Ėduard Strel’cov era il più grande talento del calcio sovietico. Finì in carcere alla vigilia del mondiale 1958. Accusato di stupro, venne internato nei campi di lavoro. Per venire poi riabilitato cinque anni dopo. Una vita e una carriera distrutte per una colpa mai commessa.
Quando il 25 maggio del 1958 Ėduard Strel’cov varcò la soglia della dacia di Eduard Karakhanov, ufficiale militare da poco rientrato dalle lontane lande dell’Unione Sovietica orientale, tutto il mondo giaceva ai suoi piedi. Era alto, giovane, vigoroso, affascinante e soprattutto pieno di talento. Con un pallone tra i piedi sapeva fare cose incredibili. Mai visto nessuno come lui su un campo da calcio dell’URSS, affermavano all’unanimità i commentatori sportivi. Un’opinione, questa, diffusa anche nella parte di Europa sita a ovest della cortina di ferro, dal momento che nel 1957 il nome dell’allora ventenne Ėduard Strel’cov figurava al settimo posto nella graduatoria del Pallone d’Oro, assegnato quell’anno ad Alfredo Di Stéfano.
Pochi giorni dopo quella tiepida sera di maggio, l’Unione Sovietica debuttava nella fase finale di un Campionato Mondiale pareggiando 2-2 contro l’Inghilterra. Strel’cov però non era presente. Né in campo, né tantomeno in tribuna (all’epoca non c’erano ancora le sostituzioni). Era rinchiuso in una cella del “Butirka”, uno dei più duri carceri sovietici, in attesa di giudizio per un’accusa di stupro. Fu condannato a dodici anni e spedito in un gulag. Per un crimine che, a detta di molti, non aveva mai commesso.
Strel’cov rappresentava uno squarcio di luce nel plumbeo cielo del calcio sovietico dei primi anni cinquanta. Fino alla morte di Stalin, avvenuta nel 1953, la pressione sulla nazionale dell’URSS era enorme. Il calcio era politica, ed ogni sconfitta rappresentava uno sfregio all’immagine dello stato sovietico. Quando nel 1952 alle Olimpiadi di Helsinki l’Urss fu eliminata dalla Jugoslavia, un giornale di Belgrado titolò «Tito batte Stalin 3-1».
Furibondo, il dittatore georgiano colpì duramente il CDSA Mosca, la squadra dell’esercito (oggi Cska) i cui giocatori costituivano l’ossatura principale della Nazionale, smantellando il club e sospendendo a vita tre calciatori. La dipartita di Stalin aveva reso l’ambiente più respirabile. Al resto ci aveva pensato Strel’cov, che aveva debuttato nel 1954 tra le fila della Torpedo Mosca (il quinto club della capitale, all’epoca legato alla Zil, azienda produttrice di auto e camion) stabilendo subito un primato: a sedici anni, otto mesi e ventiquattro giorni era diventato il più giovane marcatore di sempre nella storia del campionato dell’Unione Sovietica. Subito cooptato dalla Nazionale, aveva esordito rifilando una tripletta alla Svezia in un incontro amichevole. Ai giochi olimpici di Melbourne del 1956 era arrivato il suo capolavoro.
Era un’Unione Sovietica con i cerotti quella che stava cercando di resistere alla Bulgaria nelle semifinali delle Olimpiadi, dopo aver eliminato nei turni precedenti la Germania Ovest (rete decisiva di Strel’cov) e l’Indonesia. L’esterno destro Nikolay Tyschenko giocava con una clavicola rotta, mentre l’attaccante Valentin Ivanov zoppicava vistosamente. Non esistendo ancora i cambi, l’URSS giocava in nove uomini, pagando dazio nei primi minuti dei tempi supplementari: 1-0 per la Bulgaria, che però non aveva fatto i conti con Strel’cov, diciannovenne già dotato di sufficiente classe e personalità per caricarsi sulle spalle la squadra e realizzare una doppietta nelle battute finali. I sovietici vinceranno l’oro olimpico, con Strel’cov però relegato in panchina per scelta tecnica.
Gavriil Kachalin, il commissario tecnico dell’URSS, voleva infatti che la coppia d’attacco fosse composta da giocatori dello stesso club, pertanto già affiatati. Fuori Ivanov per infortunio, automaticamente era scattata la panchina anche per Strel’cov, che non ricevette nemmeno la medaglia (la politica dell’URSS prevedeva che questa venisse consegnata solo a chi effettivamente aveva disputato la finale).
Nikita Simonyan, il sostituto di Strel’cov durante l’ultimo atto, gli offrì la propria a fine incontro. «Non preoccuparti Nikita», fu la risposta, «ne ho di tempo per vincere tanti altri trofei». Forse sarebbe stato davvero così, se poco meno di due anni dopo Strel’cov non si fosse imbattuto in Marina Lebedeva.
Torniamo alla famigerata sera del 25 maggio 1958 nella dacia di Karakhanov, dove la vodka scorre a fiumi e le belle donne non mancano. Strel’cov non è mai stato insensibile né a Bacco né a Venere. La mattina seguente si sveglia accanto alla giovane Lebedeva. Poche ore dopo viene arrestato con l’accusa di averla stuprata.
Durante l’interrogatorio un agente del KGB avvicina il prigioniero: «Fuori da qui ti aspettano i Mondiali in Svezia. Confessa e ti facciamo uscire». Strel’cov ci casca ed accetta, firmando la propria condanna. Il suo futuro non sarà la sfida contro Pelé, oppure Hamrin, Rhan o Fontaine, bensì quella per la sopravvivenza in un campo di lavoro e di rieducazione.
Colpevole o vittima di un complotto? È uno dei più grandi misteri del calcio russo. Debole appare la teoria che vuole Strel’cov punito per aver rifiutato di trasferirsi dalla Torpedo alla Dinamo Mosca irritando i proprietari di quest’ultima, ovvero il KGB. Ben più fondata è invece l’ipotesi che tutta la vicenda fu una macchinazione a opera di Yekaterina Furtseva, l’unica donna ad essere mai stata ammessa nel Politburo, l’organo esecutivo del PCUS, il Partito Comunista Sovietico.
I due si erano conosciuti nell’atrio del Cremlino durante le celebrazioni per la vittoria olimpica. Fu in quell’occasione che la Furtseva chiese a Strel’cov di sposare la sedicenne figlia Svetlana, ottenendo un secco rifiuto. «Sono già fidanzato e presto convolerò a nozze», replicò il giocatore, che poco dopo, forse tradito dai fumi dell’alcol, calcò la mano con un gruppo di amici: «Non sposerò mai quella scimmia».
Passano poche settimane, e sulla stampa . inizia un’alquanto sospetta campagna di denigrazione contro l’idolo indiscusso del calcio sovietico. «Questo non è un eroe», titola a tutta pagina il “Sovetsky Sport” nell’aprile 1957 per commentare l’espulsione di Strel’cov, per fallo di reazione, in una partita contro la Dinamo Minsk. Curioso rilevare come tra il 1954 ed il 1958 nel campionato sovietico ci furono 45 espulsioni per gioco violento; la stampa ne riportò, dedicandogli un trafiletto, meno della metà. Strel’cov fu l’unico ad avere il titolone in prima pagina.
Ėduard Strel’cov torna a casa nel 1963 dopo cinque anni di prigionia, ma la squalifica a vita comminatagli al momento della condanna gli viene revocata da Leonid Brežnev, subentrato a Nikita Kruscev (il “protettore” politico della Furtseva) quale Primo Segretario del PCUS, nell’ottobre del 1964. Può così lasciare l’Otk, la squadra aziendale del Dipartimento di Supervisione Tecnica della Zil, per la sua amata Torpedo Mosca.
In campo scende un giocatore lento, appesantito, ma dalle qualità tecniche e balistiche ancora intatte. Nel 1965 la Torpedo è campione nazionale, tre anni dopo arriva anche la coppa dell’URSS. Strel’cov viene votato calciatore sovietico nel 1967 e nel 1968.
Nel frattempo era pure tornato in Nazionale, nella quale totalizza 38 presenze e 24 reti. Il primo novembre 1966 è in campo a Milano contro l’Italia, irriconoscibile, con tanti chili in più e tanti capelli in meno. Gli azzurri vincono 1-0 grazie a un goal di Guameri. E la platonica rivincita della sconfitta subita a Sunderland qualche mese prima in occasione della Coppa Rimet disputata in Inghilterra. Poteva essere il terzo mondiale di Strel’cov dopo quelli del 1958 e del 1962.
Ėduard Strel’cov muore nel 1990 a soli cinquantatré anni per un cancro alla gola, causato con tutta probabilità dai lavori nelle miniere siberiane. Solo sul letto di morte rompe il silenzio che ha sempre mantenuto sulla vicenda, confessando ai famigliari la propria innocenza.
Oggi lo stadio della Torpedo Mosca porta il suo nome. Secondo Axel Vartanyan, storico ed archivista del calcio nell’era sovietica, il valore simbolico di Strel’cov è enorme. In un mondo di intrighi ed oppressione di stato, lui era eroicamente indipendente.
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