Omar Sivori, del paraguagio Heriberto Herrera, il padre del “movimiento”, di Tino Castano, di Gino Stacchini, del dottor Umberto Agnelli). Centrocampista più di difesa che di attacco, si porta alla “Zebra” la dote dell’appellativo appioppatogli da Alfredo Di Stéfano di “postino del gioco”. Il fondista Del Sol ringrazia Don Santiago Bernabéu, lo venera ancora adesso a distanza di oltre mezzo secolo, ma trabocca di riconoscenza per la famiglia Agnelli.
Un vulcano ancora adesso, magmatico di complimenti e di nostalgia verso quella che è stata la vera palestra della sua vita («Sono un uomo che il calcio ha reso felice!»). Non ha vinto molto nella Juve, ma, dall’intervista si capisce quanto gli ha dato in cuore, stile e valori l’avventura in bianconero. Un amore-ossessione, puntellata di “perle”, di chicche, di magie che non torneranno più. Nemmeno nel calcio stra-milionario, strapagato di adesso, vissuto meno autenticamente dai suoi attori sempre meno protagonisti, eroi della televisione, certo, ma certamente meno eroi “deamicisiani”, più lontani in tutto dai loro beniamini. Due i Mondiali, Cile 1962 e Inghilterra 1966, sedici le casacche con le “Furie Rosse” e quattro i goal. «Che non erano il mio fine ultimo – racconta – ma il mettere i compagni in grado di buttarla dentro».
Del Sol, qual è stato il ricordo più bello che conserva nella sua carriera di calciatore? «Per me, sono stati i dieci anni in cui sono stato in Italia: non li dimenticherò mai, sempre mi sono trovato, sono stato sempre molto felice».
È stato più felice nella Juventus o nella Roma? «In tutte e due, soltanto che alla Juve sono stato più anni e con i miei compagni bianco-neri eravamo amici in campo e fuori del campo e tutt’oggi ci teniamo in contatto ogni dieci giorni circa».
Più forte la Saeta Rubia o Francisco Gento, il capitano del mitico Real Madrid e il vincitore di ben sei Coppe dei Campioni? «Sono due giocatori diversi: Gento come ala sinistra ai suoi tempi era la più forte ala sinistra del mondo. Però, Di Stéfano non temeva paragoni: era un uomo che lo trovavi all’altezza del calcio di rigore e te lo trovavi in difesa. Era un uomo che stava per tutto il campo».
Il più forte giocatore italiano che ha incontrato? «Rivera, Sivori, Luis Suárez sono stati dei forti giocatori e a quei tempi circolavano parecchi giocatori che erano forti, erano giocatori completi».
Nella Juve, che ricorda del suo presidente il dottor Umberto Agnelli, e dell’avvocato Gianni? «Guardi, sono stati dei presidenti che, purtroppo, per legge di vita, non torneranno più, ma erano uomini che depositavano la fiducia e gente onesta. Erano, ogni tanto, quando meno te lo aspettavi, te li trovavi davanti e ti facevano una visita in ritiro durante la concentrazione».
Quand’è che ha pianto di gioia alla Juve? Quando ha vinto lo scudetto, strappato all’Inter, nel 1967? «No, no, non in quell’occasione, ma, le spiego: io, giocando in una squadra che era un po’ abituata a vincere, allora, non ha sorpreso né me né qualche compagno mio. Ero un giocatore, cui non era facile piangere».
Ci vuole dire che era un duro? «No, non quello, è che quelle vittorie alla Juventus erano cose da mettere in previsione, eventi facilmente pronosticabili. Io ho sempre avuto fiducia nella forza dei miei compagni».
La sua, Luis, era la Juve di Heriberto Herrera e del famoso “movimiento”. «I movimenti a quei tempi erano diventati di moda, ma adesso tante squadre hanno imparato quello che diceva lui, altrimenti, il giocatore rimane statico e deve buttare la palla all’avversario che la intercetta. Invece, il “movimiento”, facilita molto di più il collaborare con i compagni».
Il goal più bello di Luis Del Sol? «Non saprei. Io sono stato un giocatore che non ha dato molta importanza a fare goal, ma a fare il passaggio al compagno; ed era più importante rivestire all’interno di una squadra questo compito».
Era amico con Omar Sivori? «Moltissimo amici, sì molto amici».
E in attacco della sua Juve chi c’era oltre a Omar Sivori? «Gino Stacchini, Dell’Omodarme, Menichelli all’ala sinistra: noi della Juve, in quel periodo lì, eravamo sempre alla ricerca di un centravanti, ma non era facile trovarlo».
La prima cosa che le viene in mente quando pensa all’Italia? «Guardi, io veramente venivo da Madrid, una città molto bella e molto grande come Torino. Abitavo vicino allo stadio, però, gli otto anni in cui sono stato alla Juventus non li dimenticherò mai. Adesso, circa a metà ottobre, sono stato invitato dalla Roma per un evento e sono rimasto per due giorni. Poi, sono andato a Torino e sono stato per sei giorni a trovare i miei compagni del calcio e fuori del calcio».
Cosa ricorda di più quando pensa al suo Real Madrid? «Mai si pensava di andare in campo per perdere: eravamo un gruppo di amici e compagni e scendevamo in campo con una mentalità, con una lotta, con una grinta davvero impressionanti. Eravamo convinti che potevamo farcela: poi, potevamo uscire bene o potevamo uscire male dal campo, ma la mentalità, quella lì, non ci mancava mai».
Senta Luis, non è stato mai espulso? «Sì, a Bologna con la Juve».
Cosa aveva fatto di brutto, sferrato un pugno in faccia all’avversario? «No (sorride) mi sembra di averlo colpito con la testa».
Il più forte giocatore al mondo? «Beh, Pelé: ai suoi tempi era grandissimo».
Più forte di Di Stéfano? «Sono diversi: Di Stéfano per tutta la zona del campo, invece, Pelé giocava da metà in campo in su. Come Rivera, come Sivori. Di Stéfano lo trovavi dappertutto, in difesa, all’ala sinistra, centrocampista, come prima punta e, allora, sono diversi. Anche nel temperamento, nel carattere».
Il più forte in Europa negli anni Sessanta chi era? «Bobby Charlton, un gran calciatore. Perché era veloce e aveva un dribbling che era difficile da fermare. E c’era anche un altro giocatore che era fortissimo: Eusébio del Benfica».
Al presidente del suo Real Madrid, Santiago Bernabéu, hanno addirittura intitolato lo stadio di Madrid. «È stato un presidente grandissimo! Perché era un uomo umile, però, era bravissimo. Poi, Don Santiago è stato un uomo che ha saputo circondarsi di collaboratori in gamba, intelligenti. Parecchi giocatori, che erano assieme a lui, rispecchiavano le sue grandi doti: di intelligenza e di generosità in campo».
E della Roma cosa ricordi? «Della Roma ricordo il presidente, Ginulfi, Scaratti, Amarildo, Zigoni, Cordova».
Chi era il più matto? «(Sorride). Non “loco” no, ma, quello che scherzava di più era Cordova. Che aveva sposato la figlia del presidente della Roma».
Il motore, la fonte del gioco, in questa super squadra, era un sivigliano piccoletto, buona tecnica ma niente di trascendentale se confrontata con quella di certi suoi compagni summenzionati. Si chiamava Del Sol, e tutti lo chiamavano Postino per il suo gran correre a consegnare raccomandate goal ai compagni di punta. Quando la Juve riuscì a vincere la concorrenza di altre società italiane accaparrandoselo per il campionato 1962-63, qualcuno obiettò che si trattava di un giocatore presumibilmente sul viale del tramonto, a ventisette anni, e che tutto sommato sarebbe stato meglio acquistare un uomo goal da affiancare a Sivori piuttosto che un centrocampista per di più già sazio di trionfi.
Evidentemente, i fatti diedero torto a questi criticoni e ragione a quanti caldeggiarono l’acquisto: ma probabilmente neppure questi ultimi si resero conto di quanto sarebbe stato importante Del Sol per quella Juve non più dominatrice della scena calcistica e tenacemente protesa a riconquistare le posizioni perdute.
Ci sono calciatori che, pur bravissimi, male si adattano alla realtà del nostro campionato, e altri che invece sembrano fatti apposta per il clima particolare del calcio italiano. Quel campionato 1962-63 ne propose parecchi, dell’una e dell’altra categoria. Del Sol, un mese dopo aver messo piede in Italia, scoprì improvvisamente origini pedatorie tipicamente piemontesi, e più propriamente vercellesi, e nessuno si ricordò più di Siviglia e del Real Madrid. La Juve aveva trovato un faro capace di pilotare la pattuglia di Amaral in porti tranquilli e di ottenere pure consistenti soddisfazioni.
Del Sol trova Sivori, uno degli ultimi Sivori di ambizioni bellicose e dunque pimpante, e le cose, a queste condizioni, non possono che andare bene. Ci sono problemi di impostazione, di adattamento agli schemi che il nuovo Trainer Pablo Amaral vuole far applicare alla truppa, ma alla fin fine questa Juve, che pure non tiene ambizioni da spaccamontagne essendo reduce da un’annata più che balorda, sa farsi rispettare. Del Sol si presenta ai torinesi in un buio pomeriggio di settembre, buio per via delle nuvole e ancor più per via dell’andamento di quel Juve-Atalanta 2-3, che rievoca ai supporter i fantasmi del recentissimo passato infausto.
E però la sua prestazione è convincente, e alla peggio è pur sempre suo il goal più bello, segno che oltre che a correre Luis è pure buono a risolvere questioni in area di rigore. La squadra si ritrova, quasi bruscamente in occasione del successivo incontro casalingo con la capolista Bologna: 3-1, con applausi per Sivori nelle vesti modeste di suggeritore, e per un certo Siciliano, centravanti di belle speranze chiamato provvisoriamente in squadra in attesa dell’arrivo dal Brasile di Miranda poi detto Mirandone.
E Del Sol che fa? Corre; che diamine, e copre da solo fasce smisurate di campo. Fogli, che dovrebbe incrociare le armi con lui, a un certo punto, si pianta in mezzo al campo e dice basta, e da quel momento la Juve è padrona del campo. Andiamo oltre, il primo campionato in bianconero di Luis sarebbe tubo da chiosare, tant’è nuovo il tipo di “professional” impersonato da questo spagnolo coriaceo, da questo Filippide che probabilmente, arrivato ad Atene e data la notizia che sapete, sarebbe tornato a Maratona per raccontare le accoglienze ai compagni.
La Juve innesta le marce alte e dà la scalata alle prime posizioni, dove Inter e Bologna si sono insediate stabilmente: 28 ottobre, Juve batte Toro 1-0, i granata (che erano stati pure loro in lizza per acquistare lo spagnolo dal Real) ammirano un Del Sol scatenato. 18 novembre, qui la cronaca è affiancata dall’aneddottica, state a sentire. Si gioca Juve-Milan, e i bianconeri disputano un secondo tempo da favola, che la TV diffonde in differita, la sera. Telecronista è Nicolò Carosio, più in forma che mai. Sarà la sua voce a consegnare televisivamente alla leggenda, per la prima volta, il Del Sol juventino.
«Parte in quarta De Sol», urla a un certo punto il buon Carosio, impressionato dal gran ritmo imposto al gioco da questo centrocampista di ferro. Parte e pare non fermarsi mai, tanta è la voglia di giocare. Ma il clou di questa sua grande stagione d’esordio Luis lo raggiunge in occasione di Bologna-Juventus, 10 febbraio 1963. Una prestazione memorabile, premiata da un goal magistrale, per una Juve che magari non vincerà lo scudetto, ma che certo ha fatto dimenticare le amarezze del torneo precedente.
Trentatré presenze ha assommato Luis all’anno primo della sua esperienza juventina. Ancora trentatré ne conterà l’anno dopo, campionato zeppo di malumori e di controsensi tecnici, in cui finirà invischiata persino la grinta podistica del sivigliano. Il quale, comunque, dimostra di saperci fare anche in zona goal: sei reti il primo anno, altre sei il secondo, segno di una costanza encomiabile. La squadra ha sprazzi di grandezza, e in quelle occasioni Del Sol si esalta sino a distruggere la concorrenza, ancorché illustre. 22 dicembre, esempio classico di come si possano capovolgere situazioni tecniche scontate, di come i pronostici siano destinati a saltare di fronte all’imponderabile della classe.
La Juve c’è e non c’è, ma quel giorno, contro l’Inter campione, decide di esserci, e finisce in trionfo per i bianconeri, trascinati da un Del Sol semplicemente mostruoso. Il suo avversario, nonché compaesano, Suarez, finisce in cottura nel disperato tentativo di arginare sul piano dinamico un Del Sol in giornata di grazia, che corre per tutti e segna pure due goal. Il guaio di quella Juve è che di altri cursori non se ne vedono, e che spesso i sacrifici di Del Sol non bastano a tener su la baracca. Ci penserà, presto, il “movimiento” di Heriberto, a risolvere questo problema.
Il 1964-65 propone una Juve diversa, bloccata in difesa e viva a metà campo: non si può pretendere di trovare subito la formula giusta, ma intanto è tutt’altro vedere il gioco juventino. 1965-66, è cominciata bene la stagione, con una Coppa Italia vinta, certo che De Sol ha fatto la sua parte: adesso, a fare coppia con lui, è arrivato Cinesinho, pure lui non più giovanissimo, e si avanzano dubbi sulla tenuta degli interni bianconeri. Dubbi che svaniscono presto, però; il “movimiento” sopperisce alle carenze di fraseggio e di estro della squadra, che può così competere a certi livelli prendendo le misure dell’Inter in vista del grande salto di qualità dell’anno dopo.
Ventinove presenze per Del Sol, i trentuno anni esistono solo sul passaporto, la realtà è un campione con i piedi e i polmoni di un ventenne, Del Sol ha ancora molto da dare ai tifosi della “Zebra”.
Il tredicesimo scudetto è tutto riassunto nelle poderose rincorse di questo sivigliano, nella rabbia e nella determinazione di una squadra che fortissimamente vuole primeggiare. Non c’è pausa nella rincorsa della Juve all’Inter come non c’è pausa, in partita, per le scorribande di Del Sol. Adesso, lo spagnolo ha fatto progressi anche in acume tattico, e le sue mosse, pur condotte sempre su ritmi impressionanti, rispondono a un preciso piano di manovra. Si lucrano risultati decisivi anche senza sommergere gli avversari sotto valanghe di goal, e alla fine i conti tornano: il tredicesimo scudetto è vinto sul traguardo.
Ventotto volte presente, Del Sol ha raggiunto l’apogeo della sua carriera juventina. Lo scudetto va diviso tra tutti, c’è Bercellino e Castano e Anzolin pochissimo trafitto e Cinesinho, ma Del Sol merita riguardo sopra gli altri per l’incredibile continuità d’azione. Ha fatto di tutto, il mediano e l’ala tornante, ha alternato prestazioni sfavillanti ad altre anche più importanti di oscuro lavoro in fase di interdizione. Si ripeterà su questi livelli anche per buona parte del campionato successivo.
Il 1967-68 è ancora anno positivo, c’è un terzo posto in campionato e c’è soprattutto la prima convincente esperienza in Coppa dei Campioni. Episodio chiave quello di Juve-Eintracht, match di ritorno dei quarti: 0-0 a pochissimo dalla fine, significherebbe eliminazione per la squadra bianconera sconfitta 2-3 in Germania.
Del Sol, a questo punto, inventa una delle più pazzesche serpentine, cercando con ostinazione il goal. Oppure il rigore: che diventa inevitabile nel momento in cui gli avversari, che non sanno che pesci pigliare, stroncano con le cattive la sua azione irresistibile. In campionato, si segnala per un eccellente finale, che lo vede più che mai protagonista. Come protagonista era stato all’inizio: chi non ricorda la sua prestazione, nel ruolo di libero per forza, dopo un grave infortunio, a San Siro, contro il Milan?
Ma il tempo vola, il 1968-69 è estemporaneo come la vena di Zigoni o quella di Haller, non bastano i guizzi di Pietruzzo Anastasi. Molto meglio il 1969-70, canto del cigno per parecchi della vecchia guardia bianconera, e per Del Sol segnatamente. Luis chiude alla grande: mediano, mezzala, persino ala, è venticinque volte presente nella squadra che ritrova il gusto del gioco e dei goal. Accanto al vecchio cursore, si affaccia alla ribalta il nuovo podista, e lo stile di Furino detto Furia non si discosta da quello di Del Sol. Dalla tribuna, succede talvolta di confondere i due, l’incedere uguale, la grinta pure.
Furino impara presto e bene, la Juve che alla fine del torneo, per questioni di età ed anche perché Del Sol rientra nel grande giro che porta in bianconero Capello, Spinosi e Landini, dovrà privarsi del suo grande spagnolo, trova in casa, bell’è pronto, il suo erede naturale. Il 1969-70 del passaggio di consegne è per Luis anno ancora denso di soddisfazioni.
Un degno finale per un campione autentico. Le cifre (otto campionati in maglia bianconera, 228 presenze, venti goal) dicono molto poco di questo spagnolo dal grande talento, che di scudetti ne vince in fondo uno solo, essendo quelli per la Juve anni non esaltanti ancorché positivi. Il ricordo, vivo, del supporter può meglio di ogni altra cosa, dare al campione quanto gli spetta.
ANDREA NOCINI, PIANETA-DA CALCIO.IT DEL 19 DICEMBRE 2012
Nato con la camicia o “camiseta” per dirla alla spagnola o con la camiciona, la casacca bianconera degli anni Sessanta, perché esce da una favola (quella del Real Madrid) per entrare in un’altra (quella della Juventus di Omar Sivori, del paraguagio Heriberto Herrera, il padre del “movimiento”, di Tino Castano, di Gino Stacchini, del dottor Umberto Agnelli). Centrocampista più di difesa che di attacco, si porta alla “Zebra” la dote dell’appellativo appioppatogli da Alfredo Di Stéfano di “postino del gioco”. Il fondista Del Sol ringrazia Don Santiago Bernabéu, lo venera ancora adesso a distanza di oltre mezzo secolo, ma trabocca di riconoscenza per la famiglia Agnelli.
Un vulcano ancora adesso, magmatico di complimenti e di nostalgia verso quella che è stata la vera palestra della sua vita («Sono un uomo che il calcio ha reso felice!»). Non ha vinto molto nella Juve, ma, dall’intervista si capisce quanto gli ha dato in cuore, stile e valori l’avventura in bianconero. Un amore-ossessione, puntellata di “perle”, di chicche, di magie che non torneranno più. Nemmeno nel calcio stra-milionario, strapagato di adesso, vissuto meno autenticamente dai suoi attori sempre meno protagonisti, eroi della televisione, certo, ma certamente meno eroi “deamicisiani”, più lontani in tutto dai loro beniamini. Due i Mondiali, Cile 1962 e Inghilterra 1966, sedici le casacche con le “Furie Rosse” e quattro i goal. «Che non erano il mio fine ultimo – racconta – ma il mettere i compagni in grado di buttarla dentro».
Del Sol, qual è stato il ricordo più bello che conserva nella sua carriera di calciatore? «Per me, sono stati i dieci anni in cui sono stato in Italia: non li dimenticherò mai, sempre mi sono trovato, sono stato sempre molto felice».
È stato più felice nella Juventus o nella Roma? «In tutte e due, soltanto che alla Juve sono stato più anni e con i miei compagni bianco-neri eravamo amici in campo e fuori del campo e tutt’oggi ci teniamo in contatto ogni dieci giorni circa».
Più forte la Saeta Rubia o Francisco Gento, il capitano del mitico Real Madrid e il vincitore di ben sei Coppe dei Campioni? «Sono due giocatori diversi: Gento come ala sinistra ai suoi tempi era la più forte ala sinistra del mondo. Però, Di Stéfano non temeva paragoni: era un uomo che lo trovavi all’altezza del calcio di rigore e te lo trovavi in difesa. Era un uomo che stava per tutto il campo».
Il più forte giocatore italiano che ha incontrato? «Rivera, Sivori, Luis Suárez sono stati dei forti giocatori e a quei tempi circolavano parecchi giocatori che erano forti, erano giocatori completi».
Nella Juve, che ricorda del suo presidente il dottor Umberto Agnelli, e dell’avvocato Gianni? «Guardi, sono stati dei presidenti che, purtroppo, per legge di vita, non torneranno più, ma erano uomini che depositavano la fiducia e gente onesta. Erano, ogni tanto, quando meno te lo aspettavi, te li trovavi davanti e ti facevano una visita in ritiro durante la concentrazione».
Quand’è che ha pianto di gioia alla Juve? Quando ha vinto lo scudetto, strappato all’Inter, nel 1967? «No, no, non in quell’occasione, ma, le spiego: io, giocando in una squadra che era un po’ abituata a vincere, allora, non ha sorpreso né me né qualche compagno mio. Ero un giocatore, cui non era facile piangere».
Ci vuole dire che era un duro? «No, non quello, è che quelle vittorie alla Juventus erano cose da mettere in previsione, eventi facilmente pronosticabili. Io ho sempre avuto fiducia nella forza dei miei compagni».
La sua, Luis, era la Juve di Heriberto Herrera e del famoso “movimiento”. «I movimenti a quei tempi erano diventati di moda, ma adesso tante squadre hanno imparato quello che diceva lui, altrimenti, il giocatore rimane statico e deve buttare la palla all’avversario che la intercetta. Invece, il “movimiento”, facilita molto di più il collaborare con i compagni».
Il goal più bello di Luis Del Sol? «Non saprei. Io sono stato un giocatore che non ha dato molta importanza a fare goal, ma a fare il passaggio al compagno; ed era più importante rivestire all’interno di una squadra questo compito».
Era amico con Omar Sivori? «Moltissimo amici, sì molto amici».
E in attacco della sua Juve chi c’era oltre a Omar Sivori? «Gino Stacchini, Dell’Omodarme, Menichelli all’ala sinistra: noi della Juve, in quel periodo lì, eravamo sempre alla ricerca di un centravanti, ma non era facile trovarlo».
La prima cosa che le viene in mente quando pensa all’Italia? «Guardi, io veramente venivo da Madrid, una città molto bella e molto grande come Torino. Abitavo vicino allo stadio, però, gli otto anni in cui sono stato alla Juventus non li dimenticherò mai. Adesso, circa a metà ottobre, sono stato invitato dalla Roma per un evento e sono rimasto per due giorni. Poi, sono andato a Torino e sono stato per sei giorni a trovare i miei compagni del calcio e fuori del calcio».
Cosa ricorda di più quando pensa al suo Real Madrid? «Mai si pensava di andare in campo per perdere: eravamo un gruppo di amici e compagni e scendevamo in campo con una mentalità, con una lotta, con una grinta davvero impressionanti. Eravamo convinti che potevamo farcela: poi, potevamo uscire bene o potevamo uscire male dal campo, ma la mentalità, quella lì, non ci mancava mai».
Senta Luis, non è stato mai espulso? «Sì, a Bologna con la Juve».
Cosa aveva fatto di brutto, sferrato un pugno in faccia all’avversario? «No (sorride) mi sembra di averlo colpito con la testa».
Il più forte giocatore al mondo? «Beh, Pelé: ai suoi tempi era grandissimo».
Più forte di Di Stéfano? «Sono diversi: Di Stéfano per tutta la zona del campo, invece, Pelé giocava da metà in campo in su. Come Rivera, come Sivori. Di Stéfano lo trovavi dappertutto, in difesa, all’ala sinistra, centrocampista, come prima punta e, allora, sono diversi. Anche nel temperamento, nel carattere».
Il più forte in Europa negli anni Sessanta chi era? «Bobby Charlton, un gran calciatore. Perché era veloce e aveva un dribbling che era difficile da fermare. E c’era anche un altro giocatore che era fortissimo: Eusébio del Benfica».
Al presidente del suo Real Madrid, Santiago Bernabéu, hanno addirittura intitolato lo stadio di Madrid. «È stato un presidente grandissimo! Perché era un uomo umile, però, era bravissimo. Poi, Don Santiago è stato un uomo che ha saputo circondarsi di collaboratori in gamba, intelligenti. Parecchi giocatori, che erano assieme a lui, rispecchiavano le sue grandi doti: di intelligenza e di generosità in campo».
E della Roma cosa ricordi? «Della Roma ricordo il presidente, Ginulfi, Scaratti, Amarildo, Zigoni, Cordova».
Chi era il più matto? «(Sorride). Non “loco” no, ma, quello che scherzava di più era Cordova. Che aveva sposato la figlia del presidente della Roma».
1 commento:
Luis Del Sol
C’era una volta in Europa una squadra che vinceva tutto quasi rievocando le gesta memorabili degli eroi da leggenda. La Coppa dei Campioni era questione di Rial e Gento. Eppure nel bel mezzo di questi funamboli giocatori spagnoli correva mostruoso un piccoletto sivigliano con nome e faccia di cui solo il parlare mitico può rendere l’idea: Luis Del Sol nato il 6 aprile del 1935. Lo chiamavano “il postino” per via del podismo olimpico in ogni zona del campo e una grandissima abilità nel distribuire a getto continuo palloni e passaggi per tutti i compagni di punta. Che spettacolo quel mediano di centrocampo trotterellante a gambe di leggero divaricate e rapide non solo a frenare campioni teoricamente immarcabili. Luis correva in modo belluino al recupero e quando partiva al rilancio della manovra nulla poteva qualunque avversario che gli si avvicinava perché al dribbling di possesso reiterato opporsi era inutile. Questo vuol dire “mediano tecnico” dall’appoggio preciso. E finito il compito già lo rivedi a cantrocampo. Del Sol è intelligente e non prosegue l’azione del compagno attaccante. Ritorna subito dov’era e non lascia vuota quella zona pericolosa che appunto è la zona mediana. Egli sa bene e prevede l’eventuale respinta per cui è già lì prontissimo a coprire e prontissimo a rilanciare. Il sivigliano torvo giunse a Torino e trovò Omar Sivori. Nulla cambia quando lasci i funamboli del Real e ne trovi un altro che vale per tutti. Suarez già lo conosce ma Rivera lo capisce troppo tardi e quando gioca Del Sol è finita: del pallone vedi appena l’ombra o lo ritrovi in rete come spesso accade. Quel botolo ringhioso del Real campione europeo e del mondo è capace anche di gol strepitosi. Il medico sociale della Juve mai conobbe un atleta simile e cerca in ogni modo il segreto in quel giocatore dal fisico particolarmente raccolto non di alta statura. Ma il segreto altro non è che un armonico apparato muscolare di eccellente resistenza. Quando gli gira per la mente il pensiero della rete la preannuncia il repertorio: lo scatto repentino. Ricordate la voce del buon Carosio: “parte in quarta Del Sol”? Era il 22 dicembre del 1963 in un Comunale straripante: Juve 4 Inter 1. Suarez ignorato e imbambolato guarda Luis Del Sol per due volte in rete. Possiamo affermare che il 13° scudetto è completamente nel poderoso maratoneta. E chi non ricorda quando ricopriva il ruolo di libero? Ma il tempo fugge e il 1970 annuncia la fine di un campione autentico.
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