Un suono antico, capace di fermare il tempo, quasi fosse un
flauto musicale. Noi, che abbiamo memoria, riconosceremo il fischio di Concetto
Lo Bello. Sono più di quindici anni che si è spento nella sua Siracusa. Ma la
sua ombra si staglia ancora all’orizzonte di un calcio sempre più affollato di
lillipuziani, lievi come semi di soffione, cangianti come bruchi che conoscono
la metamorfosi. Lo Bello aveva peso, volume e forma. Era l’Arbitro. Il più
famoso, certo, e forse il più grande. Il suo fischio non era modulato, vago come quello dell’usignolo.
Era acuto e perentorio. Lacerava l’aria. Non seduceva. Impietriva. Quel fischio
ha dettato il tempo a Rivera e Sivori, a Riva ed a Rocco. Gianni Brera lo aveva
definito: «Un po’ Dionisio, tiranno di Siracusa, un po’ Abd el Karim, pirata
saraceno».Luigi Gianoli, invece, scrisse: «Per me somiglia tutto a
Timoleone. Timoleone, detto l’intemerato, era cittadino corinzio e venne a
liberare Siracusa dai cartaginesi per governarla poi, ma da semplice privato.
Un amministratore, insomma. E la rese felice. Fu forte, generoso, geniale».
Per Gian Paolo Ormezzano: «Era meglio di Kalì che in fondo aveva soltanto nove braccia, egli è trimurti, Brahma Siva Visnù insieme, arbitro, assicuratore, assessore».
Perfino il grande Indro Montanelli lo onorò con un elzeviro memorabile. Fu dopo la partita Fiorentina - Cagliari, 12 ottobre 1969, in cui il pubblico di Firenze lo aveva salutato al grido “duce, duce”, e Montanelli, sbollita l’ira del tifoso, scrisse: «Entra nel campo col passo del proprietario che perlustri il proprio podere. Se ogni tanto alza lo sguardo sugli spalti, è come se ve lo lasciasse cadere dall’alto». E concluse sicuro: «No, i fiorentini hanno avuto torto: Lo Bello non è il duce. Ed, anche se l’accostamento avesse qualche verosimiglianza, almeno ne andrebbero rovesciati i termini, perché è caso mai il duce che può aspirare ad essere scambiato per Lo Bello, non viceversa».
Lo Bello sarebbe agli antipodi del calcio di oggi, flebile, affollato di comparse trasparenti, di emuli di don Abbondio, incapaci di decidere. Era un personaggio forte. Duro e splendente come il diamante.
Aveva il coraggio dell’autorità ed, essendo bravissimo tecnicamente, il suo fischio imperiale disarmava. Il vento del ricordo fa rispuntare mille episodi. Quando al Vomero, tranquillo come un domatore, accettò di finire un Napoli-Juventus con 5.000 tifosi ai bordi del campo. O quando aveva denunciato l’avance di Totò Vilardo, che gli aveva offerto cinque milioni per favorire il pareggio alla vigilia di un Cosenza-Bari.
Quando inflisse alla Spal tre calci di rigore in una partita, subì un’indagine fiscale dal Ministro Preti, ferrarese. I suoi rendez-vous con Sivori e Rivera sono passati alla storia, come l’inchino di Rocco, il Paròn, davanti al suo cartellino rosso. Quando nella finale dell’Olimpiade di Roma l’attaccante jugoslavo Galić lo apostrofò, riconobbe quella parola frullata via, che l’allenatore dell’Ortigia pallanuoto, Bonacić, gli aveva un giorno tradotto, con un eufemismo, in “figlio di buona donna”. Avrebbe potuto far finta di niente, invece estrasse il cartellino rosso.
Sei anni dopo ai Mondiali d’Inghilterra, in Urss-Germania, espulse Cislenko per fallo di reazione. Pagò il suo rigore: l’opposizione dei Paesi dell’Est gli impedì di dirigere una finale ai Mondiali, come avrebbe meritato (proprio quella del famoso goal fantasma pro Inghilterra, chissà cosa avrebbe deciso). Lo Bello diede scandalo, arbitrando anche dopo essere entrato in Parlamento. Replicò: «Continuo, perché sono un uomo libero».
Oggi abbiamo nostalgia della sua interpretazione. Lo Bello appartiene al calcio: arbitrò in A dal 1954 al 1974 e nessuno, come lui, ha diretto 328 partite in A e 4 finali di coppe europee. Era un uomo di sport. Eclettico. Appassionato. Tra i fondatori dell’Ortigia di pallanuoto, nel 1952, ne fu il primo allenatore e, poi, per ventuno anni, il presidente. Ha presieduto la Federazione Pallamano dal 1976 alla morte. Ha promosso per Siracusa la Cittadella dello Sport.
La sua ombra, irraggiungibile come quella di Solimano, attraversa la memoria nel profumo dei gelsomini e delle zagare.
Per Gian Paolo Ormezzano: «Era meglio di Kalì che in fondo aveva soltanto nove braccia, egli è trimurti, Brahma Siva Visnù insieme, arbitro, assicuratore, assessore».
Perfino il grande Indro Montanelli lo onorò con un elzeviro memorabile. Fu dopo la partita Fiorentina - Cagliari, 12 ottobre 1969, in cui il pubblico di Firenze lo aveva salutato al grido “duce, duce”, e Montanelli, sbollita l’ira del tifoso, scrisse: «Entra nel campo col passo del proprietario che perlustri il proprio podere. Se ogni tanto alza lo sguardo sugli spalti, è come se ve lo lasciasse cadere dall’alto». E concluse sicuro: «No, i fiorentini hanno avuto torto: Lo Bello non è il duce. Ed, anche se l’accostamento avesse qualche verosimiglianza, almeno ne andrebbero rovesciati i termini, perché è caso mai il duce che può aspirare ad essere scambiato per Lo Bello, non viceversa».
Lo Bello sarebbe agli antipodi del calcio di oggi, flebile, affollato di comparse trasparenti, di emuli di don Abbondio, incapaci di decidere. Era un personaggio forte. Duro e splendente come il diamante.
Aveva il coraggio dell’autorità ed, essendo bravissimo tecnicamente, il suo fischio imperiale disarmava. Il vento del ricordo fa rispuntare mille episodi. Quando al Vomero, tranquillo come un domatore, accettò di finire un Napoli-Juventus con 5.000 tifosi ai bordi del campo. O quando aveva denunciato l’avance di Totò Vilardo, che gli aveva offerto cinque milioni per favorire il pareggio alla vigilia di un Cosenza-Bari.
Quando inflisse alla Spal tre calci di rigore in una partita, subì un’indagine fiscale dal Ministro Preti, ferrarese. I suoi rendez-vous con Sivori e Rivera sono passati alla storia, come l’inchino di Rocco, il Paròn, davanti al suo cartellino rosso. Quando nella finale dell’Olimpiade di Roma l’attaccante jugoslavo Galić lo apostrofò, riconobbe quella parola frullata via, che l’allenatore dell’Ortigia pallanuoto, Bonacić, gli aveva un giorno tradotto, con un eufemismo, in “figlio di buona donna”. Avrebbe potuto far finta di niente, invece estrasse il cartellino rosso.
Sei anni dopo ai Mondiali d’Inghilterra, in Urss-Germania, espulse Cislenko per fallo di reazione. Pagò il suo rigore: l’opposizione dei Paesi dell’Est gli impedì di dirigere una finale ai Mondiali, come avrebbe meritato (proprio quella del famoso goal fantasma pro Inghilterra, chissà cosa avrebbe deciso). Lo Bello diede scandalo, arbitrando anche dopo essere entrato in Parlamento. Replicò: «Continuo, perché sono un uomo libero».
Oggi abbiamo nostalgia della sua interpretazione. Lo Bello appartiene al calcio: arbitrò in A dal 1954 al 1974 e nessuno, come lui, ha diretto 328 partite in A e 4 finali di coppe europee. Era un uomo di sport. Eclettico. Appassionato. Tra i fondatori dell’Ortigia di pallanuoto, nel 1952, ne fu il primo allenatore e, poi, per ventuno anni, il presidente. Ha presieduto la Federazione Pallamano dal 1976 alla morte. Ha promosso per Siracusa la Cittadella dello Sport.
La sua ombra, irraggiungibile come quella di Solimano, attraversa la memoria nel profumo dei gelsomini e delle zagare.
DA “LA REPUBBLICA” DEL 10 SETTEMBRE 1991
QUANDO IN CAMPO C’ERA VON KARAJAN di Gianni Brera
Un po’ Dioniso, tiranno di Siracusa, un po’ Abd el Karim, pirata saraceno. Alto, possente, i capelli neri ondulati, non crespi, il naso forte, gli occhi vivi, sempre capaci di accendersi d’una luce non proprio bonaria, i baffetti sottili a proteggere una bocca larga e sensuale, tracciata di netto sopra un mento quadrato e volitivo.
Nato per comandare, lo individui sicuro protagonista quando ormai ti sei sbilanciato in un giudizio fin troppo perentorio: hai scritto infatti che Concetto Lo Bello è il miglior arbitro del mondo. L’affermazione è senza dubbio arbitraria (giusto il soggetto al quale si rivolge): chissà quanti nei cinque continenti se la sbrigano bene con il fischietto: ma lui addirittura lo morde: vi soffia come un tornado: corre in scioltezza, buttando i piedi un po’ avanti, secondo lo stile calciato, e cerca in ogni modo di stare dietro all’azione. Spesse volte capisci che gli debbono dolere gli apici dei polmoni, che il fiatone viene dissimulato con sibili perversi: è quando teme, a ragione, di venire spinto lontano dalla ribalta. Allora è capace di lazzi che Matamoro gli invidierebbe digrignando. I tapini da lui amministrati impettiscono offesi o straniti. Li redarguisce e spintona come fatue comparse.
L’état c’est moi! Senti che potrebbe ruggire con la sua voce aspra di tiranno. Re Sole si confonde con Dionisio. Abd el Karim mulina la sua sfolgorante draghinassa tagliando teste d’ infedeli come neanche fossero poponi. Finisce che diverte più lui della partita. È Toscanini o Visconti, Von Karajan o Strehler. Come pubblico per Longanesi un pimpante manuale di pedate intitolato “I campioni vi insegnano il calcio”, tra i fischietti campioni scelgo lui, che con insigne modestia redige il suo capitolo.
Don Concetto non rientra fra certi sanguigni rurali. La sua fronte bozzuta si corruga, le palpebre si strizzano su occhietti neri e cattivi. Poiché ad esaltarlo sono io, gli avversari mi fanno contropiede. E lui s’indigna con virile acredine. Che ha scritto l’uccello? Povero Aluisinus Avis Columba! Non era certo di non inciamparvi, se a tradimento gli mettevi in corridoio di redazione una palla da calcio: però l’intuito gli aveva dettato il rilievo più facile: l’arbitro non si deve notare: il suo fischio deve vibrare come in astratto sopra la mischia. E questo siracusano sfacciato prende a prestito le gote di Eolo per soffiare più forte nel suo fischietto.
Abd el Karim sguaina infuriato la draghinassa facendola mulinare e lampeggiare nell’aria. Giocando perché indubbiamente gioca anche lui, inventa soluzioni di sconcertante genialità. Più lo studi e meglio individui le sue reazioni di despota vistosamente ligio alle norme. Lo esalti, questo è vero, ed i tuoi nemici sono anche i suoi. L’astuto Aluisinus asserisce di voler bene a Rivera per la solidarietà che ha saputo esprimergli il giorno in cui venne a mancare sua madre. Abd el Karim corruga la fronte fino a confondere i neri e forti capelli con le sopracciglia del visir saraceno. I suoi referti hanno da essere all’acido prussico. Il povero e compassato Barbè deve rifarsi sgomento al tariffario dei confessori secenteschi: e buon per noi della parrocchia calcistica che abbiamo un giudice imparziale come un santo.
Era il Minosse dei nostri stadi. Passano gli anni e noti che il tonitruante Minosse degli stadi è meno spietato quando avvinghia e giudica squadre di altre città, magari un tantinello rivali di Milano. Una certa domenica, tifando Cagliari, lo aspetti a Torino con la Juventus. Non ho archivio e di ciò mi rallegro perché aver debiti con la memoria mi torna grato. Ricordo solo che Riva sta calciando in rete un paio di metri entro l’area juventina e non so chi in bianconero oppone i tacchetti secondo che esige spietato cinismo: è un fallo grave e sgradevole, che denuncia pure assoluta mancanza di deontologia professionale (caro Sergio Campana, amico mio: sapranno i tuoi protetti che significa mai?). Istintivo torna gridare al rigore: ed un coinquilino malignazzo ironizza pure: Vediamo come se la cava il tuo Tamagno. Ha fischiato subito, il mio divo: niente da dire, ma che decide, il rigore?
Qui s’inciela il suo genio: Abd el Karim si pianta sulle solide piote, leva un braccio, dilata indice e medio della destra: deve spiegare: “macché regore, ostruzzzione ell’è!” Quindi due calci in area. Nessuno può obiettare nulla (e guai se qualcuno si permettesse). Gli juventini si ammucchiano in silenzio davanti al proprio portiere. Greatti e Riva stanno sulla palla. Hanno l’occasione più ghiotta di far propria la partita: uno che alzi palla a cucchiaio, l’altro che spari in fulminea rovesciata. Penso questo avendo la mente ben irrorata (sto comodamente seduto): non ci arrivano i due cagliaritani per i quali stravedo: Greatti sfiora palla e Riva ci arriva sopra mazzolando spaventosamente il sinistro: non so chi colga: qualcuno rischia la vita in barriera: la palla rabbiosamente impenna e ricade spenta fra le mani del portiere juventino. Così Concettissimo nostro onora il regolamento con una sentenza inventata a tutto genio. Oggi vedrete altri fischiare ostruzione quando un terzino maligno oppone i tacchetti al piede dell’avversario che sta per colpire palla: in mezzo secolo di pedate, nessuno avevo mai sorpreso in così arduo momento di necessità.
Invero don Concetto era stato un asso. Una volta Gigirriva diede fuori da matto e ringhiando arrivò ad insultare il grand’uomo. Il quale un poco stette ad ascoltarlo: poi, voltandogli di botto le spalle, ebbe a ingiungergli: “Corri, ragazzo, corri!” ed appena gli fu possibile inventò un rigore anche per il Cagliari. Giova precisare che Gigirriva, prima di abbandonarsi a quel raptus da mentecatto, aveva segnato il goal più sensazionale che mai ci fosse capitato di vedere, a me ed allo stesso Concetto Lo Bello. L’arbitro seppe capire e subito perdonare, da uomo autentico. Quella vigilia di Cagliari-Juve arbitrò più di tutti i colleghi ed ottenne riconoscimenti in ogni parte del mondo.
Per lui ho tifato come per Riva e per altri campioni del mio sport. Forse io solo sono riuscito a comprarlo, una sera, la vigilia d’ un Cagliari-Juventus. La situazione del Cagliari era disperata. Io stravedevo per la Sardegna ed andai con Arrica a salutare Lo Bello, un amico. L’arbitro cenava solo in un’ osteria deserta. Quando mi vide si rallegrò molto. Parlammo di caccia e di serie B. Se domani perde, io ebbi la faccia tosta di ipotizzare addio beccaccini. Il domani Longo, vecchio indio dal volto severo, fece secco Combin alla prima entrata. Combin ebbe un astragalo fratturato. Rimase in campo ma la Juve perdette 1-0. I severi dirigenti pre “bonipertiani” deplorarono Combin per scarso attaccamento ai colori sociali. Fece giustizia la radiografia ma Combin, offeso, se ne andò dalla Juventus. Il Cagliari fu salvo ed i suoi dirigenti passarono da Concetto Lo Bello a ringraziare. Nessuno di loro, tranne Arrica, sapeva che tutto il merito era dei beccaccini e dei tordi. Il Concetto vi dissi. Come non voler bene a tanto uomo?
In realtà Concetto Lo Bello aveva della vita un concetto agonistico, dire sportivo non basta. I continui viaggi lo avevano trasformato in cittadino del mondo. Dal cassero della sua nave tuonava bordate di fischi malamente ricambiate da plebi ostili e nel contempo ammirate. Il tifoso avvertito lo apprezzava come il calcio che sapeva far produrre ed indirizzare con arguzia sorniona ma ferma. Gli dava fastidio anche l’ombra sui piedi (espressione che usava il mio amico Italo Pietra, da poco mancato ai vivi) se a fargliela era un nemico, una persona da lui non accettata secondo schiettezza d’uomo: se invece era un amico a spingerlo, addirittura ad urtarlo in buona fede, come se fosse incredulo sdilinquiva per il piacere.
Di cultura non superiore al diploma, don Concetto sapeva contenersi così civilmente da indurre chiunque ad accettarlo come suo pari. Né stupì che gente avveduta come gli andreottiani lo invitassero a presentarsi candidato. Eletto con molti voti al Parlamento, subito intraprese fervide campagne per indurre i colleghi a varare finalmente una legge che prevedesse l’istituzione di un Ministero dello Sport. Quando ci invitò a Siracusa perché ne appoggiassimo l’uzzolo, io non temetti di inimicarmelo affermando “coram populo” che i governi italiani duravano in media sei mesi, e quindi la creazione di un Ministero dello Sport avrebbe causato ogni sei mesi la nomina di nuovi custodi dei gabinetti in tutti gli stadi italiani.
Mi ascoltò sorridendo con denti da pascià turco in procinto di ordinare una carneficina di schiavi cristiani. Tuttavia, non me ne volle. E quale deputato accettò di presiedere la Federazione della Pallamano. Nel calcio venne continuato dal figlio, e non risulta abbia molto brigato per non dover lasciare la ribalta. Gli bastava il ricordo delle molte battaglie ingaggiate e vinte. Gli bastava la stima degli onesti. Malato, seppe ritirarsi in dignitoso riserbo. Il suo carattere adamantino rifulse proprio quando avremmo potuto temere che si offuscasse nella tremenda sofferenza fisica. Io lo ricorderò come un amico e soprattutto come un campione.
A lui tutta la nostra riconoscenza di uomini di sport, a lui il commosso augurio che fu degli antichi: “sit tibi terra levis”, ti sia lieve la terra.
Un po’ Dioniso, tiranno di Siracusa, un po’ Abd el Karim, pirata saraceno. Alto, possente, i capelli neri ondulati, non crespi, il naso forte, gli occhi vivi, sempre capaci di accendersi d’una luce non proprio bonaria, i baffetti sottili a proteggere una bocca larga e sensuale, tracciata di netto sopra un mento quadrato e volitivo.
Nato per comandare, lo individui sicuro protagonista quando ormai ti sei sbilanciato in un giudizio fin troppo perentorio: hai scritto infatti che Concetto Lo Bello è il miglior arbitro del mondo. L’affermazione è senza dubbio arbitraria (giusto il soggetto al quale si rivolge): chissà quanti nei cinque continenti se la sbrigano bene con il fischietto: ma lui addirittura lo morde: vi soffia come un tornado: corre in scioltezza, buttando i piedi un po’ avanti, secondo lo stile calciato, e cerca in ogni modo di stare dietro all’azione. Spesse volte capisci che gli debbono dolere gli apici dei polmoni, che il fiatone viene dissimulato con sibili perversi: è quando teme, a ragione, di venire spinto lontano dalla ribalta. Allora è capace di lazzi che Matamoro gli invidierebbe digrignando. I tapini da lui amministrati impettiscono offesi o straniti. Li redarguisce e spintona come fatue comparse.
L’état c’est moi! Senti che potrebbe ruggire con la sua voce aspra di tiranno. Re Sole si confonde con Dionisio. Abd el Karim mulina la sua sfolgorante draghinassa tagliando teste d’ infedeli come neanche fossero poponi. Finisce che diverte più lui della partita. È Toscanini o Visconti, Von Karajan o Strehler. Come pubblico per Longanesi un pimpante manuale di pedate intitolato “I campioni vi insegnano il calcio”, tra i fischietti campioni scelgo lui, che con insigne modestia redige il suo capitolo.
Don Concetto non rientra fra certi sanguigni rurali. La sua fronte bozzuta si corruga, le palpebre si strizzano su occhietti neri e cattivi. Poiché ad esaltarlo sono io, gli avversari mi fanno contropiede. E lui s’indigna con virile acredine. Che ha scritto l’uccello? Povero Aluisinus Avis Columba! Non era certo di non inciamparvi, se a tradimento gli mettevi in corridoio di redazione una palla da calcio: però l’intuito gli aveva dettato il rilievo più facile: l’arbitro non si deve notare: il suo fischio deve vibrare come in astratto sopra la mischia. E questo siracusano sfacciato prende a prestito le gote di Eolo per soffiare più forte nel suo fischietto.
Abd el Karim sguaina infuriato la draghinassa facendola mulinare e lampeggiare nell’aria. Giocando perché indubbiamente gioca anche lui, inventa soluzioni di sconcertante genialità. Più lo studi e meglio individui le sue reazioni di despota vistosamente ligio alle norme. Lo esalti, questo è vero, ed i tuoi nemici sono anche i suoi. L’astuto Aluisinus asserisce di voler bene a Rivera per la solidarietà che ha saputo esprimergli il giorno in cui venne a mancare sua madre. Abd el Karim corruga la fronte fino a confondere i neri e forti capelli con le sopracciglia del visir saraceno. I suoi referti hanno da essere all’acido prussico. Il povero e compassato Barbè deve rifarsi sgomento al tariffario dei confessori secenteschi: e buon per noi della parrocchia calcistica che abbiamo un giudice imparziale come un santo.
Era il Minosse dei nostri stadi. Passano gli anni e noti che il tonitruante Minosse degli stadi è meno spietato quando avvinghia e giudica squadre di altre città, magari un tantinello rivali di Milano. Una certa domenica, tifando Cagliari, lo aspetti a Torino con la Juventus. Non ho archivio e di ciò mi rallegro perché aver debiti con la memoria mi torna grato. Ricordo solo che Riva sta calciando in rete un paio di metri entro l’area juventina e non so chi in bianconero oppone i tacchetti secondo che esige spietato cinismo: è un fallo grave e sgradevole, che denuncia pure assoluta mancanza di deontologia professionale (caro Sergio Campana, amico mio: sapranno i tuoi protetti che significa mai?). Istintivo torna gridare al rigore: ed un coinquilino malignazzo ironizza pure: Vediamo come se la cava il tuo Tamagno. Ha fischiato subito, il mio divo: niente da dire, ma che decide, il rigore?
Qui s’inciela il suo genio: Abd el Karim si pianta sulle solide piote, leva un braccio, dilata indice e medio della destra: deve spiegare: “macché regore, ostruzzzione ell’è!” Quindi due calci in area. Nessuno può obiettare nulla (e guai se qualcuno si permettesse). Gli juventini si ammucchiano in silenzio davanti al proprio portiere. Greatti e Riva stanno sulla palla. Hanno l’occasione più ghiotta di far propria la partita: uno che alzi palla a cucchiaio, l’altro che spari in fulminea rovesciata. Penso questo avendo la mente ben irrorata (sto comodamente seduto): non ci arrivano i due cagliaritani per i quali stravedo: Greatti sfiora palla e Riva ci arriva sopra mazzolando spaventosamente il sinistro: non so chi colga: qualcuno rischia la vita in barriera: la palla rabbiosamente impenna e ricade spenta fra le mani del portiere juventino. Così Concettissimo nostro onora il regolamento con una sentenza inventata a tutto genio. Oggi vedrete altri fischiare ostruzione quando un terzino maligno oppone i tacchetti al piede dell’avversario che sta per colpire palla: in mezzo secolo di pedate, nessuno avevo mai sorpreso in così arduo momento di necessità.
Invero don Concetto era stato un asso. Una volta Gigirriva diede fuori da matto e ringhiando arrivò ad insultare il grand’uomo. Il quale un poco stette ad ascoltarlo: poi, voltandogli di botto le spalle, ebbe a ingiungergli: “Corri, ragazzo, corri!” ed appena gli fu possibile inventò un rigore anche per il Cagliari. Giova precisare che Gigirriva, prima di abbandonarsi a quel raptus da mentecatto, aveva segnato il goal più sensazionale che mai ci fosse capitato di vedere, a me ed allo stesso Concetto Lo Bello. L’arbitro seppe capire e subito perdonare, da uomo autentico. Quella vigilia di Cagliari-Juve arbitrò più di tutti i colleghi ed ottenne riconoscimenti in ogni parte del mondo.
Per lui ho tifato come per Riva e per altri campioni del mio sport. Forse io solo sono riuscito a comprarlo, una sera, la vigilia d’ un Cagliari-Juventus. La situazione del Cagliari era disperata. Io stravedevo per la Sardegna ed andai con Arrica a salutare Lo Bello, un amico. L’arbitro cenava solo in un’ osteria deserta. Quando mi vide si rallegrò molto. Parlammo di caccia e di serie B. Se domani perde, io ebbi la faccia tosta di ipotizzare addio beccaccini. Il domani Longo, vecchio indio dal volto severo, fece secco Combin alla prima entrata. Combin ebbe un astragalo fratturato. Rimase in campo ma la Juve perdette 1-0. I severi dirigenti pre “bonipertiani” deplorarono Combin per scarso attaccamento ai colori sociali. Fece giustizia la radiografia ma Combin, offeso, se ne andò dalla Juventus. Il Cagliari fu salvo ed i suoi dirigenti passarono da Concetto Lo Bello a ringraziare. Nessuno di loro, tranne Arrica, sapeva che tutto il merito era dei beccaccini e dei tordi. Il Concetto vi dissi. Come non voler bene a tanto uomo?
In realtà Concetto Lo Bello aveva della vita un concetto agonistico, dire sportivo non basta. I continui viaggi lo avevano trasformato in cittadino del mondo. Dal cassero della sua nave tuonava bordate di fischi malamente ricambiate da plebi ostili e nel contempo ammirate. Il tifoso avvertito lo apprezzava come il calcio che sapeva far produrre ed indirizzare con arguzia sorniona ma ferma. Gli dava fastidio anche l’ombra sui piedi (espressione che usava il mio amico Italo Pietra, da poco mancato ai vivi) se a fargliela era un nemico, una persona da lui non accettata secondo schiettezza d’uomo: se invece era un amico a spingerlo, addirittura ad urtarlo in buona fede, come se fosse incredulo sdilinquiva per il piacere.
Di cultura non superiore al diploma, don Concetto sapeva contenersi così civilmente da indurre chiunque ad accettarlo come suo pari. Né stupì che gente avveduta come gli andreottiani lo invitassero a presentarsi candidato. Eletto con molti voti al Parlamento, subito intraprese fervide campagne per indurre i colleghi a varare finalmente una legge che prevedesse l’istituzione di un Ministero dello Sport. Quando ci invitò a Siracusa perché ne appoggiassimo l’uzzolo, io non temetti di inimicarmelo affermando “coram populo” che i governi italiani duravano in media sei mesi, e quindi la creazione di un Ministero dello Sport avrebbe causato ogni sei mesi la nomina di nuovi custodi dei gabinetti in tutti gli stadi italiani.
Mi ascoltò sorridendo con denti da pascià turco in procinto di ordinare una carneficina di schiavi cristiani. Tuttavia, non me ne volle. E quale deputato accettò di presiedere la Federazione della Pallamano. Nel calcio venne continuato dal figlio, e non risulta abbia molto brigato per non dover lasciare la ribalta. Gli bastava il ricordo delle molte battaglie ingaggiate e vinte. Gli bastava la stima degli onesti. Malato, seppe ritirarsi in dignitoso riserbo. Il suo carattere adamantino rifulse proprio quando avremmo potuto temere che si offuscasse nella tremenda sofferenza fisica. Io lo ricorderò come un amico e soprattutto come un campione.
A lui tutta la nostra riconoscenza di uomini di sport, a lui il commosso augurio che fu degli antichi: “sit tibi terra levis”, ti sia lieve la terra.
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