È scomparso il più grande portiere di tutti i tempi – si legge su “Hurrà Juventus dell'ottobre 1978” – lo spagnolo Ricardo Zamora. Ecco come Io ricordano Vladimiro Caminiti su “Tuttosport” ed Alberto Fasano sulla “Gazzetta del Popolo”. Se chiedi ad un ragazzo d’oggi chi sia stato Zamora, può capitare di avere risposta. È capitato al vostro scrivano. Sua figlia diciottenne ha risposto: è stato un portiere di calcio. È meraviglioso quando la vita entra nelle case con gli angeli consolatori del passato. Non si può vivere solo di presente o di futuro. Però nostra figlia sbagliava l’articolo. Zamora non è stato un portiere. È stato il portiere.
I tempi in cui viviamo corrono e fuggono. Pare che il passato non interessi più a nessuno. Nessuno o quasi però sa chi sia stato Rava o Carapellese perfino. Il passato interessa solo ai vecchi, ai malinconici. I ragazzi d’oggi puntano troppo in alto per potersi occupare di personaggi che ebbero risalto quando non c’era la televisione, quando esistevano i mestieri, il calzolaio sapeva riparare un paio di scarpe, l’avvocato sapeva fare l’avvocato, il dottore sapeva fare il dottore. Molti ragazzi amavano perfino di fare il barbiere.
I tempi in cui giocò Ricardo Zamora sono antichi. Giocò già a diciassette anni nell’Español (1918), poi nel Barcellona, poi diventò nazionale. Non parava come tanti portieri di oggi. Parava da dio, voglio dire. Era immenso come la porta di una cattedrale, ma al contempo fantasioso come un cerbiatto. Era triste a guardare, quasi lugubre, ma sapeva ridere facendo fracasso. Quelle risate pazze dei nostri nonni, quando per un nonnulla, dopo tenebrosi silenzi, decidevano di ridere.
Il modo di parare di Zamora, implacabile e lussuoso, ha fatto la sua leggenda. Egli aveva tutto quello che i portieri d’oggi vorrebbero avere. Aveva il fisico per opporsi alle stangate, aveva l’agilità per volare da palo a palo, aveva la tracotanza per comandare a bacchetta i suoi terzini Quincoces e Ciriaco.
Capitava agli attaccanti di vederselo crescere davanti, come spuntato dalla terra, un globo di mani sterminate ed una risata grottesca, ma la verità era più semplice. Zamora aveva studiato la lezione, si era applicato anche nella vita privata, non improvvisava mai. Realizzava il suo ruolo nella maniera più innocente e più maliziosa.
Egli diventò famoso anche in Italia. Il 29 maggio 1927, si inaugurava lo stadio del Fascio Littorio nella città più turbolenta del paese, la città dei rossi e del quasi rosso Arpinati, delfino riottoso del Duce: Bologna. Lo stadio era gonfio e pittoresco come un uovo di Pasqua. Un tripudio di folla e di sole. Zamora era atteso quasi con paura. Tre anni prima, a Milano, quasi da solo aveva fermato gli azzurri.
L’Italia si buttò ciecamente all’attacco e Libonatti al 31’ dribblò tre spagnoli prima di dare a Baloncieri, lo scienziato del passaggio, il primo regista della storia, il pallone dell’1-0. L’Italia avrebbe segnato anche un secondo goal, per un pasticcio di uno dei loro, dopo che Zamora, impressionante per agilità, lievitante per eleganza, aveva parato almeno dieci palle goal.
Zamora era il portiere che parava l’imparabile. Si può dissertare sul ruolo. Noi pensiamo che esso, anche in Italia, sia malinconicamente declinato. Infatti le eccezioni, uno Zoff, un Albertosi confermano la regola.
Si pensi alla realtà di un giocatore che, in tempi di frontiere chiuse e sprangate, di letture autarchiche, di geni fatti in casa, con un Carnera inventato fuoriclasse, con la razza presunta latina e destinata alle guerre, da lontano arrivava tra noi ad insegnare, ad ammaestrare. Zamora spiegava il ruolo di portiere anche ai nostri portieri più grandi, Ceresoli o Combi, come Garcia Lorca spiegava la poesia. Era gigantesco in quanto nato per il ruolo, nato artista.
Il fatto che il suo mito abbia resistito al cinismo dei nostri giorni dimostra che il calcio non cambia, che tutto è ancora come ieri, che i veri campioni non hanno età.
La leggenda di Zamora affonda nella storia del calcio cioè nel carattere dell’uomo. Il portiere è la sentinella che passeggia davanti alla porta, è l’uomo che diventa uccello, è il solitario che una condizione diversa esalta su una parabola. Non si può essere grandi in questo ruolo senza predestinazione e senza sacrificio. Lo testimonia la grandezza di Dino Zoff portiere magnetico la sua parte come l’immenso ineguagliabile Zamora (si pensi ai tre rigori parati da Dino in quella notte agli arcieri delI’Ajax).
Non si può essere grandi in niente senza applicazione, senza allenamento, senza serietà morale. Gli storici di Zamora scrivono che egli si allenava durissimamente, per ore ed ore, restando solo in campo dopo che i compagni erano già a cena od a ballare. Chi è quel matto che sta ancora a correre e fare capriole, domandavano i rari passanti. È il portiere Zamora. Il mas grande dei portieri di ogni tempo, 46 volte nazionale di Spagna, che non ebbe nomignoli, si chiama soltanto Zamora, come Marconi si chiama soltanto Marconi. Un genio. Un professionista dei giorni tenebrosi del dilettantismo.
VLADIMIRO CAMINITI
È ancora vivo ed abita a Genova l’ex azzurro Adolfo Baloncieri (47 presenze in nazionale, 25 goal segnati, 28 volte capitano della nostra squadra), il calciatore italiano che ebbe la ventura di giocare per nove volte contro la nazionale di Spagna e che per sette volte si trovò di fronte a Ricardo Zamora, il leggendario portiere iberico, uno dei più forti nel ruolo mai apparsi tra i pali da quando esiste il calcio.
Baloncieri vide per la prima volta Zamora alle Olimpiadi di Anversa, il 2 settembre 1920 e lo ebbe come irriducibile avversario proprio in occasione dell’ultima gara giocata in maglia azzurra il 22 giugno 1930 a Bologna: una sconfitta per 2-0 nel primo confronto, una sconfitta per 3-2 nell’ultimo, dopo dieci anni di terribile lotta. Poi Baloncieri appese le scarpe al chiodo, ma non altrettanto Zamora che tornò in Italia nel 1934 per disputare il Campionato del Mondo. Ed è sufficiente ricordare che con quello strepitoso portiere tra i pali la Nazionale spagnola non venne superata a Firenze il 31 maggio dagli azzurri (risultato: 1-1). Solo il giorno dopo, con Nogues tra i pali, la squadra italiana riuscì a qualificarsi per le semifinali grazie ad un goal di Meazza.
Per Ricardo Zamora, strepitoso portiere, ottimo allenatore, selezionatore della Nazionale, preparatissimo dirigente di società e della federazione spagnola, il gioco del calcio non ebbe segreti, perché lo conobbe e lo visse dall’interno in tutti i suoi aspetti. Fin dagli anni della scuola si era messo in luce per le sue eccezionali qualità: il suo colpo d’occhio, la sua agilità (malgrado l’alta statura), il suo coraggio, il senso di posizione ed il tempismo, l’autorità ed il temperamento. Naturalmente tutto questo repertorio non passò inosservato ai tecnici che a quei tempi seguivano attentamente ogni possibile rivelazione.
La sua carriera ebbe uno sviluppo rapido e trionfale. Il suo esordio ufficiale avvenne nell’aprile del 1916 quando difese la rete del Real Club Deportivo Español di Barcelona contro il Real Madrid. Dopo vent’anni di strepitosi successi, Zamora giocò l’ultima sua partita nel giugno del 1936 giocando nel Real Madrid una finalissima della Coppa di Spagna contro il Barcelona.
Non è esagerato affermare che il calcio spagnolo deve in gran parte a Ricardo Zamora la collana di clamorosi trionfi conquistata nel decennio che va dalle Olimpiadi di Anversa al 1930, periodo che può essere considerato quello di maggior splendore delle “Furie rosse”. Indubbiamente fu Zamora a portare il calcio spagnolo alla ribalta internazionale ed a tenercelo a lungo. La sua fama va considerata superiore non solo a quella di altri atleti dello sport iberico, come il pugile Paulino Uczudum o dei ciclisti Vicente Trueba e Federigo Bahamontes, ma anche del celebre “Espada Tallito” (asso degli assi delle arene) finito tragicamente nella “Plaza de toros” di Talavera de la Reina. La stella del grande portiere spagnolo brillò di vivida luce durante quasi quattro lustri e nessun’altra è sinora apparsa nel firmamento calcistico spagnolo che possa essere paragonata alla sua.
Dal 1920, quando debuttò in Nazionale contro la Danimarca alle Olimpiadi di Anversa, Zamora ha poi indossato per 46 volte la maglia della Nazionale di Spagna. I suoi ricordi più amari sono senz’altro le due clamorose sconfitte ad opera dell’Italia e dell’Inghilterra. Tutte e due le volte sette palloni finirono nella rete spagnola, ma tra i pali, al posto di Zamora, c’era il giovane Jauregui.
Zamora fu un atleta generoso e giusto, un uomo che seppe sempre riconoscere il valore degli avversari, specialmente dei due grandissimi rivali che giocavano ai tempi del suo massimo fulgore, l’italiano Giampiero Combi e il cecoslovacco Plánička, dei quali in ogni occasione parlò sempre con sincera ammirazione.
Per quanto riguarda la Nazionale italiana, ricordiamo che solo al terzo confronto con gli azzurri Zamora raccolse un pallone nella propria rete: ma si era trattato del famoso autogoal del terzino spagnolo Vallana. Solo nel 1927 un azzurro, la mezzala del Torino Adolfo Baloncieri riuscì a battere Zamora con un tiro folgorante. Ora che Zamora è scomparso, il vecchio Baloncieri ricorda con autentica commozione il fortissimo avversario.
ALBERTO FASANO
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