«La Juventus è un grandissimo club, che mi ha ridato la vita e le speranze che avevo perso da tempo, sia da calciatore che da uomo. Questa sarà sempre la mia casa. Ho vissuto questi anni da re grazie e voi e alla Società, siete una grande famiglia e vi terrò stretti nel mio cuore. Anche senza di me continuerete a vincere trofei su trofei, è lo spirito bianconero vincere! Al di là del mio futuro che sembra oramai segnato, volevo dirvi queste parole. Tiferò la Juve per tutta la vita!».
Sono le 21:05 del 24 giugno 2015 e con questo messaggio via Twitter, Carlitos Tévez saluta Torino e la Juventus per tornare a casa, nel “suo” Boca Juniors.
Se ne va dopo due stagioni, due scudetti, una Coppa Italia, una Supercoppa Italiana e una finale di Champions League. Quarantanove reti in novantacinque partite, decine di assist e tante giocate di livello sopraffino. E pensare che al suo arrivo era bollato come uno spacca spogliatoio, un giocatore rissoso, uno che avrebbe distrutto quel meccanismo perfetto che era la Juve di Antonio Conte. Addirittura lo additarono di essere in sovrappeso e di non fare vita da atleta. Per non parlare della scelta della maglia numero dieci, quella lasciata in eredità da Ale Del Piero. Gli stessi tifosi juventini si indignano, non ritenendolo degno di vestire una maglia così prestigiosa.
L’Apache risponde nell’unico modo che conosce, trascinando i compagni e conquistando presto i tifosi con prestazioni sempre al massimo, non risparmiandosi mai con la rabbia, la determinazione e il coraggio che acquisisce chi cresce nel “barrio” Ejército de los Andes (detto anche Fuerte Apache) di Buenos Aires, chi viene abbandonato dalla madre a soli tre mesi, chi sopravvive alle ustioni provocate dall’acqua bollente che gli cade sul viso ad appena dieci mesi.
«Ho passato un’infanzia difficile, vissuta in un paese in cui droga e omicidi erano all’ordine del giorno. Vivere in quel modo ti fa crescere in fretta e, per fortuna, io sono stato in grado di prendere un’altra strada. Ho sempre voluto dimostrare alle persone che a Fuerte Apache e nella Ciudad Oculta non tutti sono cattivi, così come nelle altre città argentine. Io ne sono uscito e con me molti altri ragazzi. Anche se ci sono tanti che non ce l’hanno fatta. Dario Coronel, lo chiamavano El Cabanha, che ha avuto una brutta storia. Era il mio migliore amico, eravamo sempre assieme, giocavamo a calcio tutto il tempo e poi verso i tredici-quattordici anni lui ha scelto un’altra vita, mentre io ho continuato a giocare a calcio. Sì, era uno dei più forti tra noi ragazzi che giocavamo nel “barrio”. Lui ha deciso così, o forse è stato il destino che lo ha spinto a rubare e a drogarsi, mentre io ho seguito il calcio, perché il mio sogno era quello di giocare a football e diventare quello che sono oggi. Credo che la famiglia sia fondamentale. Mio padre e mia madre credo che per me lo siano stati per l’educazione che mi hanno dato. La mia cicatrice? Potrei fare qualsiasi cosa, mettermi la faccia di chi voglio. Però voglio far capire che l’essere umano è bello per quello che ha dentro e non per quello che è fuori. Non mi interessa l’apparenza, l’importante sono i sentimenti, quello che ho nel cuore. Solo questo è importante, non mi interessa la parte esteriore».
Il Tévez ammirato a Torino è un giocatore sublime, capace di correre per tutto il campo come un mediano qualsiasi, di sfornare assist ai compagni come un trequartista dai piedi fatati e di inquadrare la porta come il più efficace dei bomber. Ventuno volte perfora il portiere avversario nella prima stagione, a cominciare dalla prima partita ufficiale della Juventus, allorché conquista la Supercoppa Italiana, battendo la Lazio per 4-0. Alcune reti sono perle di rara bellezza, come il goal che suggella la vittoria a San Siro contro il Milan, dopo il vantaggio di Llorente. E proprio con il Navarro, Carlitos forma una coppia così tanto perfetta che qualcuno la paragona a Bettega e Anastasi, due che hanno fatto la storia della Juve! Lo spagnolo crea gli spazi (non disdegnando, però, la conclusione personale), dove si fa a infilare l’Apache e per le difese avversarie sono spesso dolori. Segna una tripletta contro il Sassuolo, una doppietta contro il Parma e contro il Verona e, finalmente, la rete in Europa che mancava da più di cinque anni.
«La Juve è una grande famiglia – rivela – andiamo tutti molto d’accordo. Tra i compagni, con i tifosi, con la gente, ci troviamo tutti bene. Ciò fa sì che ci sia unione, che questo gruppo sia una vera squadra e che la Juventus cresca giorno dopo giorno. Non penso al fatto che indosso la maglia numero dieci, sarebbe come se volessi mettermi ancora più pressione. E, sotto pressione, si può anche giocare male. E, allora, io gioco come quando ero nel mio quartiere. Penso che sia per questo che mi è andata sempre bene. Non posso mettermi a pensare alla storia. Certo, la storia è storia, bisogna rispettarla, ed è ciò che faccio. So che la gente ama questa maglia, che ha un affetto speciale per ciò che ha rappresentato, per i giocatori che l’hanno indossata. Per questo la rispetto. Però, quando entro in campo con tutta la squadra, una maglia è importante e significativa come l’altra. Tutte sono maglie della Juventus, una cosa dal grande significato».
Nella seconda stagione, Carlitos timbra il cartellino alla seconda giornata contro l’Udinese e non si ferma più. Arrivano anche i goal in Champions League che permettono alla “Vecchia Signora” di passare il turno dei gironi. Segna anche un’inutile doppietta a Doha, contro il Napoli, nella Supercoppa Italiana. E mentre in campionato continua a stupire (memorabile la sua rete a Parma, dopo essere partito dalla propria metà campo e aver scartato la metà dei giocatori avversari), sono le reti nell’Europa che conta a fare di Tévez quel top-player che permette alla compagine bianconera di fare il salto di qualità. Segna in entrambe le partite contro il Borussia Dortmund, agli ottavi di finale. La rete in Germania, realizzata dopo pochi minuti con un tiro imparabile da fuori area, è di rara bellezza. Segna anche su punizione, diventando il vice Pirlo: fondamentale la rete all’Olimpico nel pareggio contro la Roma che, di fatto, assegna il quarto scudetto consecutivo ai bianconeri.
Ma è proprio sul più bello, quando la Juve è lanciata verso la finale della Coppa dei Campioni, che qualcosa si spegne nella testa di Tévez. Le sue prestazioni cominciano a essere opache: certo la grinta e la determinazione sono sempre quelle, ma la porta diventa improvvisamente troppo piccola perché sia centrata e i passaggi ai compagni sono sempre o troppo corti o troppo lunghi per essere finalizzati. E la delusione più grande è proprio a Berlino, contro il Barcellona, nella partita che significherebbe, per la Juve, conquistare un “triplete” storico e che eleggerebbe Carlitos come uno dei migliori giocatori del mondo. Ma l’Apache, gioca una partita impalpabile: vero, da una sua conclusione nasce il goal del pareggio di Morata, ma è un tiro sbilenco non da Tévez. Ha un’altra occasione, ma la fallisce clamorosamente. E così, senza il suo trascinatore, la compagine bianconera perde l’ennesima “Coppa dalle grandi orecchie”.
Due settimane dopo l’annuncio che l’Apache torna a casa con un anno di anticipo sulla scadenza del contratto. La sensazione è che passerà parecchio tempo prima di rivedere a Torino un giocatore simile e che la maglia numero dieci bianconera abbia trovato l’ennesimo degno possessore.
«Ciò che io, ma pure Agnelli e Marotta, così come penso tantissimi juventini, non credevamo potesse verificarsi già quest’anno – afferma il giornalista Marcello Chirico – è invece capitato: Carlitos se n’è tornato in Argentina, nel suo Boca, e adios Juve. Deluso? Sì, parecchio, lo ammetto. Sapevo che era un suo desiderio, ma non immaginavo così impellente, immediato, da impedirgli di onorare in toto il suo contratto. Francamene non capisco come possa un giocatore come lui, ad appena trentuno anni, prendere la decisione di andare a giocare in un campionato come quello argentino, di sicuro con un appeal nettamente inferiore a quelli europei, e in un club che potrà fargli guadagnare molto meno di quanto prendeva alla Juventus. Misteri del calcio. Mi ha sorpreso la sua decisione e non mi è piaciuto nemmeno il modo in cui tutto questo sta avvenendo: lui che parte per la Copa America, che si trincera nel silenzio e infine manda i procuratori a risolvere la questione. No Carlitos, proprio non mi sei piaciuto. Ti pensavo un’altra persona. Non avevi detto che avrebbe voluto regalare un bandierone ai tifosi Juve con su scritto “Fino Alla Fine”? Il bandierone non si è visto, la fine sì. Detto ciò ti ringrazio per quanto fatto con la maglia bianconera, ma dirti che l’ho presa bene mentirei a me stesso. Anche perché sostituire uno come Tévez non sarà semplicissimo. Sarà un nostro destino che ogni estate ci debba toccare un addio traumatico e imprevisto. Mettiamola così: magari porta bene pure stavolta».
MATTEO DOTTO, “GS” DELL’AGOSTO 2013
Enrique Macaya Márquez va per gli ottant’anni ed è il giornalista sportivo radiotelevisivo più noto dell’intera Argentina. Ha all’attivo ben quattordici Mondiali, insomma di calcio ne mastica parecchio. Fu lui, undici anni fa, a etichettare Carlitos Tévez come “El jugador del pueblo”. Non servono traduzioni. Due parole (più un articolo e una preposizione) che fotografano la considerazione che gli argentini hanno della nuova stella del campionato italiano, del nuovo numero dieci della Juventus. “Madama” se lo è assicurato per i prossimi tre anni.
Già, il numero dieci: magia e fantasia, da Sivori a Del Piero, passando per Michel Platini e Roby Baggio, quasi sessant’anni di calcio di qualità (e che qualità!) in bianconero. Un numero pesante, “diez” in spagnolo, “dez” in portoghese. Un numero che Tévez ha portato sulle spalle sporadicamente nel Boca (diciotto, nove, diciannove e undici le altre “camisetas” della sua lunga militanza nell’equipo xeneize) e nella Selección. E che ha invece esibito con continuità nella biennale esperienza brasiliana al Corinthians. Un numero, però, che per lui è una novità assoluta in Europa. I suoi sette anni in Premier League sono stati contrassegnati da maglie di colori diversi ma con la costante di un numero piuttosto anonimo, il trentadue: indossato nel West Ham (dove al suo arrivo la dieci era di Marlon Harewood), nel Manchester United (con Wayne Rooney padrone della dieci) e nel City (con la dieci prima di Robinho e poi di Džeko).
Non è comunque dal numero di maglia (da questi particolari, direbbe, anzi canterebbe De Gregori) che si giudica un giocatore. Carlitos Tévez, infatti, al di là delle maglie e dei numeri che indossa, è un predestinato. E del resto le sue potenzialità erano già ampiamente intuibili in età pressoché adolescenziale. Aveva quindici anni quando, con l’Argentina Under 16, prese per la prima volta l’aereo con destinazione Europa. Si giovava a Londra un triangolare con i pari età di Francia e Inghilterra. Al debutto, la Selección batte 1-0 la Francia con un “golazo de chilena” di Tévez, una straordinaria perla in rovesciata. Gioca seconda punta, il giovin Carlitos, girando attorno al centravanti, un fusto con i capelli biondi e gli occhi chiari di nome Maxi Lopez.
Poco più di un anno dopo, quando Tévez di anni ne ha sedici, ecco il suo primo sbarco in Italia. A Salerno, per la precisione. Si gioca un torneo pomposamente denominato Mundialito Under 16. In effetti, le Nazionali partecipanti sono di prim’ordine: Italia, Argentina, Brasile, Francia e Stati Uniti. Non c’è Maxi Lopez, ma, oltre che su Tévez, la Selección punta forte su un altro classe 1984, il centrocampista Javier Mascherano, e su un esterno di destra classe 1985 di nome Pablo Zabaleta. Un bel tris di campioni in erba che sbocceranno prepotentemente, anche se curiosamente le stelle annunciate di quell’Argentina sono il regista Hugo Colace dell’Argentinos Juniors (classico numero cinque sudamericano) e il trequartista Lucas Correa, del Rosario Central. Di Colace, dopo tre anni nelle divisioni minori inglesi con il Barnsley e un’ultima fugace apparizione nell’Auxerre, si sono perse le tracce. Correa ha giocato l’ultima stagione nel Bassano Virtus, in Lega Pro. È comunque proprio a Salerno che Tévez consolida la sua fama di bomber implacabile. Al debutto, doppietta nel 3-2 agli USA (l’altro goal è a firma Mascherano); poi nel 2-0 all’Italia va in bianco ma serve un assist ad Aguirre, autore di una doppietta; in finale mitiga l’amarezza per la sconfitta ai rigori contro il Brasile, segnando la rete dell’1-1.
Nel 1999 e nel 2000 le prove generali. Nel 2001 (esattamente il 21 ottobre), l’esordio nel calcio dei grandi. Carlos Bianchi ha il reparto avanzato in emergenza, per giocare al fianco dell’esperto Delgado il ballottaggio è tra lo scattante Tévez e il più fisicato Colautti, che fra l’altro ha due anni in più. Bianchi alla fine sceglie Carlitos, il Boca perde 1-0 a Cordoba contro il Talleres, ma secondo il quotidiano sportivo “Olè” Carlos Tévez mostrò «uque tiene pasta». “Pasta”, misto di talento, astuzia e forza. Per festeggiare il primo goal con la prima squadra del Boca però Carlitos deve aspettare più di sei mesi. In panchina non c’è più Bianchi, bensì Tabárez, a Buenos Aires si gioca l’andata dei quarti della Libertadores, avversario è l’Olimpia di Asunción. Tévez gioca da esterno sinistro di centrocampo, nel rigido 4-4-2 del Maestro, con Abel Balbo e Delgado di punta. Corre il minuto diciotto, Delgado si allarga sulla sinistra e crossa al centro, Balbo va su in elevazione ma non ci arriva, appostato nell’area piccola Tévez ci mette il piatto destro, segna e corre ad abbracciare l’ex bomber di Udinese e Roma. A fine partita, nonostante l’1-1, la Bombonera ha un solo grido: “Tévez corazón”. Pochi giorni dopo Ricardo Tesone, il suo primo procuratore, fa firmare a Carlitos il primo contratto da professionista.
Molto si è detto e si è scritto su Tévez nelle scorse settimane: della sua infanzia difficile nel “barrio” di Fuerte Apache, dei suoi rapporti complicati a Manchester con Ferguson allo United e con Mancini al City, dei flirt mercatari degli anni scorsi con Inter e Milan, della voglia di riportare la Juventus nell’élite del calcio euro-mondiale. Là dove Carlitos ha saputo issarsi con le maglie di Boca Juniors, Manchester United e della Selección argentina. Con tanti titoli importanti conquistati da protagonista, ma anche con numeri a volte imbarazzanti per la loro pochezza.
Cominciamo con il ricordare che Tévez è l’unico giocatore argentino nella storia ad aver vinto la Copa Libertadores e la Champions League, la Coppa Intercontinentale e il Mondiale per Club: 2003 e 2008 gli anni magici, la maglietta “azul y oro” del Boca e quella dei “Red Devils” di Manchester i cimeli da incorniciare. I brasiliani del Santos e il Milan le vittime ai tempi del Boca, il Chelsea e gli ecuadoriani della Liga di Quito le vittime ai tempi dello United. L’altra faccia della medaglia è rappresentata dal bilancio deficitario di Carlitos nelle coppe europee: non segna da più di quattro anni (ultima gioia il 7 aprile 2009 in Champions League, nel 2-2 tra Porto e Manchester United), con il City non ha mai fatto un goal (tredici partite a secco tra Champions ed Europa League) e neanche con lo United lo score è esaltante (sei centri in ventiquattro presenze). In tutto, se aggiungiamo le due presenze e zero goal in Uefa con il West Ham, siamo ad appena sei reti in trentanove gare. Un po’ pochino per un top player con la missione di riportare la Juve ai vertici in campo internazionale.
Se il 2003 e il 2008 sono stati gli anni top di Tévez a livello di club, il 2004 è oro che luccica, è l’oro dei Giochi di Atene, un oro arrivato contestualmente a quello del basket, un oro che lo sport argentino attendeva addirittura da Londra 1948. Della Selección olimpica diretta da Marcelo Bielsa, Carlitos è l’arma letale: capocannoniere con otto centri, segna due reti alla Serbia e una alla Tunisia nel girone, una tripletta a Costarica nei quarti, un goal (il primo) all’Italia nella semifinale stravinta 3-0 dall’Argentina e decide la finale contro il Paraguay, firmando l’1-0 che vale l’oro.
Otto reti in una ventina di giorni. L’altra faccia della carriera albiceleste di Tévez sono numeri molto più poveri con la Selección dei grandi: in sette anni, dal 2004 al 2011, cinquantadue presenze e tredici goal. Di cui però tre ai Mondiali: uno in Germania 2006 alla Serbia e due in Sudafrica 2010 al Messico. Curiosamente, tutti e tre “fischiati” da Rosetti (compreso il primo al Messico, in evidente fuorigioco non rilevato dall’assistente Ayroldi). Sono oramai più di due anni che Tévez è fuori dal giro della Selección. Nell’ultima partita, 16 luglio del 2011 contro l’Uruguay in Copa America, un suo errore dal dischetto è fatale e la parata di Muslera sul destro di Carlitos, unito al successivo rigore trasformato da Martin Cáceres, costa la finale all’Argentina padrona di casa e lancia l’Uruguay verso la vittoria del suo quindicesimo torneo continentale. Sergio Batista lascia pochi giorni dopo la panchina della Selección, al suo posto Alejandro Sabella e il suo 4-3-3 con i posti prenotati in attacco dal trio Aguero-Messi-Higuaín. E per Tévez fine delle trasmissioni.
Al meno per il momento. Sabella, infatti, non ha una preclusione assoluta per Tévez. Il suo grande amico Daniel Passarella, cui Sabella ha spesso fatto da secondo, è stato allenatore di Tévez in Brasile con il Corinthians e i rapporti con l’Apache sono tuttora ottimi. Insomma, l’avventura juventina con quella maglia numero dieci, così pesante per la storia che si porta dentro ma così leggera per le esperienze di Carlitos (che nel Boca la ereditò da Riquelme e indirettamente da Maradona), potrebbe avere uno sbocco mundialista. Riportare la Juve nell’élite del calcio europeo, ma anche rilanciarsi e puntare al terzo Mondiale: sono gli obiettivi del “jugador del pueblo”, di quel tanto agognato top player che sembrava destinato negli anni scorsi a Milan e Inter e che invece ha scelto il bianconero.
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