martedì 22 maggio 2012

QUANDO MORÌ LA JUGOSLAVIA

ALEC CORDOLCINI, “GS” MAGGIO 2012:
Poteva schiantare tutti all’Euro 1992. Ma le fu impedito di partecipare. Il momento migliore della Nazionale slava è arrivato poco prima della fine del Paese. E quel torneo che le venne negato fu vinto dalla Danimarca, ripescata al suo posto.


24 ottobre 1987. Tenera è la notte a Santiago del Cile. Un’ombra si affaccia a una delle finestre del più lussuoso hotel cittadino. Attorno a sé, il fumo azzurrognolo di una sigaretta. Robert Prosinečki non ha paura di essere colto sul fatto dal proprio allenatore, il sergente di ferro Mirko Jozić. Ma il giocatore l’indomani non sarà in campo. C’è un turno di squalifica da scontare, pertanto addio finale del Campionato Mondiale Under 20. Torneo che la sua Jugoslavia avrebbe dovuto affrontare come semplice atto di presenza, viste le numerose defezioni. Invece eccola all’ultimo atto, con una media-reti pari a 2,83 a partita.
Stracciati i padroni di casa cileni all’esordio, vinto a mani basse il proprio girone, quindi eliminati Brasile ai quarti (grazie a una strepitosa punizione allo scadere proprio di Prosinečki) e Germania Est in semifinale. L’ultimo ostacolo sono ancora i tedeschi, questa volta dell’Ovest. Pochi anni dopo quella divisione non avrà più senso. La Jugoslavia nemmeno.
Con il successo al Mondiale cileno Under 20 nasce quella che sulla carta può essere considerata, per talento, una delle migliori nazionali di tutti i tempi.
Nel calcio talvolta la storia viene fatta dal perdente, più che dal vincitore: Ungheria 1954 ed Olanda 1974 i due esempi più limpidi. Il caso della Jugoslavia però è diverso. Essa non fu sconfitta in campo dalla Germania Ovest di turno, come accadde sia agli ungheresi che agli olandesi. Semplicemente smise di esistere, vittima di una serie di fortissime spinte centrifughe che portarono al sanguinoso e brutale sgretolamento del Paese. Il 31 maggio 1992 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU emana la risoluzione nr.757, che decreta l’embargo contro la federazione jugoslava (all’epoca già priva di Croazia e Slovenia, proclamatesi indipendenti), la sospensione degli scambi scientifici, tecnici e culturali nonché l’esclusione dalla partecipazione a manifestazioni sportive. Dieci giorni dopo parte l’Europeo. Al posto della Jugoslavia viene richiamata in fretta e furia la Danimarca. Com’è noto, saranno proprio gli scandinavi a vincere il trofeo.
Rapido flash back al Mondiale Under 20 cileno. I primi a non credere alla competitività della Nazionale jugoslava sono proprio i dirigenti della Federcalcio locale. Rimangono a casa capitan Aleksandar Djordjević, squalificato, più altri sette titolari: gli infortunati Igor Berecko, Dejan Vukicević, Igor Pejović e Seho Sabotić, più i talentuosi Sinisa Mihajlović, Vladimir Jugović ed Alen Bokšić. Questi ultimi vengono bloccati direttamente dalla Federazione: meglio fare esperienza nel campionato jugoslavo che volare oltreoceano. Il Mondiale è talmente poco sentito che dalla Jugoslavia parte un solo giornalista, Torna Mihajlović, inviato oltretutto da una rivista non sportiva, il settimanale “Arena”, con l’incarico di scrivere un reportage sulla folta comunità di emigrati jugoslavi in Cile.
Si troverà di fronte una straordinaria covata di campioncini: Predrag Mijatović, Zvonimir Boban, Robert Prosinečki, Davor Suker, Robert Jarni, Igor Stimac. Boban segna in finale contro la Germania Ovest (poi battuta ai rigori), Suker è vice-capocannoniere del torneo, Prosinečki viene eletto miglior giocatore della manifestazione. Prendete il meglio dei vincitori, uniteli a quelli che sono rimasti in Jugoslavia e inseriteli gradualmente nella Nazionale maggiore, che può già contare su elementi di primo livello quali Dragan Stojković, Dejan Savicević e Srecko Katanec. La miscela è quanto meno esplosiva.
Italia 1990 regala un primo assaggio delle potenzialità della Jugoslavia. Agli ottavi di finale gli uomini di Ivica Osim eliminano la Spagna, ai quarti resistono 89 minuti con un uomo in meno contro l’Argentina, portata fino ai rigori. Dove sbaglia, tra gli altri, “Pixie” Stojković, proprio l’autore della doppietta che aveva domato le “Furie Rosse” mandando in delirio un intero Paese.
In Italia però mancano due elementi di primo piano, Boban e Katanec. Assenze causate da uno Stato che sta andando in frantumi, anche se pochi sembrano accorgersene. Katanec è stato minacciato di morte, Boban squalificato sei mesi dalla Federcalcio jugoslava per un fatto avvenuto il 13 maggio 1990. Giorno nel quale, secondo molti, è iniziata la guerra in Jugoslavia. Si giocava Dinamo Zagabria-Stella Rossa, squadre divise da un odio tale da ridurre tutta la rivalità nata dopo Calciopoli ad una simpatica lite di condominio.
Le tifoserie organizzate di entrambi i club sono strutturate come un piccolo esercito. Da un lato i Bad Blue Boys croati, nome mutuato da un film con Sean Penn ed orientamento politico ultra-nazionalista (l’uomo di riferimento è Franjo Tudjman, futuro primo presidente della Croazia nonché criminale di guerra ex-post); sul fronte opposto i Delije (i forti) serbi caldeggiati da un altro genocida di professione, Zeljko Raznatović, meglio conosciuto come la Tigre Arkan. Niente alcol, niente barbe, ordine e disciplina; così Arkan ha trasformato la parte più radicale dei tifosi della Stella Rossa in un autentico commando.
Quel 13 maggio a Zagabria, nei pressi dello stadio Maksimir, divampa la guerriglia. Pietre, bastoni, acido per bruciare le reti che dividono le tifoserie. Una foto immortala Boban che colpisce con un calcio volante un poliziotto per difendere un tifoso della Dinamo Zagabria. Gesto che rende il futuro milanista un eroe agli occhi dei croati, ma che gli costa Italia 1990.
I germi della propria distruzione però la Jugoslavia li portava al suo interno fin dal maggio del 1980, mese della scomparsa di Tito. Il crollo del blocco sovietico ha fatto il resto. Al comunismo si è sostituito il nazionalismo: impossibile pertanto tenere ancora assieme croati, serbi, sloveni, macedoni, bosniaci. Quando nel 1988 un giovane Jonathan Wilson, giornalista sportivo del “Guardian” autore dello splendido libro “Behind the curtain - travels in Eastern European Football”, si reca con la famiglia in vacanza al confine tra Montenegro e Bosnia, si imbatte in numerosi campi di addestramento militari. «Si stanno preparando alla guerra», dice loro un autista del luogo. «Solo l’Occidente non se ne è accorto».
Il 12 settembre 1990 la Jugoslavia iniziala campagna di qualificazione ad Euro 1992 battendo 2-0 a Belfast l’Irlanda del Nord. Quattordici mesi dopo chiuderà il proprio girone al primo posto, forte di sette vittorie ed una sola sconfitta (in casa contro la Danimarca), con 24 gol fatti e 4 subiti. Darko Pancev è capocannoniere delle qualificazioni con dieci centri.
Nel frattempo la Stella Rossa vince la Coppa dei Campioni, superando ai calci di rigore l’Olympique Marsiglia, e l’Intercontinentale, battendo i cileni del Colo Colo. Nell’arco temporale (29 maggio-8 dicembre 1991) che divide i due successi, si è già scatenato l’orrore. A marzo la rivolta della maggioranza serba nelle cittadine croate di Krajina porta Slobodan Milosević a dichiarare che la Jugoslavia è finita.
In aprile, mentre la Stella Rossa sta dando spettacolo nella doppia semifinale contro il Bayern Monaco (da antologia la sequenza di passaggi Marović-Radinović-Belodedici-Prosinečki-Binić-Pancev che porta gli slavi al pareggio in Germania), alcuni estremisti croati sparano dei razzi nel villaggio di Boro Selevo. A maggio un raid serbo di rappresaglia provoca la morte di dodici poliziotti croati. Il 26 giugno la Slovenia dichiara la propria indipendenza, seguita dalla Croazia. Ad agosto i serbi di Krajina iniziano la prima operazione di pulizia etnica della guerra. A dicembre Arkan festeggia a Belgrado l’Intercontinentale sventolando un cartello stradale croato, ovvero lo scalpo del nemico. Perché intanto i serbi hanno conquistato Vukovar ed iniziato l’assedio di Dubrovnik. La federazione jugoslava non esiste più.
Il momento migliore nella storia del calcio jugoslavo è arrivato proprio poco prima della sua fine, innescando una serie infinita di discussioni che mai troveranno riscontro. A Euro 1992 la Jugoslavia avrebbe davvero schiantato gli avversari, come sostenuto da Katanec? Impossibile saperlo. Indubbiamente sulla carta la rosa non era inferiore né alla Danimarca campione, battuta oltretutto nel girone di qualificazione, né alle due finaliste del Mondiale americano di due anni dopo, Brasile ed Italia.
In porta Ladic, difesa a quattro con Mirković, Djukić, Spasić e Jarni, mediana con Boban, Katanec, Stojković e Prosinečki, attacco con Savicević e Suker. Poi la panchina, con Najdoski, Sinisa Mihajlović, Bilić, Jugović, Binić (misconosciuto esterno così veloce che, quando Carl Lewis si recò a Belgrado per un meeting di atletica, chiese di poterlo sfidare), Stanić, Mijatović, Bokšić e Pancev.
Una generazione super, come ammesso da Prosinečki, uno dei più restii a parlare dei tempi della Stella Rossa e della Jugoslavia: «Ci interessava solo il calcio, nient’altro. Gli sportivi sono persone che non si curano della politica».
Ma quando nel 2001 a Belgrado venne organizzata una rimpatriata da ex compagni della Stella Rossa per celebrare il decimo anniversario della vittoria in Coppa Campioni, lui (unico croato di quella squadra) non si presentò.

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