domenica 17 giugno 2012

UNO SU MILLE CE LA FA

GIAN LUCA SPESSOT, “GS” FEBBRAIO 2010:
Da Belgrado alla Germania per giocare nel Bayern: non ce l’ha fatta. Peter Radenković ha sofferto la fame prima di diventare una star fra i pali del Monaco 1860 e prendersi una rivincita su tutti i fronti. Tanto che a metà degli anni Sessanta, in Bavaria, il suo disco “Bin i Radi, bin i König” precedeva nelle classifiche di vendita “Ticket to ride” dei Beatles.


Quando, nel maggio del 1963, i funzionari della Federcalcio tedesca dovettero scegliere le squadre da ammettere alla Bundesliga (il campionato unico sorto a sostituzione dei vari tornei regionali che designavano i partecipanti alle finali nazionali), dovettero lasciare fuori il Bayern classificatosi al terzo posto di una Oberliga Süd vinta dai cugini del Monaco 1860.
Altri tempi. I rossi non avevano ancora iniziato a vincere tutto mentre i blu mettevano in mostra un calcio spavaldo, reso spettacolare da campioni del calibro di Brunnemaier, Grosser e poi Konietzka. In quel calcio genuino, fatto di acqua e pallone i protagonisti erano quasi tutti figli della guerra o degli stenti dei primi anni Cinquanta.
Una generazione speciale, fatta di uomini con alle spalle una storia speciale, anche perché allora non c’erano le play station o le veline ad invadere la vita degli eroi in pantaloncini corti. Di quel calcio ci sono rimaste solo delle bellissime immagini in bianco e nero e la voce dei protagonisti che tante volte ci lascia a bocca aperta non appena iniziano a riavvolgere il film della loro vita.
È il caso di Petar Radenković, il portiere di quel Monaco 1860 capace di vincere un campionato ed una Coppa di Germania, di giocarsi. a Wembley una finale di Coppa delle Coppe e di battere nell’andata del secondo turno della Coppa dei Campioni 1966/67 il mitico Real Madrid.
Come tutti i numeri uno di allora, Radenković era un personaggio eccentrico ed era anche molto avanti con i tempi. Lo dimostra l’elogio fatto dal rivale di mille stracittadine, il grandissimo Sepp Maier, in occasione dei settantacinque anni compiuti dall’ex collega: «Eri almeno vent’anni in anticipo rispetto agli altri. Un pioniere».
In effetti Radenković è stato uno dei primi a indossare i guanti anche d’estate ed aveva un modo di giocare che assomiglia a quello dei numeri uno moderni. Buon senso della posizione, ottimi riflessi ed un controllo di palla che gli permetteva di avventurasi, con la sfera fra i piedi, fino nella metà campo avversaria fra le urla di rabbia degli allenatori e quelle di gioia dei tifosi: «Avevo un modo di interpretare il ruolo tutto mio, uno stile che non faceva certo annoiare gli spettatori. Va però precisata una cosa: non lo facevo per divertirmi, semplicemente da ragazzo giocavo fuori dai pali ed avevo imparato che quando si è in possesso del pallone lo si gioca, non lo si butta mai via».
Ma andiamo con ordine. Petar Radenković nasce il primo ottobre del 1934, a Belgrado. Il padre era un cantante di musica popolare nonché chitarrista, noto con il nome d’arte di Rascha Rodell. È un giramondo e la moglie lo segue spesso nelle tournée.
Quando scoppia la seconda Guerra Mondiale i due si trovano negli Stati Uniti e non riescono a rientrare in Europa. Il piccolo Petar trascorre quindi la sua infanzia con i nonni ma la cosa non gli impedisce di frequentare le elementari prima ed i1 liceo poi, ottenendo il diploma di maturità nel 1953.
Quattro anni prima, nel 1949, era iniziata la sua carriera di calciatore con la maglia del Šumadija. Dapprima gioca fuori dai pali e, solo in un secondo momento diventa un portiere. Nel 1951 passa alla Crvena Zvezda ed un anno più tardi si trasferisce nell’Ofk Beograd dove si mette in luce tanto da venir convocato per le Olimpiadi di Melbourne, dove conquista la medaglia d’argento.
Un anno prima era convolato a nozze con Olga Borić, una giocatrice della Nazionale jugoslava di pallacanestro, ma proprio mentre tutto sembra filare per il verso giusto, nel 1958, viene chiamato sotto le armi. Ciò lo costringe a saltare i Mondiali disputatisi nello stesso anno in Svezia.
Finito il servizio militare, Radenković vuole tornare alla Crvena Zvezda ma í dirigenti dell’Ofk si oppongono e così, deciso a cercare fortuna all’estero, parte per la Germania. Allora il mondo era diviso in due e lo statuto della Fifa era molto più rigido di oggi: chi lascia va uno dei paesi dell’Europa dell’Est per andare a giocare altrove doveva star fermo un anno.
Radenković arriva a Monaco nell’inverno del 1960 perché un amico, un tale Milutinović, che giocava nel Bayern, gli aveva detto: «Vieni alla Säbenerstrasse così ti alleni con noi».
Radenković (sembra la scena di un film) arriva alla stazione centrale con la valigia e qualche soldo in tasca. Non ha una casa (è ospite di Milutinović) e non conosce una parola di tedesco. La prima squadra non sa che farsene di un portiere spaesato e sotto squalifica e lo manda ad allenarsi con le riserve. Ma anche lì è di troppo e il tre volte nazionale jugoslavo finisce fra le vecchie glorie del Bayern.
Cosa se ne fanno di i baldi vecchietti di un ventiseienne? Niente, e così Radenković si trova per strada. Ci sono giorni in cui tira avanti con pane duro ed un bicchiere di latte, finché, con le lacrime agli occhi, torna nella sua Belgrado: è la primavera del 1961. Prima di lasciare Monaco, si era ripromesso che sarebbe ritornato ed un paio di mesi più tardi, a soli tre mesi dalla fine dell’anno di squalifica, un amico gli trova un contatto con una squadra della Oberliga Südwest, la Wormatia Worms.
Per sbarcare il lunario lavora nella base militare Usa e, nel novembre del 1961, può finalmente scendere di nuovo in campo dopo dodici lunghissimi e sofferti mesi. Il talento non è andato perso e Radenković mette in mostra tutte le sue qualità tanto da attirare l’attenzione di Max Merkel, il tecnico del Monaco 1860.
Lo seguono per un paio di settimane finché, nella cassetta della posta, trova una busta che contiene un contratto che deve essere solo firmato. Siamo nell’estate del 1962 e Radenković è di nuovo nella città dove si era ripromesso di tornare: Monaco, anche se la maglia non è quella dei rossi ma dei blu.
Coni i “LBwen” vince tutto ma allora non girano tanti soldi come oggi: «Quando ho firmato il mio primo contratto con il Monaco 1860, mi avevano dato un appartamento in cui non pagavo l’affitto e uno stipendio che non mi bastava per vivere, tanto che avevo un secondo lavoro alla Coca-Cola. Solo così riuscivo a mettere insieme trentamila Marchi all’anno».
Capisce al volo che i proventi del calcio non bastano per star bene ma anche che lo sport ti da notorietà, soprattutto quando vinci. La fama è però passeggera e quindi la devi sfruttare prima che se ne vada.
Nell’aprile del 1965 decide di salire sul palcoscenico e di lanciare il suo disco “Bin i Radi, bin i König”: Radi era il suo soprannome, König significa sovrano mentre la i sta per “ich”, ovvero la storpiatura tipica di uno straniero che cerca di parlare il tedesco.
È un successo: vende 400.000 copie, scala le classiche di vendita tedesche ed in Baviera il suo singolo precede la mitica “Ticket to ride” dei Beatles.
Dopo la Coppa di Germania del 1964 arriva, nel 1965, il secondo posto in campionato e la finale di Coppa delle Coppe persa 2-0 contro il West Ham. Per poter calpestare il mitico prato di Wembley, il Monaco 1860 aveva battuto in semifinale il Torino.
All’andata si imposero 2-0 i granata ma al ritorno, alla Gründwalder Strasse, i bavaresi vinsero 3-1. All’epoca i goal realizzati in trasferta non valevano doppio e così fu necessaria la bella in campo neutro. Al Letzigrund Stadion di Zurigo, Radenkovie si supera: blocca, fra gli altri, un tiro a botta sicura di Simoni con un riflesso incredibile ed i “Löwen” vincono 2-0.
In finale il numero uno è strepitoso ma la Coppa gli sfugge e deve accontentarsi dei complimenti di un reporter inglese: «Seguo il calcio da vent’anni. Ho ammirato tutte le migliori squadre del mondo ma non ho mai visto un portiere più forte di Radenković».
Non è il calcio esasperato di oggi ed al ritorno a Monaco si fa festa lo stesso: i tifosi acclamano i giocatori che si presentano sulla terrazza del municipio con la bombetta in testa ed alla fine Radi prende in mano i1 microfono e canta il suo “Bin i Radi, bin i König”.
L’anno successivo arriva lo Schale e la partita con il Real. È l’inizio della fine. Radenković guida la rivolta contro il tecnico dello scudetto, Max Merkel, reo di averlo messo sotto pressione acquistando il giovane Wolfgang Fahrian, il portiere che era stato titolare a sorpresa della Germania Ovest ai Mondiali del 1962 in Cile.
L’allenatore austriaco ha avuto con il suo numero uno un rapporto di amore ed odio, anche se più che di amore si deve parlare di rispetto. Quando non lo faceva arrabbiare lo definiva il genio fra i pali ma quando l’umore era nero lo chiamava semplicemente Partisan. Una stima mai ricambiata come ricorda lo stesso Radenković: «Un cinico, uno che prendeva di mira qualche giocatore e lo terrorizzava».
Il secondo posto del 1967 segna l’ultimo acuto dei “Löwen” e di Radenković, che tuttavia non vuole lasciare la sua città di adozione: «Ho avuto offerte dal Koln e dall’Hertha, dall’Olanda e dalla Svizzera ma ero troppo legato a Monaco, una città dove avevo tanti affetti ma anche mille affari e quindi non sarebbe stato facile andarsene. Certo se mi avessero cercato il Real Madrid o il Barcellona sarebbe stato diverso ma allora non era facile trasferirsi all’estero perché le regole erano molto più rigide».
Con la fine degli anni Sessanta arrivano gli ultimi fuochi. Nel gennaio del 1967 Radenković dà dell’ubriaco all’arbitro Horstmann dopo la sconfitta in casa del Dortmund. Viene squalificato per tre giornate e si fa fotografare con la tenuta da carcerato ed un pallone incatenato al piede.
Il 3 maggio del 1970 i “Löwen” pareggiano in casa con 1’Essen quattro giorni dopo la matematica retrocessione. Quel 0-0 è l’ultima partita ufficiale giocata da Radenković che lascia il campo con le lacrime agli occhi mentre i tifosi cantano tutti insieme “Bin i Radi, bin i König”.
Sette anni più tardi, i campioni del 1966 indossano di nuovo i calzoncini per festeggiare l’addio al calcio del mitico Radi. Qualcuno ha già superato la quarantina ma i vecchietti affibbiano un netto 4-1 alla squadra allenata da Heinz Lucas ed appena ritornata nella Bundesliga. Per l’ultima volta Radenković mette in mostra tutta la sua classe.
Appesi definitivamente i guanti al chiodo, il sogno di Radenković sarebbe stato quello di rimanere nel mondo del calcio, possibilmente come direttore sportivo, magari, al Monaco 1860. Ma così non è stato, Radi non è mai riuscito a trovare un club disposto a mettere sotto contratto uno che era stato un grande portiere ma anche un personaggio piuttosto eccentrico. Ha quindi dovuto inventarsi un presente e un futuro lontano dal suo mondo.
Fin da calciatore curava i suoi affari ed ha sempre avuto una calcolatrice in una tasca e l’estratto conto nell’altra, quindi cambiare mestiere ed entrare nel mondo degli affari non è stato così difficile, soprattutto per uno che si era costruito una fama anche al di fuori dei campi di calcio.
Ha fatto il rappresentante per una ditta tessile, si è messo a vendere alcolici (Radi-Slibowitz), ha gestito un hotel vicino allo spiazzo dove si tiene l’Oktoberfest ex una discoteca, per poi finire in gastronomia con il suo Radis-Treff alle porte di Monaco ex un locale della catena Wienerwald nella sua Unterhaching.
Oggi Petar ha settantacinque ma l’età è un concetto astratto, un qualcosa che sta scritto sulla carta d’identità perché lui, il vecchio leone, dice di vivere esattamente come quindici anni prima. Solo una cosa è cambiata: nel gennaio scorso una brutta malattia gli ha portato via la moglie Olga. Un amore di altri tempi, di quelli che sbocciano quando sei poco più di un ragazzo e che ti accompagnano per tutta la vita.
Fin che morte non vi separi, dice il parroco allo scambio degli anelli. E così è stato per Petar ed Olga, unitisi in matrimonio il 29 giugno del 1955. Sono rimasti legati per più di cinquantatré anni e lui, il portiere che ha vinto tanto sui campi di calcio, è stato costretto ad arrendersi di fronte ad un avversario troppo forte: «La cosa più terribile era che non potevo fare nulla. Per cinque anni abbiamo fatto la spola fra diversi ospedali ma non potevo aiutarla in nessun modo ed alla fine l’ho vista morire, piano piano, giorno dopo giorno».
Per cercare di cancellare il dolore, Radenković viaggia molto e trascorre un paio di settimane a Beograd, lontano da una Monaco che gli evoca pensieri troppo tristi. Il primo ottobre scorso taglia un traguardo importante, quello delle settantacinque primavere, ma non c’è tanta voglia di far festa e quindi trascorre la giornata coi parenti e con gli amici più stretti e confessa che la casa di Unterhaching (un paesino alle porte della metropoli bavarese) è troppo grande: «La voglio vendere per trasferirmi un paio di mesi a casa di una delle mie figlie e poi decidere cosa fare della mia vita».
Probabilmente un giorno tornerà per sempre in patria, nella sua Belgrado ma senza dimenticare Monaco la città dove è arrivato nel 1962 e dove sono nate entrambe le figlie: «Sono legami che non puoi sciogliere tanto facilmente e magari farò il pendolare fra la Serbia e la Baviera».
A decidere gli spostamenti sarà sempre il calcio: «In qualità di capo delegazione della Serbia non posso mancare agli incontri della Nazionale ma quando il Monaco 1860 disputa delle partite importanti, anche se sono a Belgrado, prendo il primo volo per Monaco».
All’Allianz Arena aveva affittato una loggia per vip ma il contratto scade a giugno ed ha deciso di non rinnovarlo perché gli affari sono affari e se un investimento non da più i suoi frutti è meglio disfarsene al più presto. Anche da vecchio, Petar guarda sempre al futuro.


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